Auto-determinazione un tanto al kg

0% Complete

I’m all lost in the supermarket / I can no longer shop happily.

Lost in the Supermarket, The Clash

È il 1979 quando una famosa canzone dei The Clash riusciva perfettamente a descrivere il pervasivo senso di straniamento che incombeva – e ancora incombe – su chiunque varcasse le porte scorrevoli di un supermercato. Noi tutti – noi consumatori – agli occhi della Grande Distribuzione Organizzata siamo una massa informe, provvista di desideri e bisogni, ma che desidera, più di ogni altra cosa, di essere guidata.

E questo perché noi consumatori siamo un popolo volubile. Cambiamo idea, mutiamo abitudini in base al potere d’acquisto, seguiamo le mode e ne creiamo di nuove, ci affezioniamo a una marca o a una categoria merceologica, a una confezione o a un’offerta. Il successo della GDO sta proprio nel cogliere questi mutamenti e indirizzarli. Nessun sondaggio è in grado di scattare una fotografia più esaustiva, completa e organica della società di quanto possa fare il database di un supermercato.

Nessun partito è in grado di rispondere, con la stessa celerità e gli stessi strumenti, alle richieste che arrivano dalla società. I consumatori chiedono cibi più green o senza glutine? Mentre la politica si avvolge in sé stessa, la GDO ha già portato sugli scaffali l’articolo più adeguato per i celiaci, le confezioni che riportano ben visibile la dicitura «senza olio di palma», il prodotto vegan e quello a chilometro zero. 

La GDO intercetta il senso di straniamento dei suoi consumatori. Senso di straniamento che, in ultima analisi, è da quest’ultima generato, grazie ad una serie di tecniche di marketing che disorientano il consumatore e lo catapultano in un orizzonte di “finte certezze” (il saper orientarsi all’interno di qualsiasi supermercato grazie alla specularità strutturale di cui sono dotati). La Grande Distribuzione si vede bene dal garantire al consumatore un pieno e reale controllo del pattern all’interno del quale egli è inserito.

La GDO identifica i clienti e li soddisfa tutti: dal ricco al povero, da chi ha tempo a chi va di corsa, da chi la spesa la fa a colpo sicuro a chi è alla ricerca dell’offerta.

La GDO è, in definitiva, quello che potrebbe essere definito il «partito populista» ante litteram, perché conosce il popolo meglio di chiunque altro, registrandone giorno per giorno i cambiamenti nelle abitudini, negli stili di vita, nei comportamenti. Come sintetizza efficacemente Coop nel suo rapporto 2020, «vince chi interpreta le esigenze mutevoli dei consumatori».

In balìa della GDO

I consumatori sono volubili e questo la GDO l’ha capito bene. Per orientare, di conseguenza, le abitudini all’acquisto di noi consumatori, le varie insegne della Grande Distribuzione si sono avvalse del prezioso aiuto di importanti pubblicitari e di importanti strateghi di marketing.

Per quanto possa sembrare strano nell’era digitale, il volantino resta il principale strumento di marketing dei gruppi della GDO. Secondo alcune stime, in Italia ogni anno vengono stampati all’incirca 12 miliardi di volantini per pubblicizzare le offerte della Grande distribuzione: sono 200 per ogni abitante, compresi i neonati. Una mostruosa montagna di carta che intasa le nostre cassette delle lettere, ma che si continua a produrre perché è funzionale alla principale strategia delle catene della GDO, che è quella della promozione.

Ormai le maggiori catene di supermercati fanno sempre più dell’abbassamento dei prezzi al consumatore il principale elemento della propria strategia di marketing. Basta osservare le loro pubblicità, i cartelloni che affiggono per le città, gli spot che fanno scorrere in televisione o sugli schermi della metropolitana. «Qualità e convenienza», recita Coop, primo gruppo in Italia. «Bassi e fissi», risponde Conad, seconda azienda per fatturato nel paese. Carrefour ribatte con la promozione «Sotto e freschi» su carne e pesce.

Il basso prezzo e il sottocosto, dunque, sono diventati l’ultima frontiera del marketing, o lo sono sempre stati.

