Quando Pelé inventò il calcio

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Ricordo che la prima volta che sentii il nome Pelé avevo sì e no cinque anni. Era un classico pomeriggio soleggiato di una domenica di inizio primavera, ed io e la mia famiglia, col carico di parenti al seguito, decidemmo di andare al parco.  Non passò molto tempo prima che un oggetto sferico, non ben identificato, venisse calciato dallo zio di turno, diventando un missile terra aria diretto proprio nella mia direzione. Quando finalmente atterrò a pochi passi da me, misi finalmente a fuoco un bel pallone bianco pallido. Un’orda di cugini e bambini sconosciuti iniziò ad avvicinarsi a quel meteorite di cuoio, con lo sgomento e la devozione di un gruppo di fedeli alle porte della Mecca. In un amen eravamo tutti nella mischia. Un branco disordinato, primitivo e rumoroso, ma soprattutto felice. Capì in quel momento cosa volesse dire giocare a calcio

Uno degli zii si unì all’allegra zuffa, prese il pallone ed iniziò a passarselo da un piede all’altro. Mio zio non era esattamente un fenomeno, e nemmeno in forma, le sue movenze ricordavano una danza sgraziata, piuttosto goffa. Riuscì però a segnare (anche perché il più grosso dei suoi avversari gli concedeva almeno 50 centimetri in altezza) e l’esultanza fu un misto tra isteria e sacralità: «Peléé! Pelééé! È arrivato Pelé, il numero dieci, la perla nera! Il re vi ha punito!», che fosse un po’ matto lo sapevo, ma rimasi estasiato e divertito dall’entusiasmo con cui inneggiava al cielo quel nome. Mi rimaneva però un insostenibile interrogativo: chi era questo Pelé? 

Presto scoprii, con mia grande sorpresa e delusione, che il nome all’anagrafe di quella misteriosa entità non era Pelé, ma Edson Arantès do Nascimento. Nome ben più complicato da pronunciare e ricordare, mi adeguai quindi al soprannome. In effetti nemmeno lui sapeva bene perché lo chiamassero così: i primi a farlo furono i suoi compagni di scuola, per una pronuncia errata del nome del portiere brasiliano, Bilè

Edson viene alla luce il 23 ottobre del 1940 a Três Corações , piccolo comune di Minas Gerais, importante regione nel sud-est del Brasile. Il fanciullo nasce in una classica famiglia nera della campagna brasiliana: povera, affamata, ma saldamente unita. Il primo amore del padre Joao Ramos do Nascimento, detto Dondinho, come quello di molti brasiliani, era stato il calcio. Dondinho fu anche un più che discreto giocatore, con l’unico limite di due ginocchia fragili e lunatiche che lo portarono via dal campo troppo presto.

Che il piccolo Edson avrebbe giocato calcio, era già fatto certo dal momento in cui emise il primo vagito, perché da dove veniva Dondinho un uomo impara prima a palleggiare e poi a parlare, e su questo c’è poco da discutere. Il ragazzo cresce a Barau, nell’entroterra brasiliano, lontano dal mare e dall’agio. Gioca scalzo con quel che capita, pompelmi, palle di carta straccia, sviluppando di pari passo sia la sensibilità del piede che dell’animo, due qualità che lo renderanno grande. 

Pelé e la sua famiglia

La tragedia del Maracanazo mostra la fragilità del Brasile

A soli 10 anni, il destino e la futura eredità di Pelé si intrecciarono in modo viscerale al trauma più profondo della storia sportiva brasiliana, la tragedia del Maracanazo.

Era l’estate del 1950, anno dei campionati mondiali di calcio. Il mondo usciva dal suo secondo conflitto globale e lo sport sembrava essere l’ultimo dei pensieri, eccetto in Brasile. Il Paese fu scelto per ospitare la prestigiosa competizione, non tanto per merito, quanto perché fu uno dei pochi ad essere uscito illeso dalla guerra. I brasiliani però, non videro altro che l’occasione, da tempo attesa, per conquistare il rispetto dei paesi occidentali, e quale miglior modo se non battendoli al loro stesso gioco?  

