Nascosta in piena vista: la sofferenza degli universitari in pandemia

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L’ultima volta in cui Anita Fallani ha assistito ad una lezione in università aveva 21 anni e frequentava il terzo e ultimo anno di Lettere Moderne all’Università di Siena, dove viveva da fuori sede. Da quel giorno sono passati due anni, nei quali Anita è tornata a vivere a Firenze, si è laureata e si è iscritta alla Magistrale di Letterature Comparate a Torino. Se l’impegno a terminare gli ultimi esami della triennale l’aveva tenuta occupata e in qualche modo distratta nei mesi di lockdown, quando nell’autunno del 2020 sono ricominciate le restrizioni per il contenimento del Covid-19, Anita si è ritrovata in una situazione difficile. «Sono andata giù di morale; ero da sola, isolata, non avevo un motivo per alzarmi la mattina, le biblioteche erano chiuse, i giorni erano tutti uguali. Non sapevo cosa fare». Lo stress accumulato in triennale e l’incertezza sul proprio futuro più imminente hanno così coinciso con un periodo di solitudine e mancanza di distrazioni, influendo negativamente sul suo benessere psicologico.

Luca Levroni , invece, di anni ne ha 22 e studia Lingue Aziendali presso l’università Carlo Bo di Urbino. Non è riuscito a laurearsi in tempo. La situazione, racconta, «mi ha nettamente tolto la voglia di studiare. Fare lezione dallo schermo è l’ultima cosa che avrei voluto associare all’università e questo mi ha in qualche modo buttato giù».

Esclusi dal dibattito pubblico, gli studenti universitari sono stati i grandi dimenticati di questi due anni di pandemia. Nel marzo del 2020 più di un milione tra ragazze e ragazzi si sono ritrovati improvvisamente a svolgere lezioni ed esami a distanza e a dover rinunciare alla propria vita sociale. All’interno di un’emergenza sanitaria mondiale che ha causato nella popolazione generale un aumento di sintomi quali stress, ansia e depressione, il venir meno del contesto universitario ha accentuato ancor più l’impatto tra chi in quel momento frequentava gli atenei italiani. 

Secondo lo studio condotto da Sociometrica, nella scorsa primavera, i giovani tra i 18 e i 25 anni, in cui rientra il 67,4% degli studenti universitari, hanno accusato più di tutte le altre fasce d’età gli effetti delle restrizioni governative volte al contenimento del virus. Al 30 marzo 2021, infatti, il 60,2 % affermava di aver accresciuto il proprio nervosismo e di percepire un certo stress legato alla pandemia, il 40,2% di avvertire malesseri psicologici legati alle restrizioni e il 34,7% di avere accenni o sintomi di depressione. 

Siamo costretti a ragionare su questi numeri perché ad oggi esiste una sola ricerca riguardante gli effetti della pandemia sui giovani universitari in termini di salute mentale. Condotta dalle psicologhe Elena Commodari, Valentina La Rosa, Giulia Carnemolla e Jessica Parisi, risale tuttavia al primo periodo di restrizioni, facendo riferimento a dati collezionati tra aprile e maggio 2020. 

L’impatto su un periodo difficile

«Ogni processo di crescita viene descritto in psicologia come un processo di separazione/individuazione: quando facciamo esperienze nuove ci individuiamo meglio, perché dobbiamo trovare un nuovo modo di funzionare. Quando un ragazzo comincia a fare l’università si ritrova in una fase particolare del proprio sviluppo che è quella di diventare più autonomo; non solo perché è più autonomo dalla scuola, dai compiti in classe o perché lontano dalla famiglia, ma perché deve funzionare molto di più con se stesso». Luciana Netti ha 64 anni e vive a Pesaro, dove svolge la professione di psicologa-psicoterapeuta come libero professionista. Netti mi aiuta a comprendere quanto possa essere critico e delicato il periodo universitario: «È un momento in cui la vita stessa richiede al giovane un adattamento sia con l’esterno che con l’interno», spiega, «e sapersi organizzare, saper sopportare la frustrazione e gli insuccessi richiede un adattamento con noi stessi che è però facilitato dallo scambio con i propri colleghi». 

L’ambiente universitario non è dunque solamente un luogo di accrescimento culturale, ma gioca un ruolo fondamentale nella formazione dell’individuo.

Con l’avvento dell’emergenza sanitaria l’ambiente esterno di ogni universitario è venuto meno, e le ripercussioni sono state inevitabili.  Nervosismo, tristezza, irritabilità, disturbi alimentari e del sonno, tachicardia e tendenza a piangere sono alcuni dei sintomi il cui aumento è emerso maggiormente durante il primo lockdown, secondo lo studio condotto in Italia da Commodari et al. Noia, perdita di speranza, frustrazione e ansia emergono invece in vari studi internazionali.

