Gli anni che ci separano dai fatti di Genova del 2001: quattro chiacchiere con Annalisa Camilli

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C’è chi c’è stato e ha smesso di parlarne, c’è chi lo ricorda e lo racconta, ma c’è anche chi è nato e si è formato nei vent’anni che ci separano dai Fatti di Genova del 2001.

In occasione del ventennale, la memoria della «più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale» è rientrata nel dibattito pubblico, invadendo gli spazi di discussione e avvicinando anche chi, di Genova, non sapeva nulla. La generazione di chi ha vent’anni ora fa contemporaneamente parte di “quelli che a Genova non ci sono mai andati” e di chi invece, a Genova avrebbe potuto esserci.

«Cosa è successo a Genova?» avevo chiesto, «È tipo dove hanno menato un sacco di ragazzi», mi era stato detto. In assenza di una riflessione collettiva di fondo, è semplice per chi è venuto dopo attivare un processo di raggruppamento mentale che associa tutte le vicende di brutalità della polizia senza scinderle, spogliandole della loro specificità.

Abbiamo parlato con Annalisa Camilli, giornalista per Internazionale che quest’estate, in occasione del ventesimo anniversario dei Fatti del G8, ha raccontato Genova nel podcast Limoni. Camilli lavora alla memoria del G8 già dieci anni dopo, insieme a Carlo Bachschmidt, regista e autore del documentario Black Block, presentato alla sessantottesima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. La volontà dopo vent’anni era diversa: «La questione era la memoria, le memorie divise e contradditorie di quei giorni. Era importante mettere a tema cosa era successo nei vent’anni». Limoni nasce dalla volontà di ricordare una difficoltà personale e collettiva, è un racconto di indignazione e nostalgia.

Tra le poche cose che portavamo negli zaini c’erano fazzoletti e limoni, tutto profumava di limoni. Dicevano che il succo di limoni fosse un antidoto efficace contro i gas lacrimogeni.

L’anniversario dei vent’anni dai Fatti di Genova ha contribuito da un lato a riaprire il discorso su ciò che è successo in quei giorni ma anche ad avvicinare tantissime persone, in particolare i più giovani, che hanno scoperto le violenze e gli abusi di quei giorni. Qual è stata la risposta del pubblico?

«La risposta è stata straordinaria e inaspettata; proprio perché Genova è una memoria divisiva, ci aspettavamo di produrre qualche discussione o polemica. Invece abbiamo riscontrato passione nei più grandi e nei giovanissimi: tante persone si sono ritrovate, si sono identificate con il racconto e hanno riaperto i cassetti dei ricordi, tirandoli fuori. Non soltanto ricordi negativi legati alle violenze della polizia, ma anche ricordi positivi sulla fiducia nel cambiare le cose. Una fiducia nella politica che oggi c’è di meno ma che all’epoca era molto presente; la certezza che scendere in piazza e partecipare a delle assemblee potesse cambiare le cose. I più giovani hanno mostrato un grande entusiasmo e una grande curiosità per cose di cui avevano sentito raccontare ma che non avevano avuto modo di approfondire. La risposta più emotiva l’hanno avuta proprio i ragazzi».

Le differenze tra la generazione di Chernobyl, «cresciuta con l’idea di poter essere spazzata via», e chi oggi ha vent’anni sono tantissime, non solo a livello di partecipazione e di linguaggio, ma anche di spazi.

«Mi sono resa conto che, a differenza della nostra generazione, non ci sono luoghi di trasmissione della memoria recente. Per noi è stato più semplice avere degli spazi condivisi dalle generazioni; c’era un racconto orale delle battaglie che erano venute prima. Per i più giovani in questo momento c’è una fame di sentire delle storie, di appassionarsi a degli eventi della storia recente, di sentirseli raccontati da qualcuno che ha partecipato e di avere una genealogia e una trasmissione della memoria. È sempre più raro che ci siano dei posti frequentati da più generazioni dove avviene questa trasmissione della memoria. C’erano molti luoghi per noi, cresciuti nel mito del 68, della Resistenza. Siamo stati travolti dai racconti dei nostri genitori o nonni e dalle loro esperienze politiche. C’erano molti luoghi, dai centri sociali, dalle sezioni dei partiti alle parrocchie, che erano attraversati da più generazioni; mi sembra che invece per le generazioni che oggi hanno vent’anni ora questa memoria sia più frammentata».

Si tratta di mancanza di voglia di mettersi in gioco?

«I ragazzi oggi comunque parlano di politica e magari ne parlano anche di più di quanto non ne parlassimo noi che eravamo giovani in pieno berlusconismo. Ma era più facile incontrare persone che avevano fatto il ’68 o la Resistenza e c’erano una serie di luoghi in cui si incrociavano generazioni diverse e ci si formava alla politica. Mi sembra che sia meno facile in questo momento, anche perché due anni di pandemia hanno reso tutto più complicato»

L’Io narrante «pieno di dubbi» restituisce unità narrativa alle tante voci di chi vent’anni dopo fa i conti con ciò che è successo. Quanto è stato difficile inserire elemento personale all’interno della narrazione e che riflessione ha portato alla scelta di parlare in prima persona?

«Ne abbiamo molto discusso, all’inizio io non ero per niente d’accordo. Faccio la giornalista nella vita e nel mio lavoro provo a essere più oggettiva possibile, a tenermi fuori dalla scena e a non parlare di ciò che suscita in me ciò che vedo. Per me è stata un’inversione di rotta abbastanza netta».

I limoni nello zaino, i gas lacrimogeni, gli scudi e gli elmetti, il podcast punta a recuperare la dimensione umana e orale della trasmissione dell’esperienza.

