Mangiare meno carne non serve a un cazzo  

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L’ultimo dell’anno: che cosa stavate facendo a pochi minuti dallo scoccare della mezzanotte? Io, ironicamente, salutavo l’inizio del 2023 assistendo ad una discussione sull’impatto ambientale dell’industria della carne. Dico ironicamente perché l’1 gennaio non aveva solo inizio il nuovo anno, ma anche il cosiddetto Veganuary, la sfida che consiste nel mangiare vegano per tutto il mese di gennaio. Le posizioni a confronto erano due: al fine di salvaguardare il pianeta, limitare il consumo della carne e di prodotti animali non serve, sostanzialmente, a niente; adottare una dieta vegetariana o vegana può contribuire alla lotta contro il cambiamento ambientale. Eccomi qui, dunque, a dedicare al tema questo articolo, nato dalla necessità di trovare una risposta a chi, a pochi minuti dalla mezzanotte, mi ha detto: «Mangiare meno carne non serve a un cazzo».

L’industria alimentare produce un quarto delle emissioni globali

L’industria alimentare è responsabile del 26% delle emissioni globali di gas serra. È quanto riportato da Joseph Poore e Thomas Nemecek, in un articolo pubblicato nel 2018 sulla rivista Science.

L’anidride carbonica (CO2) è il gas serra più noto. Essa è prodotta dall’uso di combustibili fossili, dall’attività industriale e dal cambiamento di destinazione del suolo. Esistono, poi, altri gas che hanno contribuito in modo altrettanto significativo alla crisi ambientale: tra questi il metano (CH₄), il protossido di azoto (N₂O) e i cosiddetti “gas fluorurati”, che comprendono i clorofluorocarburi e gli idroclorofluorocarburi. Tutti questi gas vengono comunemente chiamati “a effetto serra” perché trattengono il calore che la Terra, riscaldata dal Sole, emette verso lo spazio. Il loro accumulo nell’atmosfera ha come principale conseguenza quella di aumentare la temperatura del pianeta.

Secondo i risultati di Poore e Nemecek, l’allevamento e la pesca rappresentano il 31% delle emissioni del settore alimentare. L’allevamento di animali per la produzione di carne, latticini, uova e l’industria ittica contribuiscono alle emissioni globali di gas serra in diversi modi. I ruminanti producono metano attraverso i loro processi digestivi. Ha un ruolo determinante anche la gestione del letame e dei pascoli. Inoltre, è da considerare il consumo di carburante dei pescherecci.

La produzione di alimenti vegetali costituisce il 27% delle emissioni dell’industria del cibo. In particolare, il 21% deriva dalle colture destinate direttamente all’alimentazione umana, mentre il 6% dalla produzione dei mangimi per gli allevamenti. Questo valore include il rilascio di protossido di azoto provocato dall’applicazione di fertilizzanti e letame, ma anche l’anidride carbonica generata dall’uso dei macchinari agricoli.

Il 24% delle emissioni è conseguenza dei processi di trasformazione del terreno. L’espansione agricola, infatti, avviene di pari passo con la conversione di foreste e praterie in terreni coltivati o pascoli.

Infine, le catene di approvvigionamento rappresentano il 18% delle emissioni del sistema alimentare globale. La lavorazione degli alimenti, il trasporto, l’imballaggio e la vendita al dettaglio richiedono tutti un apporto di energia e risorse. Il trasporto produce il 6% delle emissioni dell’industria del cibo. Le operazioni di imballaggio e di lavorazione degli alimenti generano, in tutto, il 9 % delle emissioni del settore. La vendita al dettaglio ne emette il 3%.

Grafico preso da Our World in Data. Per vedere l’immagine originale e consultare il sito andare al link.

