L’Arminuta tra romanzo e trasposizione cinematografica

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L’arminuta è il nuovo film di Giuseppe Bonito, tratto dall’omonimo romanzo di Donatella di Pietrantonio, che nel suo anno di uscita (il 2017) vinse il Premio Campiello. Il film, presentato il 15 ottobre nella selezione ufficiale della 16esima edizione della Festa del Cinema di Roma, è stato distribuito nelle sale a partire da giovedì 21 ottobre.

È l’estate del 1975 e una ragazzina di 13 anni viene portata, da quello che pensa essere il suo vero padre, a casa di sconosciuti, nell’ entroterra abruzzese. Ben presto si renderà conto che non si tratta soltanto di una visita, ma che quella che ai suoi occhi appare come una baracca, diventerà la sua nuova casa all’interno della quale dovrà condividere una difficile quotidianità con i membri della sua famiglia biologica. Da questo deriva il soprannome che verrà dato alla protagonista, interpretata dalla brillante Sofia Fiore, “L’arminuta”, che in dialetto abruzzese sta a significare “la ritornata”. 

Il film presenta sin da subito un dualismo e una polarità marcati: da un lato c’è il contesto borghese in cui è cresciuta la protagonista, tra villette, passeggiate sul lungomare e giornate in spiaggia, dall’altro c’è un mondo rurale caratterizzato da povertà e scarsa cultura. La differenza tra questi due mondi, il primo moderno e l’altro arcaico è sottolineata da molte scelte registiche. È evidente, innanzitutto, il lavoro fatto con gli attori, fondato sulla contrapposizione tra due registri linguistici totalmente opposti: da un lato il perfetto italiano parlato in città e dall’altro il dialetto parlato nell’entroterra.

La fotografia eccelsa contrappone le scene in cui l’arminuta ricorda i momenti trascorsi nell’ambiente di cui è stata privata e le scene che si svolgono in quello nel quale è stata costretta a trasferirsi, differenziandole con molta evidenza. Di estrema rilevanza sono altresì i costumi, pronti a incarnare la differenza di classe e di atteggiamento: ai vestiti alla moda dai colori sgargianti dell’arminuta e della madre adottiva, si contrappongono quelli scuri o malmessi della famiglia d’origine.

A proposito della polarità dei due mondi non si può non notare la differenza tra le due madri, molto diverse tra loro, per cultura, stile di vita e atteggiamenti, ma accomunate da una “colpa” comune: aver rinunciato alla stessa bambina. Le due donne affrontano il dolore in maniera diversa e lo restituiscono allo spettatore in un modo del tutto riconoscibile. Gli occhi di Vanessa Scalera, che interpreta la madre biologica, bucano lo schermo colmando i propri silenzi dovuti forse alla scarsa capacità di verbalizzare ciò che prova. L’attrice stessa in conferenza stampa ha detto: «Vengo da un piccolo paesino del sud: quel mondo contadino lo conosco, quella contrizione sentimentale, quel grumo che non si scioglie mai, quegli occhi dolenti li ho visti in tante donne, in tante famiglie». È impossibile per lo spettatore non empatizzare con questa donna, che cela in sé una fragilità, una dolcezza, un bisogno di essere accolta e che non riesce ad esprimere quell’affetto materno che probabilmente a sua volta le è mancato. Il ritorno dell’arminuta è la sua grande possibilità di riscatto, il suo modo di farsi perdonare e di perdonarsi per l’abbandono.

Adalgisa, interpretata da Elena Lietti, è invece, la madre che compie il gesto più riprovevole. “Restituisce” la figlia, pur vivendo nel benessere, pur essendo consapevole di poter continuare a crescerla non facendole mancare nulla. Adalgisa è quella che sparisce senza dare una spiegazione, continuando a mandare soldi da lontano, un letto nuovo e del cibo, affidando in tal modo alle cose materiali il compito di colmare il vuoto da lei stessa lasciato.

Un’altra figura di notevole spessore all’interno della storia è quella del fratello maggiore Vincenzo, magistralmente interpretato da Andrea Fuorto, il quale mostra sin dall’inizio un atteggiamento disponibile e protettivo nei confronti della nuova arrivata, atteggiamento che ben presto presenterà tratti ambigui. Questo interesse morboso sarà motivo di disorientamento da parte della protagonista e di riprovazione da parte dello spettatore, che solo dopo aver compreso il suo dramma, riuscirà ad inquadrarlo come un’altra vittima meritevole di empatia. 

Alla protagonista è chiesto uno sforzo di adattamento, di crescita, di resilienza, che supera di gran lunga le capacità di una ragazzina della sua età. Le è inoltre assegnato l’arduo compito di conciliare gli opposti, di cercare tutte le infinite posizioni mediane che ci sono tra due mondi che si sfiorano senza mai toccarsi.

Per fare questo, l’arminuta si servirà di un’aiutante particolare, la sorellina Adriana, personaggio essenziale all’interno della storia, interpretata dalla simpaticissima Carlotta de Leonardis che strappa più di una risata al pubblico con la sua innocente purezza e con le sue battute rigorosamente in dialetto abruzzese. 

Non è facile, però, per un’adoloscente avere una maturità diversa da quella della propria età, non è sempre facile comprendere le dinamiche degli adulti e soprattutto non è facile accettare passivamente ciò che viene deciso dagli altri per il proprio futuro. È proprio per questo che in una scena molto intensa tra madre e figlia, l’arminuta, in preda ad un dolore profondo e ad un impeto di irrefrenabile ribellione griderà: «Io non sono un pacco».

Questa è forse la frase chiave del film, il motore di tutta l’azione ed è anche il motivo per cui, anche se ambientata in un’altra epoca, questa storia ci appare così vicina e così tragicamente attuale. Sono troppi, anche oggi, i ragazzini che soffrono per essere spostati da una famiglia all’altra, che somatizzano tutta una serie di abbandoni che determineranno inevitabilmente il loro modo di essere adulti.

Il film tocca ed emoziona nel profondo, smuove le coscienze, trascinando anche lo spettatore più lontano dalle realtà descritte in un insieme di sentimenti, ambienti, conflitti, facce, situazioni e colori, che non possono che catturarlo, ma del resto queste sono caratteristiche che erano già proprie del romanzo. Come ha detto anche il regista in conferenza stampa: «La scrittura di Donatella [di Pietrantonio] è talmente importante, ogni parola è così densa di significato che forse ci vorrebbero tre stagioni di una serie per trasporre tutto il romanzo». Sarà forse una promessa? Non ci resta che aspettare di scoprirlo.

Autore

Aurora, classe 1997, laureata in Letteratura musica e spettacolo, attualmente studio Scritture e produzioni dello spettacolo e dei media. Sono un'appassionata di cinema e odio le presentazioni formali.

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