Abbiamo intervistato una delle attiviste che ha preso parte alle proteste durante l’80esima mostra del cinema di Venezia

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La scelta della Mostra di Venezia di selezionare Roman Polanski, Luc Besson e Woody Allen e quella di Deuville di selezionare Luc Besson è una conferma vergognosa della loro impunità, mentre percorreranno il tappeto rosso, sarà tutto il sistema del cinema, dai finanziatori ai distributori, a calpestare le vittime.

Questo è parte di ciò che si legge sul profilo Instagram @tapisrouge.colerenoire, collettivo francese che si occupa di “respingere la complicità dell’ambiente cinematografico verso gli aggressori e i molestatori

Quello che volevamo dire alla mostra del cinema è che arrivato il momento di schierarsi apertamente in favore di una cultura del rispetto, del consenso e che crede alle vittime che denunciano

Abbiamo intervistato una delle attiviste che ieri, 4 settembre, ha preso parte alla protesta durante l’80esima edizione della Mostra del Cinema. Si chiama Marta Sottoriva, fa parte del centro sociale Morion di Venezia, spazio antifascista, anticapitalista e transfemminista, occupato e autogestito dal 1990. Morion organizza e partecipa a varie attività, dall’organizzazione del Pride di Venezia alle manifestazioni transfemministe, si occupa della questione caro-affitti e aderisce al comitato No grandi navi

Marta inizia spiegandoci che all’azione di ieri hanno partecipato diverse realtà veneziane e del Veneto: il collettivo transfemminista Squeert di Padova, Non Una Di Meno Treviso, Non Una Di Meno Venezia e il centro sociale di Vicenza.

Avete organizzato un’azione di protesta durante il red carpet di Woody Allen. Quali sono le motivazioni di questa azione?

«È una protesta che non ha voluto contestare Woody Allen in sé come è stato scritto da alcuni giornali, ma era una protesta contro la scelta della Mostra del Cinema di dedicare visibilità a tre registri accusati a vario titolo di molestie, violenze sessuali e stupro. Parliamo di Woody Allen, Roman Polanski, che è stato condannato per aver violentato e stuprato una ragazza di tredici anni circa venti anni fa (1977), Luc Besson, che è stato denunciato da una donna, alla quale sono seguite altre otto denunce da parte di altre attrici, collaboratrici e persone che hanno lavorato con lui. C’erano quindi tre casi eclatanti e il fatto che la Mostra del Cinema abbia invitato esplicitamente queste persone, di cui due dei film presentati non erano nemmeno in concorso, l’ho vista come una decisione, una scelta che si è apertamente schierata a favore di quella che abbiamo chiamato anche sul red carpet la cultura dello stupro.

Ripeto: questi tre registi sono casi eclatanti ma quello che si muove nella nostra realtà, nel nostro quotidiano e che ha a che fare anche con l’industria dello spettacolo, è una società fortemente sessista in cui discriminazioni, violenza di genere sono continuamente perpetrate. La violenza di genere viene normalizzata portando queste persone a calcare il palcoscenico. Abbiamo deciso di contestare la mostra del cinema per questo motivo.

Parallelamente abbiamo anche denunciato una figura come quella di Luca Barbareschi, produttore del film di Polanski che ha fatto delle dichiarazioni aberranti rispetto alle donne e alle persone che denunciano violenza, dichiarazioni apertamente sessiste ma anche dichiarazioni omofobe. Tra l’altro pochi giorni fa è stato anche arrestato l’attore spagnolo (Gabriel Guevara, ndr) che aveva un mandato di cattura internazionale per violenza sessuale. Per cui diciamo che evidentemente in questo momento è un tema caldo e quello che ci tenevamo a portare all’attenzione ieri è il fatto che questa sia una violenza sistemica».

Come si è svolta l’azione concretamente? Come vi siete organizzate? 