La Seleção, guidata dal trio delle meraviglie Jair, Zizinho e Ademir, demolisce letteralmente la nazionale spagnola e quella svedese (6-1 la prima e 7-1 la seconda), arrivando alla partita decisiva contro l’Uruguay.  

È un cocente pomeriggio del 16 luglio e lo stadio più grande del mondo, il Maracanã è gremito, non si respira. Duecentomila gli spettatori presenti, una bolgia scatenata e festosa, in attesa di una partita che sembra già decisa prima di iniziare.  

Infatti, alla vigilia del match, i giornali brasiliani non davano alcuna chance all’Uruguay, celebrando in anticipo, con una certa impertinenza, il trionfo del Brasile. «Il Brasile vincerà» tuonava il Diario di Rio. «Questi sono i campioni del mondo» profetizzò O Mundo. I preparativi dei festeggiamenti, che sarebbero durati per giorni, erano pronti, i carri già allestiti e in attesa di sfilare per le strade. L’ottimismo si era trasformato in isteria, e tutto sembrava ormai apparecchiato per uno schianto che avrebbe fatto male, e non poco.  

Stadio Maracanã, Brasile contro Uruguay. 16 luglio 1950.

La partita incomincia e segue il canovaccio atteso dai brasiliani: la Seleção incalza e la Celeste prova a sopravvivere. All’inizio del secondo tempo il Brasile sblocca la partita, ma senza scomporsi l’Uruguay trova il pareggio al 66esimo minuto. Lo stadio inizia a mormorare, quella sfilata trionfante che si erano pregustati inizia ad assumere contorni oscuri. Al 79esimo minuto l’attaccante uruguaiano Alcides Ghiggia dà il colpo di grazia con un diagonale perfetto che entra in rete. Cala un silenzio spettrale al Maracanà, mentre l’ombra gelida del fallimento avvolge l’intero paese. La partita finisce, il Brasile ha perso.

Soltanto in tre abbiamo zittito il Maracanã con un gesto: Frank Sinatra, Giovanni Paolo II e io. 

Alcides Ghiggia

Stando alla stampa del tempo, ciò che successe dopo non differì troppo da un bollettino di guerra: quasi un centinaio di morti tra suicidi e attacchi cardiaci, tre i giorni di lutto nazionale. Emblematico il commento, fin troppo teatrale, dello scrittore Nelson Rodrigues, che definì l’evento come «la nostra Hiroshima». 

Per comprendere la reazione decisamente drammatica del popolo brasiliano, non possiamo non considerare la loro peculiare storia.

Il Brasile stava vivendo fin dalla sua indipendenza e ancor più dall’abolizione della schiavitù, nel 1888, una profonda crisi identitaria, dovuta alla varietà etnica e culturale che conviveva al suo interno. In cima alla piramide sociale vi erano (e vi sono tutt’ora) le élite bianche, composte dai discendenti dei colonizzatori portoghesi e degli immigrati del Vecchio Continente, che vedevano come unica strada percorribile un Brasile di stampo europeo, liberale, “civilizzato”. Un quadro in cui indigeni e popolazione nera (discendente dagli schiavi africani) non rappresentavano altro che un ostacolo da rimuovere o quanto meno censurare. In un contesto così fragile, la sconfitta contro l’Uruguay non rappresentò solo un fallimento sportivo, ma il fallimento di una nazione e di un popolo dimostratosi ancora una volta incapace di costruirsi un proprio volto

Quel giorno il giovane Edson vide per la prima volta il padre in lacrime. Avvicinandosi a quel corpo afflitto e senza forze fece una promessa: «Un giorno vincerò il mondiale per te». Da quel giuramento ha inizio la storia di Pelé, il Messia del Calcio.  

