Roma ha smesso di essere una città aperta

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Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo.

Georges Perec, 1989

Quando parliamo di spazi è facile ridurre le nostre considerazioni ad un miscuglio di insoddisfazioni accumulate in giro. Più difficile, invece, è ricostruire scientificamente perché l’invivibilità degli spazi è un disagio del mondo moderno che sembra costare più fatica di altri.

La risposta, che non è banale per storia e umanità che si porta appresso, è nella concezione antropologica che abbiamo dei luoghi. Marc Augé, antropologo francese morto a luglio scorso, ha dedicato quasi tutti i suoi sforzi accademici a decifrare questo legame così profondo e viscerale, trovando delle matrici valide per orientarsi. 

Gli abitanti di un luogo, di ogni luogo – dice – si identificano con le sue forme. Ci sono due caratteristiche perché possa realizzarsi un miscuglio identitario tra comunità e ambienti. La prima è la razionalità: i luoghi sono la rappresentazione delle relazioni esistenti tra gli individui che ci abitano. Quindi, libera dell’anonimato l’insieme di giudizi che esprimiamo rispetto alle nostre città, rivelandoci che non esiste innocenza alcuna in questo senso: lo spazio che consideriamo casa o che più frequentiamo, è un nostro riflesso. È l’immagine precisa delle scelte che abbiamo fatto e del modo in cui intendiamo preservare quel che è collettivo. Anzi, più in profondità, è una sintesi tangibile di come intendiamo le comunità, del ruolo che giocano nella nostra vita, dello spazio – appunto – che concediamo ad una socializzazione politicamente intesa. Poi c’è la storicità degli spazi: ogni luogo, dice Augé, conserva e rappresenta la memoria degli eventi. 

Se quindi possiamo considerare le città come portatrici di significati che vanno dalle nostre scelte alla storia che le ha preservate fino a qui, non possiamo non sostare per qualche secondo nella convinzione che, come conseguente anello di questa catena, i posti che abitiamo dovrebbero essere adatti alle persone, dovrebbero piacere e dovrebbero essere in grado di agevolare una vita felice. Quel che richiede ragionare in questi termini è ritornare ad una concezione primordiale dell’urbanistica, che ci faccia dimenticare – almeno in parte – i disagi che una vita metropolitana e contemporanea ci ha costretto ad affrontare e sopportare, alienandoci sempre di più dal reale potenziale che hanno i luoghi che abbiamo costruito. 

Le città, seguendo lo sviluppo graduale dell’umanità, hanno distinto i propri spazi in due tipologie. Quelli pubblici e quelli privati, differenziando così anche a quali incontri e sollecitazioni ci si espone in base a dove ci si trova. Nei luoghi pubblici, largamente intesi, è possibile incontrare l’altro in modo casuale o organizzato, con l’invariabile caratteristica di trovarsi in posti che non appartengono a nessuno, ma appartengono a tutti. Siamo esposti alle persone che compongono la collettività, ai loro modi e tempi e agli stimoli che dipendono dal trovarsi in mezzo alle persone.

La presenza della gente, il prodursi di eventi, di attività, di stimoli, di sollecitazioni costituiscono in assoluto il più alto indice di qualità degli spazi pubblici.

Jan Gehl, 1991

Nei luoghi personali, invece, come le abitazioni, non esiste il concetto di collettività e non siamo costretti a confrontarci con l’altro, non siamo forzatamente portati a ragionare in termini di convivenza, non ci esercitiamo alla prossimità.

Nelle città grandi, come nel caso di Roma, la distinzione tra dimensione privata e dimensione pubblica non è più sufficiente per poter creare una mappa onesta del tessuto urbano e della sua organizzazione. Anzi, risulta oggi quanto più riduttivo pensare che ogni luogo abbia lo stesso valore indipendentemente dalla sua localizzazione, concetto politico che ha spesso portato ad investire nelle porzioni sbagliate di città, uniformando le sue necessità e quelle dei cittadini, che invece vivono disagi fortemente differenziati e alterni in base a dove sono cresciuti e dove abitano. 

