Dalla legge Merlin ai radicali: ma il sex work è davvero lavoro?

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Non serve essere dei sociologi per capire come la sessualità sia uno degli aspetti della contemporaneità che risulta maggiormente cangiante ai cambiamenti della stessa. Eppure, mai come oggi, non c’è un accordo condiviso su che cosa effettivamente questa rappresenti in rapporto agli individui e alla società: talvolta sembra prendere vita per sé stessa, altre appare come un aspetto marginale, a volte è personale e intoccabile, altre ancora è rappresentata secondo dei “modelli” imposti dai trend

Ultimamente (e forse soprattutto a causa dell’imperante secolarizzazione, anche laica) il tema si è spostato dall’ambito sociale a quello più specificamente giuridico, perché si moltiplicano i movimenti che chiedono la “normalizzazione” del sex working, che non è altro che una sua “liberalizzazione”. A chiederlo sono soggetti eterogenei sia in quanto a provenienza, sia per gli interessi che sottendono la richiesta: c’è un’ampia frangia del femminismo che è convinta che la possibilità di vendere il corpo sia uno strumento di liberazione ed emancipazione della donna, ma c’è anche una parte della “società civile” che assurge a diritto fondamentale questa stessa possibilità, e qualcuno tra i più audaci inizia ad abbozzare l’esistenza di un “diritto al sesso” inteso come diritto a poter acquistare una prestazione sul mercato. 

Il sesso (e in questo caso si vuole intendere ogni prestazione riconducibile alla sessualità) diventa una merce scambiabile direttamente sul mercato, con le sue regole e i suoi prezzi, con i suoi venditori e i suoi compratori. Ancora prima, e ancora di più, vendere sessualmente il proprio corpo diventerebbe un lavoro, quello su cui secondo l’articolo 1 della Costituzione è fondata la nostra Repubblica, e che, secondo l’articolo 4, dovrebbe essere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società

Si potrebbe subito passare agli affondi verso queste ultime conclusioni, perché già dal titolo traspare la polemica verso questa visione, ma potrebbe apparire un’operazione moraleggiante, o puramente ideologica e quindi strumentale. Invece conviene ripercorrere l’origine della normativa sul tema, provando ad illustrarne la genesi, per motivare la critica a questo pensiero “liberalizzante”, in modo da evidenziare i reali limiti, che tuttavia dovranno sempre essere confermati dalla società democratica, finale decisore del concesso e del non concesso, soprattutto quando si parla di “visioni” del mondo su temi etici. 

A giugno dello scorso anno i radicali Italiani hanno presentato sei proposte legislative di iniziativa popolare. Una di queste riguardava la “piena decriminalizzazione del sex work. Rimuovendo tutti i divieti, le sanzioni e gli ostacoli normativi che si abbattono su un’intera categoria di persone e riconoscendo il lavoro sessuale come autonoma e legittima professione”. Aldilà della possibilità che questa proposta (in realtà poco definita) diventi effettivamente legge, cosa difficile con l’attuale maggioranza parlamentare, è importante analizzare quali potrebbero essere i suoi effetti. Intanto, quelli di eliminare gli effetti dell’unica legge che dispone sul tema, la legge Merlin 

La Legge Merlin

La legge n. 75 del 20 febbraio 1958 è il risultato di una battaglia decennale in parlamento, ad opera prevalentemente della componente socialista capitanata dalla Madre Costituente Lina Merlin, che infatti dà il nome alla stessa legge. Con questa legge si stabiliva che entro sei mesi dall’entrata in vigore, tutte le “case di tolleranza” (aka: i bordelli) dovessero venire chiusi, e che fosse abolita ogni forma di regolamentazione della prostituzione, quindi la stessa non poteva più essere esercitabile come professione, né essere tassata. Allo stesso tempo venivano introdotte due fattispecie di reato, che puniscono lo sfruttamento ed il favoreggiamento della prostituzione con una formulazione normativa particolarmente aperta: “chiunque in qualsiasi modo favorisca o sfrutti la prostituzione altrui”. È importante notare che la legge non proibisce in alcun modo la vendita del proprio corpo, considerata come espressione della personalità e della libertà inviolabile dell’individuo. Quello che diviene proibito è la prostituzione come attività economica.

Lina Merlin

Il tormentato iter legislativo, passato per diverse legislature, ha incontrato l’opposizione di diverse componenti dell’assemblea (anche interne allo stesso partito socialista) tra scettici, come anche lo stesso Pietro Nenni, e veri e propri oppositori come il liberale Benedetto Croce. Le motivazioni del dissenso andavano da questioni ideologiche relative alla presunta inestirpabilità del fenomeno all’interno della società, a supposti problemi riguardo la salute pubblica dati dall’incremento delle malattie veneree, in assenza di controlli nei rapporti. In ogni caso il provvedimento è stato approvato con il consenso di tutto l’arco costituzionale, meno che per le componenti liberali, repubblicane, radicali e missine. In quegli anni l’Italia aderiva a diversi patti Internazionali che del pari sancivano la dignità della donna come la Convenzione sulla soppressione del traffico di persone e lo sfruttamento della prostituzione altrui del 1949/1951 e la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU, che dettero un’ulteriore spinta alla tesi di Merlin. 