In futuro, una delle maggiori sfide che gli esseri umani dovranno affrontare sarà la riduzione delle emissioni di gas serra derivanti dall’industria alimentare. Attualmente le soluzioni possibili non sono note, né facili da immaginare. I fertilizzanti sembrano l’unica opzione possibile, in grado di soddisfare la crescente domanda di cibo. Ugualmente non possiamo impedire al bestiame di produrre metano. Sarà, quindi, essenziale mettere in discussione l’odierno sistema globale di produzione e commercializzazione del cibo. Ma non sarà una cambiamento semplice. Il sistema alimentare globale, infatti, dovrà riuscire a coniugare il rispetto per le risorse del Pianeta alla necessità di sfamare un numero crescente di persone.

1 kg di carne di manzo genera emissioni 200 volte più grandi di 1 kg di patate

Dallo studio di Poore e Nemecek emerge che ci sono differenze notevoli nelle emissioni di gas serra prodotte dalla filiera di produzione e commercializzazione dei diversi alimenti. I due ricercatori considerano le emissioni totali di gas serra per chilogrammo di prodotto alimentare. Usano come unità di misura i chilogrammi di “equivalenti di anidride carbonica” (kg di CO2-equivalenti). Questa metrica tiene conto non solo dell’anidride carbonica, ma anche di tutti i gas serra responsabili del surriscaldamento globale.

Grafico preso da Our World in Data. Per vedere l’immagine originale e consultare il sito andare al link.

In particolare, Poore e Nemecek dimostrano che l’industria della carne e, più in generale, quella dei prodotti di origine animale emettono quantità di gas serra maggiori del settore degli alimenti vegetali. Un chilo di carne di manzo produce circa 99,5 kg di CO2-equivalenti. La coltivazione di un chilo di patate ne genera solo 0,46 kg. Per produrre un chilo di tofu si diffondono nell’atmosfera circa 3 kg di CO2-equivalenti, pari a un terzo delle emissioni rilasciate da un chilo di carne di pollo.

In generale, gli alimenti di origine animale hanno un’impronta maggiore rispetto a quelli di origine vegetale. L’agnello e la carne di pecora emettono 40 kg di CO2-equivalenti per ogni chilogrammo prodotto. Un chilo di formaggio produce 24 kg di CO2-equivalenti. La carne di maiale ha un’impronta inferiore, ma comunque superiore a quella della maggior parte degli alimenti di origine vegetale: la sua produzione genera 12 kg di CO2-equivalenti.

Grafico preso da Our World in Data. Per vedere l’immagine originale e consultare il sito andare al link.

Secondo i dati raccolti da Poore e Nemecek, il trasporto contribuisce in misura ridotta alle emissioni prodotte dall’industria alimentare. Per la maggior parte dei prodotti rappresenta meno del 10% del valore totale di emissioni. Per la carne di manzo proveniente da allevamenti è pari allo 0,5%. Tutti i processi della catena di approvvigionamento della carne di bovino, una volta che il prodotto ha lasciato l’azienda agricola, quali la lavorazione, la vendita al dettaglio e l’imballaggio, rappresentano solo una piccola quota delle emissioni prodotte. Al contrario la maggior parte delle emissioni dell’industria del cibo deriva direttamente dall’attività delle aziende agricole e degli allevamenti.

L’industria della carne è tra i principali responsabili della deforestazione

Metà della terra abitabile mondiale è utilizzata per l’agricoltura e per l’allevamento. L’utilizzo e la trasformazione del terreno sono un altro fattore determinante nel stabilire la quantità di emissioni prodotte dal sistema globale del cibo. Dall’espansione dell’agricoltura e degli allevamenti, infatti, deriva la conversione del paesaggio naturale in terreni coltivati o pascoli.

In un articolo sulle cause della deforestazione, pubblicato su Our World in Data, Hannah Ritchie scrive che l’espansione dei pascoli per l’allevamento del bestiame è responsabile del 41% della deforestazione tropicale globale. Ogni anno sono disboscati in media 2,1 milioni di ettari di terreno, pari a 20.000 km2, poco più della superficie del Lazio.

