L’università costa sempre di più per i fuori corso

Siamo sicuri che sia una cosa giusta?

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In Italia ci sono 700.000 studenti fuoricorso, ognuno con storie differenti ma accomunati da una visione distorta che troppo spesso la società ha di loro, arrivando a considerarli “fannulloni”. Nessuno si è mai chiesto quali possano essere le reali motivazioni che portano uno studente a non laurearsi in tempo.

Tali ragioni possono essere molteplici: dallo stress e dall’ansia generate da un sistema profondamente iniquo e competitivo, oppure dal bisogno di sostenersi autonomamente perché provenienti da famiglie non benestanti che non possono supportarli economicamente.

La “politica del merito” produce un sistema che esclude quegli studenti che hanno difficoltà durante il loro percorso, edulcorando dei modelli i quali spesso si privano anche dei bisogni più essenziali per raggiungere nel minor tempo possibile la laurea. Ricordiamo il caso di Carlotta Rossignoli, dipinta da tutta l’informazione mainstream come una ragazza di successo per essersi laureata in un tempo record, rinunciando, a detta sua, a preziose ore di sonno. Ma si può considerare di successo questo modello di studentessa?

Sarebbe opportuno scendere più nel dettaglio per analizzare le ragioni che portano uno studente ad andare fuoricorso. I disagi psicologici potrebbero essere molteplici: durante il primo anno di università, gli studenti sono costretti ad abituarsi a metodi di apprendimento nuovi necessari per memorizzare una mole elevata di studio; devono far fronte ad un supporto individuale minore con il docente e si trovano in un ambiente più competitivo. 

Un numero elevato di studenti universitari sperimenta difficoltà legate alle proprie abilità di studio, come stress legato agli esami (90,5%) e alle scadenze e alla gestione del tempo (83,3%) (Touloumakos et al., 2016). Molti studenti, inoltre, sono costretti ad allontanarsi dal proprio nucleo famigliare a trasferirsi in un’altra città, dove dovranno imparare a gestire autonomamente nuove e numerose incombenze quotidiane, senza poter più usufruire a pieno del sostegno delle reti di supporto sociale che hanno lasciato nelle città d’origine, ritrovandosi oltretutto spesso a convivere con dei perfetti estranei, aventi esigenze e abitudini non necessariamente affini alle loro. Altre fonti di disagio sono costituite dai costi dello studio e dalle preoccupazioni relative alle proprie prospettive lavorative, alla propria immagine, e al proprio successo accademico. Tutti questi fattori generano un aumento dei livelli di stress percepito, insieme a un incremento di ansia. A dare un ulteriore peso vi è la continua pressione sociale che incombe sugli studenti. Le aspettative dei genitori e la paura del fallimento sono le condizioni di disagio su cui si innesta la necessità di mentire sul proprio percorso di studi perché considerato “poco dignitoso”.

Gli studenti italiani appaiono particolarmente stressati, con un’incidenza superiore rispetto alla media europea. Secondo una ricerca dell’UNICEF, il 15% degli studenti delle nostre università ha ricevuto una diagnosi di disturbo mentale.

Spesso i fuoricorso vengono giudicati come falliti e incapaci nel mettere ordine nella propria vita, portando gli studenti a compiere atti estremi come il suicidio. In Italia, ogni sedici ore un giovane si suicida. Questo è il dato secondo l’Osservatorio Suicidi della Fondazione BRF – Istituto per la Ricerca in Psichiatria. Parte del problema è da imputare alla società capitalistica, che spettacolarizza il raggiungimento del titolo accademico e che è incentrata sull’egoismo e sulla produzione piuttosto che sulla formazione, contribuendo allo sviluppo di un sistema mediocre.

La società giudicante si presenta ancora una volta come quel padre con la mano alzata, in segno di forza, pronto a punire i figli ‘degeneri’, impressi nei dipinti di Schiele e nelle parole di Kafka.

A questi disagi psicologici si aggiungono quelli dovuti alla necessità di supporto economico. In Italia, 4 studenti su 10 studiano e lavorano (fonte: Eurostudent). Al sud i casi sono anche maggiori, arrivando anche a 7 studenti su 10, a causa di condizioni reddituali più precarie. La situazione si aggrava ancora di più per gli studenti fuorisede. Prendiamo l’esempio di Napoli in cui, nella maggior parte dei casi, a uno studente fuorisede non viene stipulato un contratto di fitto regolare. Ciò determina una perdita di 2000 euro netti sulla borsa di studio, poiché lo studente risulta pendolare non potendo certificare il proprio status da fuorisede. Oltre al danno anche la beffa: per poter sostenere le spese dell’affitto, lo studente è costretto a lavorare con orari massacranti e con un salario ben al di sotto della sussistenza.

È bene ricordare che al momento diversi atenei non presentano delle modalità per supportare l’integrazione e la continuità didattica per gli studenti-lavoratori; in tal senso, la didattica a distanza potrebbe essere uno strumento utile per venire incontro alle esigenze di questa categoria.

L’università risulta ancora essere impreparata o sprovvista dei mezzi necessari per far fronte a questi bisogni. Le riforme degli anni recenti (Riforma Moratti e Riforma Gelmini) hanno trasformato i nostri atenei in delle vere e proprie aziende che guardano al profitto piuttosto che alla formazione dei cittadini – studenti. L’esempio lampante è quello di uno studente fuori corso che si trova a pagare una tassa maggiorata non più legata alla propria situazione reddituale. Questa è una modalità che allontana questi “fannulloni” dalle università, anziché andare incontro ai loro bisogni e alle loro difficoltà. Questo modello si pone in palese contrasto con il dettato costituzionale, in particolar modo è lesivo del principio di eguaglianza sostanziale (ex art. 3, comma 2) e del diritto allo studio, poiché si pone una palese disuguaglianza e non tiene conto delle situazioni soggettive di disagio fra i vari studenti. Don Lorenzo Milani ha riassunto questo concetto in una frase molto semplice: “non c’è errore più grande che fare parti uguali fra diseguali”.

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