In una continua battaglia a chi fa lo sconto più conveniente o la campagna promozionale più convincente, ogni insegna della GDO utilizza le offerte al pari di un programma elettorale, e così i supermercati si trasformano in sezioni di partito che devono convincere l’elettorato – i consumatori – a dare loro fiducia.

Ma il consumatore – proprio come l’elettore di oggi – è volubile e poco fedele. Al primo dubbio si dirige verso un altro punto vendita, seppellisce la tessera sconto nel fondo di un cassetto e ne prende un’altra dal gruppo concorrente. E allora il supermercato moltiplica le offerte per tenersi stretti i fedeli, li rassicura e li coccola. È disposto a fare promesse quasi irrealizzabili, il cui prezzo sarà pagato da qualcun altro.

La filiera e i suoi anelli

Abbagliato dal risparmio, il cliente non s’interroga su come sia possibile acquistare qualcosa a un prezzo indicato come inferiore al costo di produzione. E in effetti, le offerte che hanno convinto il cliente ad andare nel supermercato sconosciuto, quelle che solleticano in tutti noi un’innata propensione al risparmio, sono a carico dell’insegna o degli altri attori del comparto agro-alimentare?

Il supermercato è il terminale ultimo, e il più visibile, di una catena assai più lunga e articolata. Per ognuno dei prodotti esiste chi ha raccolto la materia (il bracciante), chi ha coltivato la materia prima (l’agricoltore), chi l’ha trasformata (l’industriale), chi la vende (la GDO) e chi l’acquista (il cittadino-consumatore). Sono gli anelli della cosiddetta filiera, la cui relazione non è quasi mai pacifica. 

Secondo la relazione del professor Sandro Castaldo – docente all’Università Bocconi di Milano ed esperto di evoluzione del commercio – questo continuo ricorso ad offerte “sottocosto”, ciò che il professore chiama «svalutazione alimentare», ha provveduto a far sfumare la percezione del giusto valore di un prodotto alimentare. Il prezzo corretto sembra essere quello in sconto, che non è più un’eccezione, ma la regola. Di conseguenza, il cibo diventa così una merce che si deve produrre al costo più basso possibile, in modo da riuscire a stare dentro ai vincoli imposti dalla GDO, che poi a sua volta lo vende a prezzi sempre più irrisori. Il professor Castaldo definisce questo meccanismo «trappola della commodity», o trappola della banalizzazione: a lungo andare – secondo il professore – un prodotto diventa indistinguibile e interscambiabile con quelli forniti da altri e l’unico elemento che determina o meno la scelta d’acquisto rimane il prezzo.

Questo meccanismo appare tanto più preoccupante in un universo – quello dell’agricoltura e dell’industria italiane – dominato da realtà piccole, poco favorite da una maggiore concentrazione a monte. Se le multinazionali del cibo riescono ancora a fronteggiare la Grande distribuzione, anche se in misura meno accentuata di prima, le piccole e medie imprese non possono fare molto contro giganti sempre più potenti, che impongono i prezzi più o meno a proprio piacimento.

A monte della pasta comprata «sottocosto», ci sono probabilmente una piccola azienda che entra in affanno e un produttore di grano che non riesce più a vendere il proprio prodotto, perché il pastificio in affanno preferisce comprare il grano canadese, più economico. Dietro la passata di pomodoro venduta in 3×2 ci potrebbe essere un’industria di trasformazione che ha accettato una commessa poco vantaggiosa pur di non perdere l’accesso al mercato, e che cercherà poi di pagare meno la materia prima a un produttore agricolo che a sua volta proverà – sicuramente – a risparmiare sulla forza lavoro, pagando i braccianti il meno possibile.

Trasformando il cibo in una commodity, i supermercati hanno favorito una guerra tra poveri – da una parte gli agricoltori, che non ci stanno più dentro e dall’altra i consumatori, che vogliono spendere sempre meno. L’asta al doppio ribasso è solo l’ultima frontiera – illegale – della trasformazione del cibo in commodity. 

L’asta a doppio ribasso

L’asta al doppio ribasso è l’ultima frontiera dei rapporti verticali e asimmetrici tra insegna della GDO e produttori del comparto alimentare. Si tratta di una gara elettronica con cui il discount mette contemporaneamente in competizione vari fornitori, per acquistare il prodotto finale al prezzo più basso possibile.