L’olio di palma e la soia occupano spesso le prime pagine dei giornali per il loro impatto ambientale. Sono classificati come “semi oleosi”, che comprendono anche una serie di prodotti minori come girasole, colza e sesamo. Secondo i dati presentati da Ritchie, essi causano il 18% della deforestazione tropicale globale. La soia è il seme oleoso più diffuso in America Latina. Sebbene molti pensino subito a prodotti alimentari come il tofu o il latte di soia, la maggior parte della produzione mondiale di soia viene utilizzata come mangime per il bestiame o come biocarburante. Solo il 6% è destinato direttamente all’alimentazione delle persone.

Insieme, la carne bovina e i semi oleosi rappresentano quasi il 60% della deforestazione globale.

Grafico preso da Our World in Data. Per vedere l’immagine originale e consultare il sito andare al link.

L’impronta idrica della carne supera quella dei prodotti vegetali

L’ industria della carne ha un’impronta idrica elevata e consuma molta più acqua rispetto a quella necessaria per la produzione di alimenti vegetali. Lo afferma la Water Footprint Network, un’organizzazione internazionale che coinvolge aziende, associazioni e singoli individui con l’obiettivo di “risolvere le crisi idriche mondiali promuovendo un uso equo e intelligente dell’acqua”.

Il primato lo detiene, ancora una volta, la carne di bovino che, secondo i dati dell’associazione, per ogni chilo prodotto consumerebbe 15.400 litri. Un chilo di carne di pecora richiede, invece, 10.400 litri d’acqua. Sono necessari 6.000 litri per un chilo di carne di maiale, 5.500 per un chilo di carne di capra e 4.300 per un chilo di carne di pollo.

Un hamburger pesa mediamente tra i 150-200 g. Quindi, per produrre un hamburger di 200 g sono necessari 3080 litri di acqua. Con una quantità simile di acqua è possibile farsi 40 docce da 5 minuti l’una e riempire 16 vasche da bagno.

Perché mangiare meno carne, o non mangiarne affatto, ha senso.

Se assunta singolarmente, la decisione di mangiare meno carne, o di non mangiarne affatto, non serve a un ca**o. La filiera di produzione e commercializzazione dei prodotti di origine animale non è la sola responsabile della crisi ambientale, né l’unica a emettere enormi quantità di gas serra. Allora perché mangiare meno carne, se non serve a niente?

Immaginiamo di fare lo stesso discorso con un altro settore. Ad esempio con l’industria della moda. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, oggi la moda è responsabile del 10% della produzione globale di anidride carbonica, più dei voli internazionali e dei trasporti marittimi messi insieme. Inoltre, rappresenta un quinto dei 300 milioni di tonnellate di plastica prodotti ogni anno a livello globale. Tuttavia, se ci limitassimo esclusivamente a non comprare più capi di aziende di fast fashion, sarebbe inutile tanto quanto limitarsi a non mangiare carne.

La verità è che se presa singolarmente ogni causa responsabile del cambiamento climatico non ha senso di essere combattuta. La crisi ambientale richiede di modificare non uno dei nostri comportamenti, ma la maggior parte di essi. Quando decidiamo di combattere per la sopravvivenza dell’umanità sul Pianeta, ha senso preferire una causa ad un’altra? No. Ha senso non mangiare carne o quanto meno mangiarne di meno? Ha senso non acquistare capi di aziende fast fashion? Si. Perché altrimenti l’unica cosa che ci resta da fare è rimanere fermi nell’attesa che il mondo ci crolli attorno.

Autore

Nata a Ferrara, tra la nebbia e le biciclette. Quando non ho la testa tra le nuvole, mi piace nascondere il naso nelle pagine di un libro o dietro una macchina fotografica. Scrivo di lotte e diritti, mi piace raccontare dei posti e della gente di cui nessuno parla mai. Frequento assiduamente i mercatini dell’usato e al tiramisù non dico mai di no, queste sono le uniche regole di vita che mi so dare.

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