Sintomi del genere possono essere generati dalla necessità di interrompere le proprie abitudini quotidiane, dalla mancanza di distrazioni e di interazioni fisiche con amici, partner, colleghi e persone care, dalla tediosità di giornate tutte uguali. «La pandemia», spiega Netti, «ha fermato in alcuni giovani il proprio processo di crescita: tutte quelle condizioni che avrebbero facilitato un adattamento interno migliore sono state sospese e gli studenti si sono ritrovati a dover fare affidamento solo su loro stessi». 

Nella solitudine delle lezioni e degli esami online, alcuni hanno così vissuto uno smarrimento, gestito al meglio da chi già aveva un funzionamento interno molto efficiente. «Per altri, invece, una situazione del genere può essere stata la causa di un tornare indietro, magari a difficoltà che già c’erano e che sono riemerse». Netti mi illustra come studenti che aveva seguito da adolescenti e che avevano terminato un percorso di lavoro su loro stessi abbiano ripreso i colloqui con l’avvento della pandemia. 

Non vanno inoltre trascurati gli effetti della didattica a distanza sulla resa accademica e la concentrazione degli universitari: durante i primi mesi di lockdown il 57,8 % riportava di aver studiato meno del solito e quasi uno studente su due era preoccupato dagli effetti che l’emergenza avrebbe avuto sulla propria carriera universitaria (Commodari et al.). 

L’onda lunga del lockdown

Sarebbe però estremamente sbagliato basarsi solo sul primo periodo di restrizioni. Se nei primi mesi la cognizione di essere tutti, più o meno, nella stessa situazione può aver infatti aiutato a superare il momento, le graduali riaperture hanno sostituito alla straordinarietà del lockdown una consapevolezza che nulla sarebbe più stato come prima.

Martina Terenzi ha 22 anni e studia Giurisprudenza all’università di Urbino. Quando è scoppiata la pandemia frequentava il secondo anno e viveva con i genitori a Pesaro. «Non stavo male nel primo periodo, la vivevo come una cosa nuova», racconta, descrivendosi come una persona da sempre premurosa, ma mai ansiosa oltre quella normale quantità utile a superare le varie sfide della vita e a metterci in guardia dai pericoli. Quando i suoi coetanei hanno però ripreso ad uscire, Martina non è riuscita a lasciarsi andare, spaventata dal contagio ma soprattutto dal fatto «che tutti rispettassero le regole». Ha così notevolmente limitato le sue uscite, e ad un comune sentimento d’ansia è andata sostituendosi un’ansia nociva, che le ha fatto accumulare energia negativa. «Ho iniziato a pensare di continuo e sono entrata in un vortice di pensieri legati a questioni personali che prescindono dalla pandemia», afferma. «Quando sono ricominciate le restrizioni, è stato un colpo ancora più forte, perché non sembrava finire mai», racconta indicando l’autunno del 2020 come il periodo più difficile. 

Simile è la storia di Elena Sbaragli, 26enne forlivese. Attualmente sta svolgendo servizio civile nella sua città, la stessa in cui nel gennaio 2021 si è laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche. Anche lei ha avuto un crollo in seguito alle riaperture. «A giugno del 2020 mi sentivo completamente cambiata, come fossi stata travolta da uno tsunami di tutte le frustrazioni, paure e occasioni mancate di quei tre mesi vissuti in casa».  Raccontandomi come il periodo da giugno a dicembre sia stato per lei «veramente duro e buio a livello psicologico» , Elena tocca un punto importante, ovvero la rabbia per una situazione esterna che ha rovinato i piani , come a lei, a numerosi studenti. 

«L’instabilità data dalla pandemia mi fa avere diversi problemi a progettare il futuro, anche solo nei prossimi mesi, portandomi ad una sorta di immobilismo causato da una paura di non riuscire a fare le cose, di non evolvere, di non mutare». La definisce «paura di non progredire», legata alla situazione di continua incertezza in cui viviamo. 

Sia Martina che Elena si sono rivolte ad uno psicologo per cercare di porre rimedio alle loro situazioni, entrambe trovandolo senza difficoltà nel settore privato. 

La richiesta di supporto psicologico da parte dei più giovani è aumentata costantemente dall’inizio della pandemia. Una ricerca pubblicata dall’Istituto Piepoli nell’ottobre del 2021 mostra infatti come l’aumento dei pazienti in terapia presso uno specialista abbia riguardato negli ultimi due anni soprattutto gli under 34, con un picco tra i 18 e i 25 anni d’età (+36%). 

