Ripensiamo la salute mentale

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Ripensare la salute mentale significa, prima di tutto, ammettere che l’espressione salute mentale abbia diverse connotazioni. In generale, secondo quanto sancito dall’OMS, essa si riferisce a uno stato di benessere emotivo, psicologico e sociale, ma nella pratica tale definizione si scontra con i limiti della stigmatizzazione che ha subito nel corso della storia occidentale. In particolare, è immediata e alquanto comune l’associazione tra salute mentale e ambito clinico-patologico, nonostante l’emergere di una nuova coscienza generazionale spinga verso un atteggiamento di normalizzazione nei confronti della sofferenza psichica. La stessa idea di salute mentale nasce per tutelare un diritto universale, quindi per combattere lo stereotipo del folle e per sottrarlo dalla segregazione totalizzante e disumana a cui lo ha costretto la società. La metodologia repressiva dietro la medicalizzazione del dissenso sociale o politico è stata rimpiazzata dall’attenzione e la cura verso il paziente, sebbene l’obiettivo del sistema resti lo stesso: adattare, rieducare secondo i “giusti” valori, separare il “normale” dal patologico.

L’ordine medico italiano definisce molto chiaramente cosa è patologico, mentre incontra difficoltà nell’approccio normalizzante: tali difficoltà lasciano spazio a un vuoto teorico che non ci consente di rilevare e, pertanto, di conoscere la sofferenza psichica nella sua totalità. Ne consegue che le strategie e gli interventi istituzionali volti al miglioramento della salute mentale degli individui saranno costruiti su basi fragili e lacunose, che non riflettono la pluriformità del fenomeno.

Una ricerca online

Possiamo osservare come tale nodo teorico incida concretamente sul modo in cui vediamo, percepiamo e parliamo di salute mentale. Per farlo, analizzeremo brevemente i primi risultati di ricerca sul web ottenuti cercando: «origine espressione salute mentale».

La prima pagina è la sezione italiana di Wikipedia sulla Storia della psichiatria. L’ultimo paragrafo è dedicato alla psichiatria del Novecento e termina nel 1978 con la pubblicazione della Legge Basaglia, il provvedimento che ha definitivamente chiuso i manicomi in Italia.

La seconda corrisponde alla traduzione di una ricerca prodotta nel 2014 dall’OMS in collaborazione con il Gulbenkian Global Mental Health Platform. L’indagine si intitola I determinanti sociali della salute mentale e propone un approccio alla materia decisamente più critico e meno stigmatizzante rispetto agli studi novecenteschi, dal momento che trova fondamenta nei concetti di equità e universalismo proporzionale. Il lavoro svolto dal team di ricerca della UCL – Institute of Health Equity fornisce considerazioni essenziali per ripensare la salute psicologica in termini di accessibilità e miglioramento, sviluppando una riflessione sistemica sulle disuguaglianze e le politiche di empowerment individuale-collettivo. Ciononostante, esso non mostra troppo interesse nei confronti del problema gnoseologico, cioè si limita a proporre nuove soluzioni (di matrice prevalentemente sociale) senza innovare l’impianto teorico di riferimento. In tal modo, sia le categorie concettuali in cui classifichiamo i diversi stati psichici che la terminologia usata per esprimerli restano invariate.

Pregi della ricerca

a. L’approccio dell’universalismo proporzionale: significa che l’accesso alla salute deve essere garantito a tuttə ma tenendo conto delle iniquità del sistema. Inoltre, gli interventi devono essere attuati per ogni fascia di età, in modo da coprire l’intero ciclo di vita della persona, seguendo il principio di intergenerazionalità.

b. L’OMS specifica che «l’assenza di un disturbo mentale non significa necessariamente presenza di una buona salute mentale. Da un altro punto di vista, persone con un disturbo mentale possono raggiungere buoni livelli di benessere […].». La flessibilità dell’interpretazione circa cosa è la salute mentale e l’ammissione di universalità del disagio psichico sono passi importanti verso la normalizzazione del tema in generale. Questo cambio di paradigma dovrebbe invitare le governance a mettere in discussione i propri sistemi di welfare, nell’ottica di migliorare il benessere dellə cittadinə.

c. L’integrazione di contributi sociologici (come il capability approach di Amartya Sen).