Il gruppo manda alle aziende produttrici un’e-mail chiedendo di fare un’offerta. Raccolte tutte le proposte, convoca una nuova gara dove la base d’asta è l’offerta più bassa fra quelle presentate. Il tempo per rilanciare in questa seconda fase è molto limitato. Pochi minuti per dire Sì o No a una commessa di milioni di bottiglie o di scatole di una referenza. Commesse non indifferenti per gruppi industriali che hanno come principale canale di vendita proprio i supermercati. In questo tempo limitato, i manager delle industrie devono decidere se e quanto deprezzare il proprio prodotto per aggiudicarsi la commessa. Non sanno chi c’è dall’altra parte dello schermo e chi sono gli altri concorrenti. Sanno solo che in pochi minuti devono prendere decisioni che influenzeranno gran parte della loro produzione e avranno effetti su tutta la filiera. 

Le aste sono una pratica abbastanza comune, soprattutto fra i gruppi discount per accaparrarsi generi alimentari da poter confezionare sotto il loro brand. Eurospin le usa abitualmente come strumento di negoziazione con i propri fornitori. La passata di pomodoro acquistata a 85 centesimi viene proprio da una di queste gare, al termine della quale il gruppo si è aggiudicato 20 milioni di bottiglie di passata. Prezzo di acquisto finale: 50 centesimi circa per la bottiglia di passata. Il costo di produzione, tenendo conto solo della materia prima, della bottiglia e del tappo, è di 52 centesimi. Appare chiaro che il prodotto è stato venduto ad un prezzo inferiore a quello di produzione.

In una specie di effetto a cascata, ogni attore della filiera finisce per rivalersi su quello più debole: le aziende strozzate dalle aste cercano di ottenere il prodotto agricolo a prezzi più bassi e i produttori provano a risparmiare sul costo del lavoro. 

Volendo stabilire fortemente un legame diretto tra aste al doppio ribasso e sfruttamento nei campi, è indubbio che questa prassi favorisce lo sfruttamento, perché crea un collo di bottiglia che “impedisce” agli agricoltori di fare reddito e li induce a cercare mezzi alternativi per rimanere nei costi, alimentando il fenomeno del caporalato e scaricando i costi di questo mercato malato sull’ultimo anello della filiera produttiva: i braccianti

Una luce “fioca” in fondo al tunnel

Nel 2007, Yvan Sagnet si è messo in viaggio verso l’Italia dal Camerun per studiare, grazie ad una borsa di studio vinta al Politecnico di Torino. La scelta del Belpaese non era casuale: dopo averlo scoperto seguendo la nazionale camerunense durante i mondiali di Italia ‘90, aveva studiato la lingua, la cultura, la storia.

L’incontro-scontro con il mondo del caporalato avviene più tardi quando, conclusosi il periodo della borsa di studio, inizia a cercare un lavoro per potersi mantenere, un percorso che lo conduce fino a Nardò, in Puglia, nei campi di pomodoro dove non manca mai l’esigenza di manodopera, ma non sempre alla luce della legalità.

È così che la storia di Yvan Sagnet si incrocia con il caporalato: insieme ad altri braccianti, nel 2011, organizza un primo grande sciopero contro lo sfruttamento e per i diritti dei lavoratori. Da lì ha preso avvio una importante inchiesta che ha portato al processo SABR, che prende il nome dal tunisino Saber Ben Mahmoud Jelassi, considerato uno dei principali caporali della zona, ma non soltanto. Anche l’iter che ha portato all’approvazione della prima legge sul caporalato (Legge n. 148/2011) e alla nuova legge del 2016, è debitore alle proteste di Nardò.

La dimensione legislativa e giudiziaria, però, non è sufficiente. Colpire i caporali è parte fondamentale della lotta contro il fenomeno, ma esiste anche una battaglia culturale per far sì che si inneschi un cambiamento nella visione e nelle abitudini dei consumatori. Così, anno dopo anno, la rete No Cap cresce, focalizza i suoi obiettivi e nel 2017 si trasforma in una vera e propria associazione che fornisce strumenti a chi ancora viene sfruttato, ma anche al consumatore, per compiere scelte più rispettose e consapevoli.

