C’è un gruppo di rappers di strada che cantano la Palestina e si presentano come “resistenza”. I loro testi sono molto forti, politicamente schierati e sembrano anelare alla libertà. È quello che fa Korsan, che assieme a Kok Da Boss, Zero, Otsha, Darwin, Ganainy, Bvdr Samy, Willy, ALex e Mado, rappa davanti a una bandiera palestinese, in una strada, sulle rovine di un mondo in declino.
Si nomina Gaza, il sangue, parlando anche attraverso metafore, si definiscono Palestina nell’anima e nel corpo. Alzano la voce. Korsan si definisce figlio della sua terra. Ma rappa che non bastano lacrime o bandiere a risolvere la situazione, né l’ipocrisia della promessa di un aldilà. Per Kok Da Boss non basteranno i bombardamenti a scalfire la testimonianza, e il fumo delle bombe non potrà accecarlo. Si definiscono figli dei bombardamenti, cresciuti in guerra. Ma non sarà sufficiente questo a farli morire. Zero attacca con un cantato più drammatico, e col riferimento al giglio, associato alla purezza, alla nobiltà e alla grazia, e ampiamente usato in vari contesti culturali e artistici arabi.
Otsha è egiziano e il suo pezzo è molto forte e ritmato: «Sono un palestinese, figlio di puttana. […] siamo la Palestina nell’anima, nel corpo, negli occhi e il sole spegne il fuoco». Darwin si sofferma sul combatteremo anche con le pietre finché moriremo, e non mancano i riferimenti a Gaza. La loro voce è ciò che gli permetterà di aprire le frontiere; tuttavia, la consapevolezza va anche al sacrificio della propria carne. Cercano liberazione e libertà.
Ganainy nel suo pezzo fa qualcosa di diverso, parla in inglese, naturalmente per farsi comprendere, e dice che il suo è un messaggio per tutti gli arabi nel mondo, perché sappiano. Fa riferimenti a molti popoli diversi, ricreando una sorta di “storia dell’uomo”. Poi suggerisce di googlare la parola Yerida, con riferimenti a Aboab Mesiri ed Edward Said – sì quello dell’Orientalismo, ovvero l’esercizio del dominio culturale occidentale attraverso la creazione di stereotipi e di una narrazione per rappresentare l’Oriente come un luogo esotico, misterioso, inferiore rispetto all’Occidente – , peraltro entrambi ebrei. Bvdr Samy suggerisce quanto sia necessario stare da una parte, sembra fare eco a quell’”odio gli indifferenti, chi non parteggia” di Gramsci.
Willy è un bambino, ma rappa e già afferma che sarà un martire per il suo popoli. Canta per gli altri bambini come lui che stanno morendo. Rimane davanti al mondo. Anche lui è di origini egiziane, e con le parole va velocissimo. Il suo rap è molto violento e crudo, come il reale troppo reale in cui è cresciuto. ALex, invece, si sofferma sull’ipocrisia. Mado, invece, insiste sui sogni spezzati delle giovani vite che rimangono smarrite nell’aggressività. Il comun denominatore di questi rappers sta nel fatto che considerano le loro parole una vera e propria arma, cantano la Palestina e la violenza delle loro vite, sono giovanissimi, probabilmente dislocati/originari dell’Egitto nel caso di questo gruppo appena nominato.
Saint Levant è nato a Gerusalemme da una madre franco-algerina e da un padre serbo-palestinese durante la Seconda Intifada. Ha vissuto nella Striscia di Gaza fino al 2007, quando dopo la Battaglia di Gaza è stato costretto a trasferirsi in Giordania. Adesso vive in America e rappa in inglese, francese e arabo, consegnando a ogni lingua una specifica missione. Infatti, la prima era la lingua della sua istruzione, il francese dell’intimità domestica e l’arabo quella con cui comunicava tra i campi di rifugiati palestinesi. E infatti è in arabo la parte di Between the lines a cui dedica la riflessione politica. In questa parte si parla di sionisti e del fatto che sgomberino le loro case chiamando il processo “pace”. In Maghreb, è in francese la parte in cui passa in rassegna gli anni salienti della sua biografia, affermando che nel 2007, “abbiamo lasciato il litorale”, anno in cui, come affermato, lascia i territori palestinesi a causa della Battaglia di Gaza. In From Gaza with love, che dà anche il nome all’album, rivive un conflitto interiore in cui afferma quanto si sentirebbe un turista anche se tornasse indietro.