«L’intenzione era quella di mostrare, molto semplicemente, una scritta davanti al red carpet e quindi di interrompere l’attenzione mediatica che c’era in quel momento su Woody Allen per portarla su un problema sistemico. Eravamo circa una trentina di persone, quindici di noi avevano scritto sul petto “no rape culture” e avevamo intenzione di mostrare questa scritta. Nel momento in cui noi ci siamo affacciate sulla transenna per esporla le forze dell’ordine hanno tentato di bloccarci. L’azione dimostrativa quindi l’abbiamo fatta pochi metri più avanti, sulla strada. Abbiamo fatto un piccolo corteo con l’esposizione della scritta anche ricevendo il plauso e l’approvazione di persone lì presenti. Ovviamente non avevamo intenzione di entrare sul red carpet, di fare imbrattamento. Non volevamo colpire nessuno, il nostro obiettivo era quello di mostrare la scritta e fare questa cosa puramente dimostrativa. La reazione è stata spropositata ma non ci ha comunque fermato, siamo comunque riuscite ad esporla».

Molte testate giornalistiche ne parlano come se fosse una flash mob, lo definiresti così?

«Non è stato un invito pubblico, è stata una forma di blitz autoconvocato più che un flash mob».

Distinguere l’uomo dall’artista, separare l’arte da chi la crea. Questa è una semplificazione di alcune delle critiche che più vi sono state mosse e anche di come ha risposto Alberto Barbera, il direttore della Mostra. Come rispondete?

«Rispondiamo che questa è la tipica giustificazione che viene portata avanti da ormai tempo immemore. Si continuano a giustificare (quasi sempre) uomini ricchi molto potenti e molto influenti e quello che che ci chiediamo è: quand’è che questo limite viene sorpassato? Quando ci renderemo conto che a un certo punto bisogna dire basta? Avremo lasciato il red carpet agli stupratori di Palermo o di Caivano o di Milano? Dei gesti così gravi e violenti nei confronti di persone che quando denunciano non vengono credute e vengono screditate, possono avere così tanta visibilità internazionale?

La giustificazione della separazione dell’uomo dall’artista è quello che continua a perpetrare una cultura dello stupro che continua a normalizzare la violenza di genere. Siamo in un momento in cui ci si indigna di fronte allo stupro portato avanti da ragazzi, mentre per uomini celebri si evidenzia l’estro artistico per cui tutto è sempre concesso. Quello che volevamo dire alla Mostra del Cinema è che arrivato il momento di schierarsi apertamente in favore di una cultura del rispetto, del consenso e che crede alle vittime che denunciano. Nel momento in cui l’arte e la cultura riescono ad avere quella spinta trasformativa che ci rende persone migliori, a quel punto potremmo dire che stiamo migliorando e che stiamo cambiando. La questione è che non c’è alcun tipo di vincolo etico alla Mostra del Cinema sui registi o produttori o protagonisti dell’industria cinematografica con denunce pendenti».

“Spegnete i riflettori sugli stupratori”, è questo uno degli slogan che ieri avete gridato. Perchè il sistema cinematografico tende ancora a puntare i riflettori su persone accusate di violenza sessuale e molestie?

«L’industria cinematografica è comunque figlia di una società che ha sempre considerato la violenza sessuale come qualcosa di normale e accettabile a meno che non si trattasse di casi particolarmente eclatanti. Nel momento in cui fino a ora la violenza sessuale, le molestie, l’abuso, le asimmetrie di potere sono state considerate normali e parte integrante del modo in cui funzionano le cose, per forza di cose poi non c’è nessun problema nell’invitare questi artisti, perché di fondo poi quello che hanno fatto non è considerato così grave. Il messaggio che noi abbiamo voluto portare è che invece questa cosa deve cambiare e la violenza e la cultura dello stupro non possono più essere parte integrante del modo in cui noi stiamo nella realtà e stiamo nel mondo, questa cosa deve cambiare e cambia a partire da pratiche nuove, diverse: la Mostra del Cinema, per esempio, potrebbe rifiutarsi di illuminare alcune persone con i propri riflettori».  