Cosa è cambiato oggi?

Ma forse è proprio su questo aspetto, la dignità, su cui è necessario soffermarsi, perché è sul suo significato che lo scontro ideologico oggi si è riaperto con forza, proprio a causa del cambiamento che questo ha subito assieme alla società. Lina Merlin riteneva che la dignità della donna (e più in generale dell’essere umano) non contemplasse la possibilità di alienare la propria sfera intima, sessuale, in modo che lo stesso Stato riconoscesse la legittimità di questo comportamento, e che si potesse rendere un “mestiere” questa attività. Eppure, per quanto possa apparire così, questa idea non ha a che fare con il moralismo, con il costume, e con la concezione che la società ha del sesso: tutto il contrario. La tesi di Merlin è infatti del tutto compatibile con la considerazione che la sessualità (così come la sua esternazione) di ogni individuo sia un bene intangibile, che non può essere sindacato nel merito o nella forma dalla morale, ma che è libera di esprimersi per ciò che ognuno ritiene per sé stesso. Il limite è, invece, il legame tra questa considerazione della cosa e la sua funzionalizzazione economica. In altre parole, devono esistere delle regole che non permettano la messa in vendita di ogni cosa, che limitano la possibilità di lucrare, quando quello stesso lucro vada a detrimento di un valore che la società ritiene intangibile; d’altronde, all’art 41 della Costituzione si legge che nessuna attività economica può svolgersi contro la dignità umana. Eppure è proprio qui che sta il problema, perché l’interpretazione dei concetti non è un’operazione scontata, a senso unico, e si sposta a seconda del punto di vista e del contesto in cui è fatta. Allora il concetto (giuridico e sociale) della dignità, per i sostenitori del Sex Work, è esattamente quello per cui ognuno deve poter utilizzare il suo corpo  proprio per emanciparsi economicamente, e sostentare tramite questa attività non solo le proprie necessità spirituali, ma più concretamente quelle materiali. La libertà di autodeterminarsi, secondo questa visione vince su ogni altro valore, e diventa sovrana. La questione è fortemente politica, e difficile, ma un corollario di questo discorso pare scontato: questa libertà non erode le catene che ancora bloccano la vera liberazione sessuale che la società (e in essa gli individui) possono compiere, ma anzi svaluta la necessità e il valore della stessa liberazione, perché la rende una fonte economica, e quindi lo associa all’utilità, alla convenienza, alla dipendenza.

Quali sono i problemi aperti? 

Per restare con i piedi a terra, è utile comunque notare quali siano i concreti problemi che possono derivare da un diverso regime giuridico associato al fenomeno. Ci sono due possibilità: Se si elimina ogni tipo di regolamentazione, le attività di questo tipo, diventerebbero delle libere professioni, o se svolte in maniera organizzata, delle attività di impresa regolate dalle norme comuni. Se si volesse regolare il fenomeno specificamente, ci sarebbero delle norme ad hoc che specificano le regole da seguire nel settore, dove è immaginabile che molte di queste riguarderebbero gli aspetti a tutela della salute, oltre che i profili fiscali. Tra l’altro chi sostiene tali tipi di riforma, adduce proprio la tutela del lavoro come motivazione principale: meglio avere delle regole che proteggono chi lavora (e, quindi, si assumerebbe questa attività come un lavoro) rispetto a non averle.

 Ci si potrebbe chiedere però che fine farebbero quei reati che si sono citati sopra, se residuerebbe uno spazio di applicazione di essi, per quei casi in cui lo sfruttamento di questa attività, divenuta lecita, sussiste comunque. Ed il rischio che si creino sacche di impunità contro i soprusi, è molto alto (come dimostrano le prassi di paesi dove queste attività sono legali). Si potrebbe andare avanti per molto nella speculazione. Ma conviene fermarsi, e continuare ad interrogarsi se l’avanzare del progresso sociale significhi considerare come un lavoro la messa in vendita del proprio corpo che rispecchia una dimensione propria dell’essere umano, intangibile, o seppure il progresso sia proprio la liberazione della attività sessuale da ogni limitazione, prima fra tutte, quella economica.

Autore

Classe 2001, ma mi sento molto più vecchio. Studente di Giurisprudenza a Roma, aspirante giornalista (infatti mi piace molto scrivere), ma anche suonare la chitarra. E questo è quanto.

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