Euphoria, la serie che ci spiega la complessità delle nuove generazioni

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Euphoria, serie americana uscita nel 2019, ha ormai raggiunto il successo anche in Italia, in concomitanza con l’uscita della seconda stagione, per l’universalità dell’argomento di cui tratta: l’adolescenza e le sue difficoltà, infatti, accomunano i giovani a prescindere dalla loro provenienza geografica, sociale ed economica. 

La potenza di questa serie, oltre a risiedere nell’esuberante scenografia, è da ricercare nei personaggi, che senza divenire figure stereotipate, incarnano le debolezze della genZ, a cui questa serie dà dignità, restituendole complessità. I personaggi coinvolti sono infatti protagonisti di vissuti difficili, situazioni familiari precarie e disfunzionali, nelle cui crepe si è annidato il proprio disagio sociale, il proprio tormento esistenziale e un sentimento di disforia nei confronti della loro stessa vita. 

Nati e cresciuti in un’America violenta, ognuno dei personaggi cerca di vivere, o meglio di convivere, con le proprie debolezze e sopravvivervi. Ma allo stesso tempo ognuno di loro sembra essere schiavo di se stesso e dell’immagine estranea che ha costruito di sé. 

La protagonista Rue, interpretata da Zendaya, a diciassette anni combatte con un problema di tossicodipendenza scontrandosi con la madre e con la sorella, ma soprattutto con ciò che la droga le ha lasciato: lo spettro della persona che era e che non riconosce più. Ed è proprio quando incontra Jules, interpretata da Hunter Schafer, modella, attrice e attivista transgender, che un’umanità che non pensava di avere più riemerge e l’aggressività derivante dall’uso di sostanze stupefacenti cede spazio ai sentimenti, inducendo Rue a credere che la vita valga la pena di essere vissuta e che la sua esistenza possa trovare senso e compiutezza al di fuori della tossicodipendenza.

Jules e Rue

D’altra parte, Jules è la ragazza transgender che si è trasferita da poco in città, senza davvero riuscire a mettere un punto alla sua vita passata, segnata da un corpo maschile che sentiva estraneo e una transizione di genere ancora in corso. La sua esistenza si trascina tra rapporti occasionali, la sfrontatezza di un’Harley Queen adolescente e l’illusione di un amore vissuto tramite la tastiera di un telefono. 

Il punto di vista sulla narrazione appartiene a Rue, e la sua percezione sulla realtà e sul vissuto degli altri personaggi è complementare a quello che quest’ultimi dimostrano di essere.

Anche la sessualità è un tema molto presente al punto da divenire invadente e tossica. Infatti, nessuno dei personaggi ha un rapporto sano con la propria sessualità, scevro da reiterate violenze e traumi. Il sesso, oltre ad essere uno strumento di controllo che si esplicita anche tramite episodi di revenge porn, diviene un’unità di misura per quantificare il proprio valore, la propria posizione nella scala sociale.

L’esempio più chiaro di tale meccanismo è Kat, interpretata da Barbie Ferreira, che trova nella sessualità la possibilità di riscattarsi dal proprio corpo che non corrisponde ai canoni estetici imposti dalla società. Valorizzarlo e scoprire le curve che prima imputava come le colpevoli del proprio disagio sociale, espone Kat al rischio della mercificazione del proprio corpo; infatti, quest’ultimo, da sempre considerato una zavorra di cui vergognarsi, diviene uno strumento di potere.

Nate, interpretato da Jacob Elordi, il ragazzo bello e tormentato è il catalizzatore delle relazioni tossiche, intessendo flirt con più personaggi i quali, nella diversità delle dinamiche che li sottendono, hanno un unico comun denominatore che le unisce tutte: la disfunzionalità, la violenza e la menzogna che inquinano qualsiasi sincera emozione. Questa incapacità di amare e la tendenza a vedere nell’altro l’oggetto del proprio dominio scaturisce dall’ignoranza di non aver mai conosciuto un amore non connotato in maniera violenta nemmeno da parte dei propri genitori. 

Nate

Questa serie ha conquistato l’Italia perché ci racconta l’adolescenza nei suoi aspetti più oscuri e inquietanti. Essere giovani è una condizione che spesso viene idealizzata e socialmente stigmatizzata come «il periodo più bello della vita» proprio perché si è incompiuti, una massa che ancora non ha assunto una forma definita, come tutti i personaggi di Euphoria che sono solo un abbozzo di se stessi. Tale condizione viene socialmente considerata come positiva perché foriera delle molte possibilità che abbiamo di scegliere chi essere. Ma la serie svela quanta sofferenza può causare nelle giovani generazioni la sensazione di essere incompiuti, come un puntino perso in un universo che non ci accetta, che ci respinge e che allo stesso tempo respingiamo.

Euphoria ci racconta una generazione nella sua complessità, nella sua incompiutezza e nella sua drammaticità ed è uno dei pochi casi in cui il punto di vista della narrazione è affidato alla nostra generazione stessa, affinchè i dolori e le pesantezze dei personaggi non vengano sminuiti o minimizzati, ma cadano come un macigno nel petto dello spettatore; ma come ha scritto Zendaya, nel suo profilo Instagram all’uscita della quinta puntata della seconda stagione, riferendosi ai personaggi della serie, «redemption is possible».  

Autore

Classe ’99, laureata in Lettere e toscana, ma tranquilli non si sente. Mi piace osservare ciò che mi circonda; sono lunatica e disordinata ma scrivere mi permette di mettere a posto i pensieri e esprimere compiutamente il mio punto vista.

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