“C’è sangue e sangue” o della sua rappresentazione cinematografica

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Il sangue, dal più realistico al più volutamente surreale, è qualcosa che siamo ormai abituat3 a vedere sul grande schermo: è ciò che ci aspettiamo ogni volta che al cinema assistiamo a un crimine efferato, a una colluttazione, a un’operazione chirurgica o a un episodio della saga di Saw. È, in poche parole, una naturale conseguenza in un rapporto causa-effetto inevitabile, persino Michael Myers, che è immortale, sanguina. A meno che non si stia guardando X-Files siamo certi che un corpo umano produrrà sangue. Sembra, dunque, che al giorno d’oggi quello che fa la differenza non sia il sangue in sé, dal momento che nient’altro possiamo aspettarci come esito di un pugno, un taglio o di un’accettata ma, piuttosto, chi cosa sanguina.

Esistono, a mio parere, due tipologie di sangue culturalmente accettato nei film (o meglio, che accettiamo di vedere): la prima è quella che possiamo definire sangue delle botte, ossia, il sangue che ci aspettiamo, senza sorpresa, quando assistiamo a risse, duelli e sparatorie. Il sangue, in poche parole, richiesto dalla mascolinità performativa. Si pensi, primo fra tutti, al cult di David Fincher Fight Club (1999), per definizione pellicola sul combattimento (tra uomini, s’intende) perché, come afferma Tyler Durden (Brad Pitt) nel film, «quanto sai di te stesso se non ti sei mai battuto?».

David Fincher, Fight Club (1999)

È impressionante quanto sia normale, per noi spettator3, aspettarci il sangue degli uomini: il dolore fisico e il sanguinamento diventano un requisito di mascolinità, qualcosa che, se non si conosce, si deve cercare: è un rito di passaggio. Se Freud parlava di ‘invidia del pene’ per quanto riguarda le femmine in età infantile, forse possiamo parlare di ‘invidia del sangue’ da parte del genere maschile (culturalmente inteso e stereotipato).

Basti pensare al fatto che dolore e sanguinamento accompagnano, solitamente, la maggior parte della vita delle donne e dei corpi femminili; peccato che quando sono le donne a sanguinare non vogliamo guardare. Attenzione, anche le donne sul grande schermo lottano, uccidono e squartano, la saga di Kill Bill ruota attorno all’implacabile sete di vendetta della Sposa (Uma Thurman) che sferra e riceve colpi dando vita all’ormai iconico scenario cruento alla Tarantino. Va bene se le donne menano come gli uomini, il punto è che devono anche sanguinare come loro.

La seconda tipologia di sangue accettabile sul grande schermo è quella che definirei sangue del male, ovvero, quello che diamo per scontato durante un qualsiasi film horror thriller: quel sangue che vediamo vomitato sulle tonache dei preti durante gli esorcismi, che vediamo colare dalle fauci dei vampiri e spruzzare sul viso de3 assassin3. Che la responsabilità sia di un demone o di unə serial killer poco importa, il sangue è giustificabile e, soprattutto, prevedibile.

Wes Craven, Scream (1996)

Sul genere horror, tuttavia, è bene spendere qualche parola in più.

Il sangue che ci si aspetta da un serial killer come Patrick Bateman in American Psycho (2000), ad esempio, è necessario e funzionale alla trama: se una persona viene accoltellata sanguina. Lo stesso discorso vale per i film slasher, sottogenere dell’horror caratterizzato dalla presenza di un maniaco omicida che perseguita e uccide 3 protagonist3 in maniera cruenta soprattutto con armi da taglio (modelli prototipici sono Halloween (1978) di John Carpenter e Scream (1996) di Wes Craven). In questo genere il sangue diventa parte imprescindibile della sceneggiatura, quasi un personaggio che si vuole vedere a tutti i costi sullo schermo. (Un discorso a sé merita il tema del sangue femminile nei film slasher per cui si rimanda a Il mostruoso femminile di J. E. S. Doyle).

Tralasciando i serial killer, dunque, è interessante riflettere sul ruolo del sangue nell’horror per definizione, ossia, quel «genere cinematografico fondato su scene, azioni e immagini macabre e raccapriccianti». Il sangue presente in questo tipo di pellicole ha come obiettivo quello di “fare senso, impressione”, in altre parole, di “fare schifo”. Chi vi assiste deve provare un senso di ribrezzo, turbamento e disagio. Per questo motivo spesso l’horror adopera l’espediente del sangue, più o meno ingiustificato, come escamotage finalizzato a suscitare inevitabile sconcerto nellə spettatorə. Si prestano particolarmente bene a fornire qualche esempio i film tratti dai romanzi del maestro dell’horror Stephen King: il fatto che la forma originaria sia quella scrittoria, infatti, non diminuisce la potenza visiva e culturale della scena cinematografica.