Rischi legati all’approccio istituzionale

a. Il mancato sviluppo dei nuovi contributi in una ridefinizione dei concetti relativi alla salute mentale. In particolare, l’uso di terminologie cliniche (es. l’espressione «disturbi mentali» ricorre 106 volte nel testo italiano) per descrivere gli stati di salute psicologica limita le possibilità gnoseologiche della ricerca, perché la confina tra le mura numeriche della statistica medico-psichiatrica. Sebbene una classificazione clinica sia necessaria (attualmente quella più diffusa è stabilita nel DSM-5, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), essa non è sufficiente per cogliere l’intero spettro degli stati psichici.

b. Una rappresentazione poco fedele della realtà potrebbe suggerire interpretazioni e reazioni inadeguate. A livello teorico, infatti, la ricerca insiste sulla natura sociale delle cause del disagio psichico e propone l’attuazione di politiche di welfare universali e proporzionali per diminuire gli effetti cronici del malessere. Nella pratica, tuttavia, la medicalizzazione del disagio psichico e sociale è una prassi sempre più comune. Ricoveri e prescrizioni aumentano invisibilmente, benché la segregazione e l’alienazione farmaceutica costituiscano fonte di malessere psicologico.

La terza fonte è il sito web del Ministero della Salute italiano, nello specifico l’interfaccia sulla salute mentale. Come si può notare, il focus della pagina sono i disturbi dell’alimentazione e l’autismo.

La scarsità di informazioni riflette l’insufficienza di investimenti e interventi strutturali nell’ambito da parte dello Stato italiano. Persino nella sezione FAQ mancano del tutto riferimenti alle cause sociali della sofferenza psicologica e alle differenti modalità con cui essa si manifesta, nonostante una delle risposte affermi che «l’essere disoccupati produce stress, caduta dell’autostima, isolamento sociale e affettivo, problemi nella gestione delle relazioni interpersonali» (v. foto). Andando a fondo nell’analisi, scopriamo come i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione (DNA) siano non solo facilmente medicalizzabili poiché hanno conseguenze dirette sul fisico di chi ne soffre, ma anche riconoscibili senza una particolare ed attenta osservazione. Emerge, pertanto, che la concezione diffusa di salute mentale sia ancora troppo ancorata a un ideale obsoleto di malessere: quello visibile, sintomatico e misurabile attraverso specifiche diagnosi; in pratica, curiamo solo ciò che vediamo, cosicché molte forme di sofferenza restano sommerse e prive di prevenzione.

Prossimi passi?

Per imboccare una nuova strada, è necessario evocare nuove definizioni dal basso, nonché modi più sostenibili di organizzare la vita pubblica e studi di campo in cui inquadrarli. Investire unicamente sulla quantità di psicoterapia che le persone possono permettersi significa porre la figura dello psicologo come centrale rispetto al loro benessere, quindi attribuirgli la capacità di determinare la salute mentale degli individui in quanto detentore delle risorse di cura. Se da un lato lo psicologo è necessario, dall’altro bisognerebbe lavorare per decentrare tali risorse e renderle popolari, alla portata di tuttə. L’elitismo degli strumenti che favoriscono la salute mentale è in contrasto con la diffusione universale di certi malesseri. Come è stato evidenziato da vari studi, d’altra parte, limitare il raggio d’azione delle politiche sociali alle fasce socio-economicamente più deboli non è funzionale alla diminuzione di pendenza del gradiente sociale di salute.

In definitiva, le recenti soluzioni legiferate dal Parlamento italiano si dimostrano ancora una volta carenti poiché non tengono conto né del principio di universalismo proporzionale, né della catena di effetti che scaturiscono da una cattiva salute mentale. Esse, al contrario, consolidano l’individualizzazione di rischi sistemici come la deprivazione materiale, l’alienazione dallo studio e dal lavoro, la frustrazione e l’insoddisfazione derivanti dalla precarietà; in tal modo, lo Stato esternalizza i problemi sociali e si sottrae alle proprie responsabilità.

Autore

Prima di studiare la società e le sue malattie ho frequentato una scuola di cinema e narrativa. Da qualche anno provo a scrivere un libro, ma per ora ne sono venuti fuori solo racconti, articoli e un paio di saggi. Di questo do la colpa alla mia irrequietezza.

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