«All’inizio ero abbastanza scettica sulla funzionalità della cosa, perché non volevo perdere l’oggettività, che è un po’ il cuore del mio lavoro di giornalista. Mi interessava ricostruire i fatti, ed era giusto ricostruirli con accuratezza, dare un’idea di imparzialità e questo poteva essere messo in discussione dal fatto di usare la prima persona. Però devo dire che, invece, il fatto che per me fosse così faticoso ricordare e che in fondo io avessi una memoria così traumatica di quei fatti era parte del racconto. Ed è sempre così nella memoria; il punto è che il racconto che si fa dei fatti è già esso stesso parte della storia».

Genova, 20 luglio 2001. (Thomas Dworzak, Magnum/Contrasto)
Lei ha sottolineato nel podcast di sentirsi a più agio nel futuro che nel passato. Mi sono chiesta se dietro questa frase non si nasconda una più profonda differenza generazionale.

«Le differenze sono moltissime, e devo dire che non mi piace parlare con la voce delle nuove generazioni; nella vita e nel mio lavoro provo a farmi guidare più dalla curiosità e ad anticipare le cose che verranno, che non dalla nostalgia. Questo credo che sia un tratto molto forte del mio carattere. Non so quanto sia generazionale. In realtà, la mia generazione è molto nostalgica: penso alla musica che più che innovare ha fatto rivivere dei pezzi di passato. La mia generazione ha la percezione che il meglio sia già passato».

La differenza tra “noi” chi a Genova c’era e “gli altri”, quelli che invece Genova l’hanno vista da fuori, attraverso il racconto dei mezzi di comunicazione mainstream. Una distanza reale che si riflette anche nella discrepanza tra le narrative e che rende ancora oggi necessario il lavoro di ricostruzione.

«È stata una questione di narrative, di racconti contrastati e contrastanti. La prima linea di demarcazione era tra chi c’era e chi l’ha vista in televisione. Il racconto mediatico è stato purtroppo per certi versi molto diverso da quello di chi ha vissuto le cose. Non è però stata l’unica linea di demarcazione nel racconto, e anche chi era lì ha avuto versioni molto diverse. Tra gli stessi gruppi che hanno partecipato ai cortei c’erano delle differenze molto profonde nella lettura, differenze che sono state così profonde e talmente contrastanti che hanno determinato dei conflitti che sono durati anni e che hanno contribuito ad allontanare le persone dalla politica».

Il Controvertice è stata la prima grande manifestazione a essere ripresa non solo dai media tradizionali ma anche da mezzi di comunicazione indipendenti, che puntavano a fare controinformazione – attraverso siti internet, dirette radio.

«L’idea che chi controlla la comunicazione ha il potere, che ci fosse un conflitto sulle parole e sul racconto era fortissima. C’era tutta una parte del movimento che contestava i mezzi di informazione e la narrazione ufficiale dei fatti, e che cercava di sviluppare una contro narrazione che poi è stata determinante. Genova è stata la prima grande manifestazione di massa che è stata raccontata da decine di telecamere. A Genova c’erano tutti i media attivisti, una parte di movimento che metteva a tema il modo in cui si raccontano le cose, e tutti i più importanti registi italiani che hanno provato a raccontare ciò che è successo. C’erano Ettore Scola, Gabriele Salvatores, tutti i grandi del cinema italiano. Però, in fondo, la narrazione stereotipata ha avuto la meglio nella memoria collettiva. La memoria è un ingranaggio molto complesso, non è semplicissimo scardinare i pesi di chi ha il potere».

Le immagini di violenza che abbiamo visto arrivare dalle piazze negli scorsi mesi, a Torino e a Milano, durante le manifestazioni per la morte di Lorenzo Parelli, ma anche le vicende di luglio 2021 del Carcere di Santa Maria Capua Vetere in Campania ci fanno pensare che l’atteggiamento di fondo sia sempre lo stesso. Cosa è cambiato?

«Nel 2001 c’era un dibattito sulla riforma delle Forze dell’Ordine, il riconoscimento che in Italia la sua tradizione fosse per certi versi rimasta molto legata a quello che è stata la dittatura del fascismo e che quindi ci fosse la necessità di democratizzare le Forze dell’Ordine. Era un dibattito anche interno affinché ci fossero degli organismi di controllo su chi esercita la violenza per monopolio. Tutta quella discussione è stata poi silenziata dalla lotta al terrorismo. Due mesi dopo Genova c’è stato l’11 settembre e questo ha avuto un peso nella discussione pubblica; tutta la discussione sul terrorismo ha oscurato qualsiasi possibilità di aprire un dibattito reale sulla riforma delle Forze di Polizia e sui limiti dell’esercizio della violenza. Questa questione è poi riapparsa con tanti casi: il caso Cucchi, il caso Aldrovandi e tutte quelle battaglie che poi sono diventati dei casi politici e che hanno riaperto quella questione. Quello che era successo a Genova nel 2001 avrebbe dovuto spingere una riforma profonda, una discussione politica importante a livello istituzionale e di opinione pubblica e questo non è successo. L’Italia ha introdotto il reato di tortura solo nel 2017, limitandolo fortemente, non ha ancora introdotto il numero identificativo per gli agenti di polizia in servizio e continuano le denunce di abusi da parte della polizia penitenziaria; evidentemente c’è un problema che per molti motivi non viene affrontato in maniera sistematica e radicale, ogni volta facciamo finta che sia la prima volta».

Autore

Nicoletta Ionta

Nicoletta Ionta

Capo Redattrice

Ho la luna in capricorno e un accento dubbio. Studio Relazioni Internazionali tra Roma e Bordeaux ma il francese non lo so parlare.

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