Shabjdeed viene da Kufr Agab, una città turbolenta in Palestina. Grazie alle sue opinioni provocatorie, Shabjdeed è diventato una figura di spicco nella scena rap palestinese. Ha catturato l’attenzione di Al Nather, un produttore locale, con cui ha collaborato per sviluppare un proprio stile dark hip-hop e trap, unendo il personale stile di consegna nichilista di Shabjdeed agli strumentali ritmici e colorati di Al Nather. Hanno costruito una solida fan-base, accumulando oltre 1,5 milioni di stream totali su Soundcloud in due anni, basandosi esclusivamente sul passaparola. Ha collaborato con Ma3azef ed è apparso nel documentario “Palestine Underground” di Boiler Room.
Dichiara di inspirarsi al collettivo rap di Ramallah Saleb Wahed, di cui ha fatto parte anche Al Nather, e nelle sue canzoni mette in discussione la violenza dell’IDF. Le sue canzoni sono completamente in arabo e in Amrikkka rappa del mondo ingannevole in cui regnano separazioni e sofferenze. Decanta il suo coraggio di fronte al bugiardo. Le sue lacrime scorrono. In Tal Abib invece dichiarerà di essere confuso, che non sa cosa fare.
Il rap per spiegare il “senso del luogo” in Palestina
Negli esempi di rap visti finora a me sembra che emerga un concetto, quello del “senso del luogo”, il quale a sua volta incorpora il significato, l’intenzione, il valore percepito e l’importanza attribuita da individui e gruppi a luoghi specifici. Proprio come accade oggi i Palestina. I luoghi, a loro volta, strutturano lo spazio sociale, influenzando le relazioni sociali, le dinamiche di potere, le pratiche, l’utilizzo delle risorse e la diffusione delle conoscenze come suggerisce Liaschenko. Lo sviluppo di un senso del luogo avviene attraverso esperienze vissute, che comprendono il trasferimento di valore morale e giudizi estetici a un luogo specifico. Man mano che il senso del luogo evolve, esso stabilisce un sistema di riferimento, un significato simbolico condiviso, ma anche un meccanismo di controllo sociale.
In uno dei saggi, sempre attuale, più significativi degli ultimi anni, risalente al 2002, Žižek, riflette su quanto dal punto di vista occidentale, osservare ciò che avviene a Gaza comprenda un intreccio di implicazioni ideologiche che racchiudono una serie di contrasti: individuo contro stato, resistenza non violenta contro violenza, umanità contro macchinario, la resilienza intrinseca di un individuo piccolo contro l’impotenza pratica di un potente apparato, e così via. In sostanza, si rivela quello che viene definito nodo sintomatico, poiché il conflitto sembra invertire i ruoli normali, proprio come un nodo. Israele, ufficialmente rappresentante della modernità liberale occidentale, si legittima attraverso la sua identità etnico-religiosa, mentre i palestinesi, spesso etichettati come “fondamentalisti” premoderati, affermano le loro richieste in termini di cittadinanza secolare mostrando la sua natura eccezionale all’interno del contesto più ampio della crisi del Medio Oriente.
Sono diversi i nodi tematici su cui si potrebbe riflettere a partire dalle questioni sollevate da una forma artistica di denuncia come il rap. Perché proprio l’inglese per veicolare certe notizie? Qual è la vita media di un disastro nei media globali secondo Massumi? (Due settimane). Come funzionano i media arabi? Che conseguenze socio-culturali sta avendo questo conflitto? Qual è la relazione dei transmigranti con il loro luogo di residenza? In che modo i miti patriottici e l’immigrazione della comunità diasporica si legano ai tramonti nord africani di cui parla Saint Levant in un dialogo interiore con una ragazza del Maghreb? Perché dopotutto i campi di battaglia lontani non sono mai stati tanto vicini anche se ce li hanno dipinti solo con melodie arabe sconosciute di cui non possiamo (o non vogliamo?) intendere il significato?
Forse sono argomenti di discussione per una prossima volta, alla fine questo era solo un articolo sul rap palestinese.
Ringrazio Ahlam Chariai, Anàs Chariai, Zaid Halawah e Byan Hafez per l’aiuto che mi hanno dato nello scrivere questo articolo, per rimettere insieme i pezzi, soprattutto con l’arabo, i consigli musicali e la loro capacità di creare una contro-narrazione del mondo arabo.
Autore
Sono pugliese ma ho studiato fuori. Sto imparando a prendere le cose fragili con le mani bagnate. Ho scritto due libri di poesie. Amo la letteratura e una volta ho litigato con un prete.