C’è chi, però, non può permettersi nemmeno un colloquio. Lo studio appena citato enuncia, infatti, come, dall’inizio della pandemia, fronte ad un aumento del 39% delle richieste di supporto, il 27,5 % degli Italiani vi abbia rinunciato, mentre il 21% ha interrotto le cure per motivi economici. Il problema è strutturale: solo il 5% del totale degli psicologi italiani è infatti impiegato nel settore pubblico. 

Un aiuto per tutti

Per garantire un supporto agli studenti in un momento tanto complesso, nel maggio del 2020 l’Università di Urbino ha avviato un nuovo servizio di supporto psicologico: Insieme

A riportarmelo è Carmen Belacchi, che come Delegata Rettorale al Counselling ne è stata promotrice. Autrice, psicologa-psicoterapeuta e professoressa ordinaria da pochi mesi in pensione, Belacchi mi espone come il servizio sia nato in continuità e complementarità con il Counselling, che supporta lo studente nelle difficoltà legate al percorso universitario, e lo Sportello D’Ascolto, rivolto a episodi di molestia sessuale o mobbing . Alla pari di questi due servizi, Insieme offre un numero limitato di colloqui grazie ad un rapporto di consulenza con psicologi-psicoterapeuti esterni all’Università.

«Se dalla consultazione emergono problematiche psicologiche rilevanti», spiega Belacchi, «gli studenti vengono rimandati o ai servizi territoriali o a liberi professionisti, tra cui vi è un elenco che offre prestazioni a prezzi calmierati».

Belacchi sottolinea come l’aumento «esponenziale» di richieste di supporto registrato dall’inizio della pandemia, legato in particolar modo ad ansia e stress, sia per lei segno di un’aumentata consapevolezza e un ridotto timore a mostrare le proprie insicurezza e fragilità. 

Non tutti i servizi offerti dalle università italiane sembrano, però, funzionare al meglio. A Forlì, per esempio, il Servizio di Aiuto Psicologico dell’Università di Bologna è stato oggetto delle critiche dell’Unione degli Universitari, che ne ha riscontrato tempi di attesa molto lunghi e una particolare inefficienza. A parlarmene è Caterina Migale, studentessa 22enne di Sociologia presso la città romagnola e attivista dell’associazione studentesca che nel novembre 2021 ha manifestato dinanzi al Campus locale con l’obiettivo di sensibilizzare sul tema della salute mentale. «In quell’occasione», spiega Migale, «abbiamo presentato la Controguida Al Sap Gap, ossia all’inefficienza del Sap locale dovuta a quella che abbiamo ipotizzato essere una mancanza di risorse». Come si legge dalla controguida , questa «comprende la lista degli enti locali e digitali che forniscono consulenze, servizi di ascolto e psicoterapia gratuitamente o per tariffe agevolate». L’obiettivo è che tutti possano ricevere un aiuto, senza che differenze di reddito ne determinino l’accesso. L’idea di Udu Forlì è quella di estendere l’iniziativa a livello nazionale. 

Le carenze di un sistema

Nel gennaio 2022 una petizione lanciata sulla piattaforma Change.org ha registrato in soli 3 giorni ben 100mila firme, triplicate poi in appena un mese. Il contenuto riguardava la richiesta dell’istituzione di un bonus per la salute mentale, dopo che l’esecutivo aveva deciso di ritirare dalla legge di bilancio la proposta di istituzione di un fondo da 50 milioni di euro volto a facilitare l’accesso ai servizi psicologici.

Ad un mese dalla ‘’manovra’’, il governo ha deciso di inserire un primo bonus da 20 milioni di euro nel c.d. Decreto Milleproroghe: metà andranno alle Asl regionali al fine di rafforzare la rete pubblica d’assistenza psicologica, metà ai privati cittadini sotto forma di voucher erogato in base all’Isee. Si tratta certamente di un passo in avanti, ma resta un mero palliativo dinanzi alle carenze strutturali dello Stato in tema di supporto psicologico.

Secondo gli ultimi dati Eurostat disponibili, l’Italia è infatti fanalino di coda nell’Unione Europea per percentuale di posti letto riservati alle cure psichiatriche, con nove ogni 100mila abitanti. La media Ue è di 73. Solo Estonia e Bulgaria ci seguono inoltre nella classifica riguardante la percentuale di spesa sanitaria dedicata alla salute mentale (Headway 2023-Mental Health Index).

Di fronte alle lacune statali, le regioni si muovono da sé. È il caso, per esempio, di Campania e Lombardia, che hanno recentemente istituito la figura dello psicologo di base. Altre regioni sembrano pronte a percorrere questa strada. 



Autore

Nato nel 1999 tra Marche e Romagna, nonchè tra mare e collina, amo viaggiare, scoprire nuove culture, leggere di tutto ma soprattutto di storia e politica. Ho vissuto in Inghilterra e Spagna e studiato Scienze Internazionali e Diplomatiche. Amo la musica, lo sport e le piccole cose.

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