L’ultima finale di Coppa del Mondo ha registrato un picco di ascolti di oltre 3,5 miliardi di spettatori, più di mezzo mondo collegato. Le finali NBA, con l’unica eccezione dell’anno scorso – dove gli ascolti sono stati molto bassi – sono uno degli eventi più seguiti in tutto il mondo. Soprattutto in America, secondi solamente al SuperBowl. Gli sportivi hanno raggiunto lo status di celebrità a tutti gli effetti. Sono i più seguiti sui social, e per questo godono di incredibile risonanza.
Non mancano quindi casi in cui alcuni sportivi travalichino i confini del campo di loro competenza per sfruttare la loro visibilità, per aiutare certe comunità, per sostenere certe battaglie, per difendere certi ideali. Ma non mancano anche casi in cui a questi personaggi interessi solamente il gioco.
A questo proposito, da poco si è tenuto un acceso dibattito a distanza tra due degli sportivi più conosciuti al mondo, Zlatan Ibrahimovic, calciatore di fama mondiale, e Lebron James, cestista tra i più forti di ogni epoca.
Cosa è successo
Lo svedese ha recentemente criticato la scelta di Lebron James di usare il proprio ruolo di icona mondiale per parlare di politica, abusando – secondo lui – del suo status di personaggio. «Per me meglio tenersi lontano da questi argomenti, e fare quello in cui si è bravi, altrimenti rischi di non farci una bella figura», ha tweettato Zlatan. La risposta da oltreoceano è stata tempestiva. Dimostrando un’accurata capacità di comunicazione, Lebron James, in prima linea da sempre con il movimento Black Lives Matter, ha risposto portando all’attenzione mediatica un’intervista che il calciatore aveva rilasciato nel 2018. Intervista in cui Ibra accusò i media svedesi di razzismo nei confronti del suo cognome, dimostrando di aver trattato a sua volta temi politici. Lebron ha concluso poi ribadendo la volontà di usare la sua notorietà per combattere le ingiustizie, per dare voce a chi non la possiede. Secondo il campione statunitense, è compito di chi ha visibilità fare politica impegnandosi giorno dopo giorno sensibilizzando il proprio pubblico e mobilitandosi in prima persona. A questo proposito, il campione della NBA ha aperto recentemente (tre anni fa) una scuola per 240 bambini disagiati nella sua città, Akron, nell’Ohio, dimostrando la sua grande empatia. «Sono e sarò sempre un ragazzo di questa città», ha commentato.
È giusto esporsi?
Gli sportivi, sempre di più, cercano di superare i confini dei loro sport per addentrarsi in questioni più complesse che variano dalla politica alla lotta per i diritti umani, ergendosi a modelli di comportamento per milioni di persone. Chi per spirito d’appartenenza ad una determinata classe sociale, chi per semplice dimostrazione di solidarietà.
La capacità che gli sportivi hanno in questo momento di spostare gli equilibri è incredibilmente alimentata da un susseguirsi di ingiustizie che si consumano in tutto il mondo. In queste situazioni, i loro gesti possono diventare fonte di ispirazione per intere comunità. E proprio per questo l’attenzione prestata ai commenti e interviste che rilasciano è sempre più grande.
Ma gli sportivi di oggi hanno una visibilità e una risonanza mediatica che gli permette di esporsi e di influenzare i comportamenti degli altri anche perché altri colleghi prima di loro hanno accettato anni di soprusi pur di prendere posizione su certe tematiche.
I casi che hanno fatto la storia
Gesti plateali come quelli di Muhammad Alì, che gettò la sua medaglia d’oro olimpica nel fiume Ohio in seguito ad un episodio di razzismo e che scelse di non partire per la guerra in Vietnam, nonché quelli di Peter Norman, Tommie Smith e John Carlos, che salendo sul podio alle olimpiadi di Città del Messico del ’68 rivolsero un pugno al cielo per rivendicare la tutela dei diritti delle popolazioni afroamericane, non passarono illesi. Le ripercussioni sulla loro carriera sportiva furono estremamente severe, nonostante le loro azioni non riguardassero lo sport. A Muhammad Alì venne sospesa la licenza per combattere per tre anni. Si pose fine all’istante alla carriera di corridori Smith e Carlos. E, infine, Peter Norman venne condannato dai media australiani e boicottato per le successive olimpiadi, nonostante si fosse qualificato.
D’altro canto, non tutti gli sportivi, ad oggi, manifestano il loro sostegno con dichiarazioni pubbliche o atti eclatanti. C’è chi, all’ombra dei fotografi e dei microfoni, porta avanti da anni iniziative sociali e umanitarie con interesse e sostegno costante.
Forse allora la questione non riguarda solo la legittimità di una presa di posizione, ma anche le modalità di questa presa di posizione. Certo, esponendosi pubblicamente il messaggio arriva in modo più diretto, ma si corre anche il rischio di influenzare in maniera troppo incisiva, e priva di filtri, chi ascolta.
Proprio per questo motivo, alcuni esponenti del mondo dello sport hanno deciso, in passato, di non trattare temi non relativi all’ambito dello sport. Il caso più celebre è il mancato appoggio nel 1990, da parte di Michael Jordan, al politico Harvey Gantt nella corsa al Senato per lo Stato del North Carolina, di cui sarebbe potuto diventare il primo senatore afroamericano. Michael chiosò questa sua rinuncia a prendere una parte politica così netta con una frase che suscitò non poche polemiche: «Anche i repubblicani comprano le scarpe».
In conclusione, si può ritenere certamente che l’incredibile eco mediatica di cui godono questi personaggi trasmetta un qualche obbligo morale che li porti poi ad affermarsi politicamente e socialmente. Questo non deve però portare poi ad una delusione quando ciò non accade; gli sportivi hanno la responsabilità di far sentire la propria voce, di battersi quando lo ritengono necessario, ma non il dovere. Forse sono giusti tutti e due i modi di agire. Di sicuro, in qualsiasi modo si decida di agire, nell’era dei social è difficile evitare le polemiche per personaggi di una certa risonanza: «Deluderò sempre qualcuno, lo so e lo capisco, perché ognuno ha la sua idea preconfezionata di quello che dovrei o non dovrei fare», diceva Michael Jordan. E forse vale ancora oggi.
Autore
Romano e romanista. Tutti mi dicono che assomiglio a Mauro Icardi, ma secondo me sono più bello. Nei viaggi con gli amici sono quello che guida, ma per passione. Laureato in Lettere, sognavo di scrivere per qualche testata giornalistica, ma per il momento mi ritrovo in Generazione: mi accontento.