Qual è il problema di Eni e perché Greenpeace Italia e ReCommon porteranno l’azienda in tribunale

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A febbraio Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadini e cittadine italiane porteranno Eni in tribunale. Per la prima volta in Italia un’azienda verrà portata davanti a un giudice con l’obiettivo di imporre il rispetto di determinati standard climatici. In particolare, le parti chiedono che Eni risponda dei danni provocati al clima del pianeta e che rispetti l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, riducendo le emissioni derivanti dalle sue attività di almeno il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020. 

Perché proprio Eni? 

L’azienda è il più grande emettitore italiano di gas climalteranti. La ricerca History of Eni emissions 1953-2022 and attributed climate reparations, condotta da Richard Heede del Climate Accountability Institute, mostra che dal 1953 al 2022 l’azienda ha prodotto in totale 9.069 miliardi kg di CO₂ equivalenti (chilogrammi di equivalenti di anidride carbonica) di gas serra. Considerando che, nello stesso periodo di tempo, sono stati emessi globalmente 1.675.856 kg di CO₂ equivalenti in tutto, Eni rappresenta lo 0,5% delle emissioni globali dal 1953. Un valore che a prima impressione può sembrare minimo, ma se si considera che non sono emissioni di gas serra di un intero settore né di tutto un paese, assume un significato diverso: è una sola ed unica azienda. 

Per capire l’ordine di grandezza nel quale ci si trova può essere utile cambiare periodo: dal 1988 al 2022 Eni ha emesso in totale 7.202 miliardi di kg di CO₂ equivalenti di gas serra, costituendo cioè lo 0,6% delle emissioni globali. Negli stessi anni, un’azienda come la Saudi Aramco, tra le più grandi compagnie petrolifere al mondo, ha rappresentato il 4,8% delle emissioni totali globali. Oppure, ad esempio, la Shell, ha prodotto l’1,8% delle emissioni globali dal 1988. Eni ha dei valori più piccoli, ma sicuramente non meno significativi e, soprattutto, rappresenta un caso tutto italiano.  

Eni, inoltre, sapeva fin dai primi anni Settanta dei danni sul clima causati dallo sfruttamento delle risorse fossili. È quanto emerge dal rapporto realizzato da Greenpeace Italia e ReCommon, Eni sapeva. Nel 1969 Eni affida a un suo centro studi, l’Istituto per gli Studi sullo Sviluppo Economico e il Progresso Tecnico (ISVET), la realizzazione di un’indagine sui costi dell’inquinamento. Nell’introduzione del rapporto di sintesi di questo lavoro si legge: «Ad esempio, l’anidride carbonica presente nell’atmosfera, secondo un recente rapporto del Segretario dell’ONU, data l’accresciuta utilizzazione di olii combustibili minerali, è aumentata nell’ultimo secolo del 10% in media nel mondo; verso il 2000 questo incremento potrebbe raggiungere il 25%, con conseguenze “catastrofiche” sul clima». Già allora, perciò, Eni era a conoscenza del fatto che immettere CO₂ nell’atmosfera potesse provocare danni irreparabili al clima.

Un anno dopo, l’azienda costituisce una nuova società, la Tecneco, fondata con l’obiettivo di «consolidare ulteriormente il contributo dell’Eni alla lotta contro gli inquinamenti al livello richiesto dalle necessità del Paese», come si legge nella “Relazione e bilanci al dicembre 1971” dell’azienda. Nel 1978, la Tecneco redige il volume Ambiente e fonti di energia esauribili o rinnovabili. Eni appare consapevole di come l’anidride carbonica sia «il prodotto definitivo di ossidazione dei combustibili fossili». Ne attesta l’aumento di concentrazione e scrive: «Si presume che col crescente consumo di combustibili fossili, che ebbe inizio dalla rivoluzione industriale, la concentrazione di CO₂ raggiungerà i 375-400 p.p.m. nell’anno 2000, supponendo che il 35- 45% della CO₂ emessa rimanga nell’atmosfera». E aggiunge subito dopo: «Questo aumento viene considerato da alcuni scienziati come un possibile problema a lungo termine, soprattutto perché esso potrebbe modificare il bilancio termico dell’atmosfera determinando dei cambiamenti climatici con gravi conseguenze per la biosfera». Eni sapeva già tutto. 

Eppure, continua a investire in combustibili fossili, facendo greenwashing e proponendo false soluzioni. Negli anni Ottanta sulla rivista aziendale Ecos compaiono diversi avvertimenti sull’effetto serra. In contemporanea, però, porta avanti campagne pubblicitarie che promuovono il gas naturale, composto principalmente da metano. 

Inoltre, fa parte di IPIECA, ossia l’International Petroleum Industry Environmental Conservation Association. Lo storico Bonnueil, in un’intervista a Greenpeace Italia e ReCommon, spiega: «Sebbene l’IPIECA non si sia mai descritta come un gruppo di pressione, dal 1988 al 1994 è diventata chiaramente un canale attraverso il quale le compagnie petrolifere di tutto il mondo hanno condiviso informazioni e strategie relativamente ai lavori delle Nazioni Unite sulla strada verso il Vertice della Terra di Rio del 1992 e ai dettagli dei negoziati sulla Convenzione sul cambiamento climatico». E in poco tempo, sotto la guida di Duane LeVine, responsabile scientifico e strategico della Exxon, l’IPIECA diventa uno strumento per negare l’esistenza dei cambiamenti climatici e limitare le misure della politica internazionale. 

A dimostrarlo, quanto detto da Ennio Profili, l’allora manager del dipartimento Sicurezza, qualità e protezione ambientale di ENI, durante un simposio organizzato in vista della Conferenza delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro: «Ancor prima di prendere decisioni politiche, quali ad esempio l’adozione di una carbon tax, che potrebbe condurre a tragiche e inaspettate conseguenze a livello economico, è necessario ottenere dati dall’elevata affidabilità scientifica e conferme su diversi controversi punti». 

Ancora oggi, Eni continua a investire le proprie risorse sui combustibili fossili. Ha annunciato, infatti, che la sua produzione crescerà a una media del 3% all’anno fino a raggiungere un plateau di circa 1,9Mboe/d (milioni di barili di petrolio equivalente al giorno) nel 2025. Eni arriverebbe così ad un aumento della produzione del 9,6% rispetto ai livelli del 2020. 

Tutto ciò – che Eni sia il più grande emettitore italiano, che fosse a conoscenza fin dagli anni Settanta delle conseguenze della sua attività e che, ancora oggi, continui a puntare tutto sui fossili – fa dell’azienda un nemico del Pianeta. Non solo. Perché come dimostra il numero di persone che abbandonano la propria casa per la crisi ambientale, l’ecoansia e le immagini che vediamo quotidianamente la salvaguardia del clima non è più solo una questione ambientale, ma un problema di violazione dei diritti umani.

Autore

Nata a Ferrara, tra la nebbia e le biciclette. Quando non ho la testa tra le nuvole, mi piace nascondere il naso nelle pagine di un libro o dietro una macchina fotografica. Scrivo di lotte e diritti, mi piace raccontare dei posti e della gente di cui nessuno parla mai. Frequento assiduamente i mercatini dell’usato e al tiramisù non dico mai di no, queste sono le uniche regole di vita che mi so dare.

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