Yvan Sagnet

È così che è nata l’esigenza di esercitare un controllo sui prodotti del territorio al fine di attribuire un bollino etico, una forma di certificazione per un prodotto 100% pulito. E, nell’ottobre del 2018, è stata anche presentata la prima salsa di pomodoro con il bollino No Cap. Una passata “etica ed energetica” che ha coinvolto diversi attori, i quali, in piena trasparenza, hanno aperto le loro porte agli esperti dell’associazione No Cap per mostrare il viaggio del pomodoro dal campo alla tavola.

C’è, infatti, il Centro di Documentazione Associazione Michele Mancini che è l’effettivo produttore delle passate e che si è fatto carico dell’assunzione regolare dei braccianti agricoli; l’associazione Arci Basilicata che ha accolto nelle sue strutture i lavoratori in condizioni abitative dignitose; l’azienda agricola “Giuseppe Vignola” che è proprietaria del campo di pomodori e l’azienda “Biologica Vignola” che ha curato la trasformazione e l’imbottigliamento del prodotto.

È la prima certificazione rilasciata dall’associazione No Cap, ma, come sottolineato da Sagnet, si tratta di un progetto pilota che – secondo lui – porterà, nei prossimi anni, ad allargare il raggio d’azione e coinvolgerà sempre più aziende per fornire al consumatore un prodotto etico.

Infatti, per ottenere il bollino etico è necessario soddisfare sei requisiti fissati, in maniera trasparente, da No Cap:

  • Etica nei rapporti di lavoro;
  • Decarbonizzazione del processo produttivo;
  • Rispetto di una filiera virtuosa e trasparente;
  • Rifiuti zero e promozione di un’economia circolare;
  • Riconoscimento del valore aggiunto sui prodotti;
  • Trattamento etico degli animali.

Questi punti si ritrovano anche sull’etichetta No Cap che, in linea con quanto promosso da tutte le realtà che si battono per un commercio più equo e trasparente, da Sfrutta Zero a Funky Tomato, evidenzia in maniera esplicita come si compone il prezzo della passata e mostra un QR code per l’approfondimento a portata di mano. 

#1 Un dilemma etico troppo costoso

Distanziandosi da Feuerbach, Gedike e Brillant-Savarin, Adriano Fabris, professore ordinario di Filosofia Morale dell’Università di Pisa, afferma che:

[…] nella misura in cui noi possiamo scegliere, allora, anche se mangiamo per essere, possiamo non essere ciò che mangiamo.

A. Fabris, Etica del mangiare, Edizioni ETS, 2021.

Ed è per questa ragione che l’essere del consumatore non deve per forza darsi nelle scelte che quest’ultimo compie tutti i giorni, tra cui l’acquisto di generi alimentari che non rispecchino una spiccata sensibilità verso dei temi che potrebbero toccarlo da vicino. È necessario spiegarsi meglio.

Un problema strutturale

L’accesso al cibo è la componente più importante della sicurezza alimentare (food security). A differenza del concetto di disponibilità o offerta alimentare, che va considerato a livello aggregato (locale, regionale, nazionale, globale), l’accesso al cibo va analizzato a livello familiare ed individuale. Esso riguarda essenzialmente la possibilità per una famiglia o un individuo di ottenere una quantità e qualità di cibo adeguata ai propri bisogni e preferenze.

Questa possibilità dipende normalmente dal potere d’acquisto della famiglia o individuo – data una certa disponibilità di cibo sui mercati. È evidente che nella nostra epoca la grande maggioranza della popolazione mondiale ottiene il cibo dal mercato. E, siccome la disponibilità di cibo a livello mondiale è ormai da molto tempo più che sufficiente per tutti (o per lo meno per i paesi occidentali, considerati “sviluppati”), l’accesso al cibo per la grande maggioranza delle famiglie dipende dal proprio potere d’acquisto, ossia da due variabili: il proprio reddito e il prezzo relativo del cibo, ossia le ragioni di scambio tra cibo e altre merci. Dunque, nel breve periodo, i due fattori fondamentali da analizzare per comprendere il mancato accesso al cibo sono il reddito delle famiglie, soprattutto quelle più povere, e le ragioni di scambio del cibo.