Si pensi alla sequenza più memorabile e caratteristica di Shining (1980), classico del cinema horror diretto da Stanley Kubrick: l’ascensore da cui sgorga un fiume di sangue che inonda il corridoio dell’Overlook Hotel è uno degli elementi più iconici del film; o ancora, la celeberrima scena di Carrie (1976 e 2013) al ballo della scuola durante il quale Carrie White, incoronata reginetta, viene inondata da una secchiata di sangue di maiale strategicamente posizionata sopra la testa della ragazza da alcuni compagni, è divenuta quasi una citazione proverbiale della cultura pop.

Brian De Palma, Carrie (1976), foto di Sunset Boulevard/Corbis via Getty Images

È proprio quest’ultimo film a rappresentare un trait d’union con quella tipologia di sangue culturalmente inaccettabile che è il sangue mestruale.

Carrie è un film che inizia e finisce col sangue. L’incipit della storia vede la protagonista vittima della derisione e della violenza delle proprie compagne di scuola quando scopre per la prima volta di sanguinare durante il ciclo mestruale, mentre si sta facendo la doccia negli spogliatoi della palestra. Carrie conosce, in quei primi minuti di film, il sangue che nessuno vuole vedere: non lo vuole vedere lei, dal momento che ne è ignara (a causa della ferrea educazione religiosa della madre); non lo vogliono vedere le sue compagne, vittime di quella colpa interiorizzata alla quale la società ci abitua e alla quale rispondono a loro volta come sono state istruite: con la vergogna; non lo vuole vedere il preside che, quando intravede il sangue di Carrie sull’uniforme di Miss Desjardin che l’ha soccorsa, distoglie lo sguardo evidentemente a disagio per una macchia di sangue su un pantaloncino.

Se nell’ufficio del preside fossero entrati due ragazzi reduci da una scazzottata con gli indumenti e i visi imbrattati di sangue, avrebbe reagito allo stesso modo?

Troppo spesso siamo abituat3 ad associare il sangue mestruale al cinema dell’orrore, e dunque, all’effetto che il sangue tende a suscitare in quel genere di film: ribrezzo.

Quest’anno, durante la diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma, ho assistito alla proiezione di Saltburn, secondo film di Emerald Fennell (già regista di Promising Young Woman). Una scena del film mostra il rapporto sessuale tra due personaggi, uno maschile e uno femminile (senza spoiler) durante il ciclo mestruale. Nello specifico, la sequenza in questione rappresenta una scena di sesso orale praticato dal personaggio maschile su quello femminile mostrando esplicitamente il sangue di lei sia sulle labbra che sulle mani di lui. La quantità di «che schifo!» non proprio bisbigliati e, addirittura, di occhi coperti a cui ho assistito ha dell’incredibile.

Mi chiedo se nelle nostre menti una scena di sesso come quella rimandi automaticamente alla celebre scena dell’Esorcista (1973) in cui Regan, dopo essersi masturbata infilzandosi con un crocifisso, preme la testa della madre sui suoi genitali insanguinati intimandole: «leccami!».

L’associazione tra orrore del soprannaturale e orrore del sangue femminile a cui assistiamo spesso nel cinema ci ha abituat3, un po’ come nella teoria del riflesso condizionato di Pavlov, ad associare automaticamente le mestruazioni a quel senso di orrido che il sangue deve suscitare nel film horror.

Quel sangue che Ipazia in Agora (2009) considera privo di armonia e bellezza quando rifiuta il corteggiamento di Oreste porgendogli un fazzoletto sporco di sangue del suo ciclo, è in realtà degno di essere mostrato tanto quanto il sangue causato da una coltellata o da un pugno nei denti. Se da una ferita ci aspettiamo sangue possiamo aspettarcelo anche da un corpo durante il ciclo mestruale come naturale esito degli eventi.

Allo stesso modo, seguendo l’esempio di Fennell, sarebbe auspicabile che la rappresentazione del sangue mestruale durante i rapporti sessuali (che, ricordiamolo, non sono sempre penetrativi) venisse normalizzata e incentivata, dal momento che anche il sangue è un fluido corporeo come gli altri, e che la sua stigmatizzazione, nell’intimità e non, passa anche attraverso la sua (mancata) rappresentazione cinematografica.

Perché, come afferma Doyle nel testo sopra citato: «sia le donne reali che i personaggi immaginari vengono utilizzati […] per soddisfare gli scopi della cultura, vengono rielaborati e ridefiniti nelle nostre narrazioni, affinché le paure che nutriamo riguardo al mondo femminile possano in essi trovare conferma, e la nostra idea di “donna” possa continuare a essere plasmata».

Autore

Elena Tronti

Elena Tronti

Autrice

Nata nel 1998, laureata in Linguistica. Amo i boschi e guardare film. Credo ancora che parlare sia l’atto più rivoluzionario di cui siamo capaci. Parlare di femminismo ancora di più.

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