Era il 6 ottobre del 2017 quando il produttore cinematografico statunitense Harvey Weinstein, dopo un’inchiesta del The New York Times, venne accusato di molestie sessuali. Il vaso di pandora si è aperto ormai 6 anni fa, il #metoo però sembra – purtroppo – più vivo che mai. Pensate che la Biennale alimenti questo sistema?

«Sì. Non si può condannare la violenza di genere nel momento in cui si dà a questi registi il modo di accedere a una vetrina internazionale. Nel momento in cui in conferenza stampa Barbareschi può tranquillamente dichiarare che la cancel culture è una mafia di donne e persone omosessuali. Dare visibilità, dare spazio, è apertamente schierarsi per la cultura dello stupro ed essere parte integrante di un sistema che continua ad abusare di persone che sono in uno stato di vulnerabilità o che sono meno potenti, meno influenti di chi invece perpetra violenza».

Perchè secondo voi la mostra ancora non ha preso posizione rispetto a questi fatti? Come dovrebbe farlo?

«In questi giorni è uscita la dichiarazione d’invito alla mostra del cinema all’Osservatorio contro i femminicidi e si sono distanziati dall’arresto di Guevara. In un certo senso loro hanno risposto. Quello che vogliamo far presente noi è che non funziona che una mano lava l’altra, il cercare di pulirsi la coscienza dopo che da mesi c’erano critiche per aver invitato questi tre registri. Ma loro non hanno fatto un passo indietro. Allora quello che noi rispondiamo è che c’è la necessità di introdurre un codice etico per cui chi ha condanne o denunce pendenti per molestie, violenza, stupro, non possa essere presente alla mostra del cinema. Come dovrebbe farlo? Non invitandoli alla mostra del cinema». 

Amleta, collettivo femminista intersezionale che monitora la presenza femminile nel mondo dello spettacolo, occupandosi della rappresentazione delle donne nella drammaturgia classica e contemporanea, ha diffuso i numeri degli abusi denunciati direttamente a loro (#apriamolestanzedibarbavlù). I dati sono i seguenti: commessi da registi 41,26%, colleghi attori 15,7%, produttori 6,28%,  insegnanti di accademie e scuole 5,38%. Come rendere il mondo del lavoro nello spettacolo un luogo più sicuro per le donne?

«Rispetto a questo credo che sia importante coinvolgere chi lavora nel mondo dello spettacolo, chi è direttamente coinvolto in questo ambiente, in questo settore. Nessuna di noi (di quella che ha portato avanti l’iniziativa) lo fa perché parte di questa industria, l’abbiamo fatto come spettatrici, come parte della società civile. E’ importante sottolineare che ci sono molte realtà che si organizzano e lottano affinché questo possa cambiare.

Il modo in cui questo può cambiare è dando voce, dando risonanza e ascoltando quelle persone che si stanno organizzando affinché le cose possano cambiare. In questo caso parliamo del collettivo Amleta ma ce ne sono tanti altri, a Venezia mi viene in mente il S.a.L.E. Docks, altra associazione che mi viene in mente è anche Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali. Ci sono molte realtà che si mobilitano rispetto a questo, non c’è niente di nuovo che deve essere creato, si tratta semplicemente di accogliere le istanze di chi già si sta organizzando».

Al grido delle attiviste si aggiunge anche quello dell’attrice Ariane Labed che si è presentata alla mostra del cinema con la seguente scritta sul corpo: “No more honors for Abusers”.

l cinema ha bisogno di nuovi modi e di nuove storie. In ogni parte e in ogni luogo.

Autore

Arianna Vicario

Arianna Vicario

Autrice

Transfemminista. Scrivo (tanto), leggo (troppo), cammino nel mondo (delle nuvole). A volte penso che l'anima di Sylvia Plath si sia reincarnata in me.

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