Sebbene il reddito abbia varie determinanti, per le famiglie più povere dipenderà essenzialmente dall’occupazione, dal saggio di salario e dalle possibilità e capacità produttive della famiglia (risorse economiche, istruzione etc.). Per i lavoratori salariati, ad esempio, il reddito sarà determinato sia dall’andamento generale del sistema economico e dalla sua capacità di creare occupazione, sia dal funzionamento del mercato del lavoro e dalle altre istituzioni che determinano il livello dei salari. L’accesso al cibo, per tutte queste famiglie, dipenderà, pertanto, più dalle condizioni macroeconomiche e istituzionali che non dall’andamento del settore agricolo.  Per una famiglia monoreddito di classe medio bassa, con reddito salariato annuo attestato intorno a 19.000 euro, la spesa alimentare grava sulle tasche familiari mensilmente per una cifra intorno ai 550 euro circa

#2 Un dilemma etico troppo costoso

Come abbiamo appena visto, è possibile sostenere in maniera incontrovertibile che il principio della ricerca della convenienza, tradotto nella caccia alle offerte su ogni sorta di genere alimentare, sarà il fine ultimo dell’agire della famiglia-tipo prima descritta. 

Il consumatore dinanzi allo scaffale del supermercato virerà sempre sul prodotto che sappia meglio rappresentare il principio che lo anima: la sintesi tra convenienza e qualità. Sullo scaffale del supermercato l’appetibilità di una passata di pomodoro sarà direttamente proporzionale alla possibilità di spesa del consumatore. Per quest’ultimo, sebbene la passata di pomodoro nasconda dietro il suo oggettivizzarsi come genere alimentare una dialettica di processi produttivi generalmente poco etici, la scelta di cosa mettere nel carrello potrà tenere conto di tutte le variabili del caso solo in virtù di una sostenibilità economica.

Fintantoché la passata di pomodoro No Cap costerà al consumatore 4 volte tanto (€0,85/lt per la passata di pomodoro del discount vs €4,00/lt per la passata di pomodoro No Cap) rispetto alla passata di pomodoro del discount, il prodotto etico resterà una scelta che solo una piccola fetta di consumatori potrà permettersi.

La scelta etica, allora, assume qui un grado di esclusività. E dunque, una famiglia mono-reddito, sebbene possa essere spinta da una sensibilità disarmante rispetto alle condizioni avverse che devono affrontare i braccianti che lavorano in terra pugliese, non potrà permettersi di tradurre la sua sensibilità in una scelta che possa in qualche modo avere un impatto sulla GDO e sulla narrativa che quest’ultima vuole costruire e sta costruendo sul comparto alimentare. 

D’altra parte, ovviamente, la precedente famiglia mono-reddito non potrà di certo essere colpevolizzata per l’impossibilità di esplicare la propria sensibilità e la propria vicinanza ad un tema del genere: il fabbisogno alimentare di un nucleo familiare (ammenoché non ci sia una riduzione del numero di componenti dello stesso) non può che incrementare nel tempo e il mancato incremento reddituale dello stesso si traduce in una scelta sempre più limitata dinanzi allo scaffale del supermercato. 

Il facile processo di etichettatura, che ha la pretesa di volerci irreggimentare tutti entro categorie definite al fine di polarizzare il dibattito pubblico rispetto ad i temi ben più disparati, non tiene conto delle iniquità di base che attanagliano l’essere umano. Come aveva ben chiarito Hegel, un individuo di per sé non può dirsi libero se costantemente su di lui agiscono forze che lo costringono in una condizione (economica, sociale, morale etc.) di perenne assoggettamento. E il perenne assoggettamento in cui è costretto l’individuo si traduce in una mancanza di possibilità e di scelta, le quali son concesse solo a pochi, come un lusso, come uno sfarzo. Ed è allora precisamente qui che la questione diventa etica, in quanto anela un concetto di libertà e di auto-determinazione che risulta essere oggi più che mai restrittivo ed esclusivo, ad appannaggio di pochi sui molti


Bibliografia: F. Ciconte & S. Liberti, Il grande carrello, Laterza, 2019; A. Fabris, Etica del mangiare, Edizioni ETS, 2021.

Autore

Laureato a metà, giornalista a metà. Ad un mondo di incertezze preferisco il buon odore di lenzuola appena lavate.

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