La dicotomia più importante per leggere il reale stato delle cose è quella periferia-centro. Per quanto stressata, resta indicativa per comprendere dove sono le persone, cosa fanno, quali necessità hanno e quali bisogni sono invece soddisfatti. E per mappare, infine e con grande urgenza, dove sia necessario ridurre il grado di benessere per poterne portare un po’ altrove, nei luoghi in cui persistono circostanze di asimmetria e ingiustizia. 

Dove le persone hanno la possibilità di prestare attenzione al proprio contorno è – generalmente – luogo di privilegio. Dove invece la situazione resta invariata, se non per qualche opera di edilizia popolare, è dove ci sono fasce di popolazione che faticano ad essere notate, che non hanno la possibilità di dedicarsi al lento lavoro di osservazione del reale e non hanno le risorse per operare un cambiamento. Qui è dove sono i margini, i nodi a cui bisognerebbe prestare attenzione e dove, di solito, l’urbanistica ha più senso di esistere e di mostrarsi nelle proprie filosofiche aspirazioni. 

Il lessico urbano – che potrebbe dividere in fasce la città – ci costringe però a riconoscere delle tendenze comuni a tutta Roma. La città ha gradualmente rinunciato ad organizzarsi secondo le necessità delle persone. E le necessità delle persone, per quanto – come appurato – siano variabili e differenziate, potrebbero essere riassunte in un modello sociologico e urbanistico vincente, che conosciamo bene e che sappiamo essere funzionante: quello dei presidi civici e culturali. 

Il presupposto alla base di una realizzazione di questo tipo è l’esistenza di patti di collaborazione per occuparsi – anche ma non solo – dei beni comuni e in disuso, iniziando ad abitare i posti che sono rimasti vacanti e che potrebbero rispondere al vuoto che si sta generando e che oggi non è più possibile distinguere per localizzazione: è un fenomeno che riguarda tutti, ma che in alcuni posti allarga ferite già esistenti.

L’azione frammentaria di questi decenni e la mala gestione degli immobili da assegnare tramite i meccanismi arrugginiti dell’edilizia popolare, hanno reso ancora più complesso pensare al problema dei vuoti culturali: immaginare una città nuova e diversa – dando casa alle iniziative dal basso – è complesso da fare a Roma, dove non si riescono nemmeno a gestire le graduatorie delle case popolari e dove, per questa ragione, le persone devono ricorrere a terzi che possano procurargli un appartamento. 

L’esigenza di calibrare lo sguardo che abbiamo sulla città per uscire da questo orizzonte problematico nel quale ci siamo impantanati, potendo proteggere quel che ci rimane e i posti che si sono potuti, dal basso, ri-generare e che sono continuamente sotto minaccia, è una priorità. 

In questo senso, la nascita di una nuova cultura urbanistica etica, attenta alle discrepanze di genere e alle circostanze di vita delle persone – senza appiattire le loro esigenze e senza sottovalutare il valore sociale della loro posizione nella città – potrebbe aiutarci a riformulare i nostri sguardi, individuando con onestà le falle di questo sistema, riconoscendo ciascuno il proprio privilegio e mettendolo a servizio degli altri. Il cortocircuito da generare deve giungere a smascherare i modelli dell’edilizia speculativa che hanno come unico interesse quello di appropriarsi degli spazi per profittare, anziché rispondere ad un’esigenza reale e con una progettualità sincera.

Nulla procederà come è auspicabile se le persone non hanno più spazio per incontrarsi ed essere comunità: che poi sarebbe la formula secolare con cui la democrazia è nata, difficile pensare che potremmo farne a meno.

Autore

Benedetta Di Placido

Benedetta Di Placido

Vicedirettrice e responsabile editoriale

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