Un giovanissimo Pelé indossa la maglia del Santos

Sulla carne di Pelé sono cuciti due stemmi:

Il primo è quello bianco e nero del Santos, la squadra paulista che per prima vide il fuoco della grandezza in quel quindicenne lustra scarpe di Barau. A soli 16 anni Pelé era già il miglior giocatore della prima squadra e capocannoniere del campionato brasiliano, un talento naturale come mai se ne erano visti. Usava indistintamente il piede destro e quello sinistro con la medesima classe, era forte di testa, rapido, ma soprattutto, era baciato dall’unico dono che distingue un bravo giocatore da un campione: la premonizione, ovvero quella capacità innata e sovrannaturale di sapere con qualche secondo di anticipo cosa succederà in campo, così da essere sempre almeno due passi avanti rispetto a chiunque altro.

Il secondo stemma è quello verde oro della nazionale brasiliana, attraverso il quale Pelé evase dal semplice ruolo di campione e diventò qualcosa di più grande, una leggenda. Nel luglio del 1957 arrivò la prima convocazione in nazionale e l’anno seguente il diciassettenne fu convocato per giocare i campionati mondiali di Svezia

Pelé in campo ai mondiali di Svezia, 1958

I mondiali del 1958 e lo “sbiancamento” del Brasile

La ferita del Maracanazo era tutto tranne che rimarginata e rischiava di compromettere il primo mondiale di Pelé. Questo perché la colpa di quel fallimento ricadde ancora una volta sulla presunta inadeguatezza e inciviltà di una parte della cultura brasiliana. Così il Brasile e in particolare il calcio finirono ancor di più impantanati nel mito dell’“europeizzazione” come unica soluzione a qualsiasi problema.

Dietro a questa modernizzazione, come già era accaduto in passato, si nascondeva però un ben più subdolo fenomeno di branqueamento, traducibile in italiano con “sbiancamento”, ovvero la graduale censura della cultura indigena e africana, fino alla loro totale rimozione

In virtù di questo sbiancamento, gran parte delle squadre brasiliane selezionavano esclusivamente giocatori bianchi, addirittura il Fluminense spargeva polvere di riso sui suoi giocatori di colore per schiarirne la pelle. Non stupì che alla partita di esordio dei mondiali del 58’, la nazionale brasiliana scese rigorosamente in campo con dieci giocatori bianchi, unica eccezione il fantasista e veterano Didì.

Sull’allenatore Vincente Feola pesava la responsabilità di ricostruire da zero la mentalità e il modo di giocare a calcio del Brasile. L’obiettivo della federazione era quello di cancellare tutti gli stereotipi legati alla brasilianità: scarsa serietà professionale, fragilità mentale e fisica, individualismo esasperato, mancanza di ordine. L’obiettivo non era tanto vincere, quanto mostrare un nuovo modello di Brasile: moderno, occidentale e competitivo. Tutti i giocatori furono passati prima ai raggi x e poi sotto l’occhio vigile di uno psicologo. Per entrare in campo bisognava rispecchiare nel corpo e nella mente quel prototipo di perfezione alla base del mito occidentale. In sostanza, il calcio fu sottomesso alla propaganda. 

Le due scintille fuori dal coro erano il giovane Pelé e lo zoppo Garrincha. Entrambi non superarono il test psicologico e non rispecchiavano esattamente l’estetica idealizzata dalle élite europee, ma Feola, prima che ambasciatore, era uomo di sport e sapeva che lasciarli a casa sarebbe stato un oltraggio agli dèi del calcio.  

I due scaldano la panchina e in campo il Brasile mostra una nuova personalità: ordinata, schematica, prudente. La prima partita contro l’Austria finisce 3-0 in favore dei verde oro, ma Feola non è soddisfatto, la squadra vince ma non convince.

La ginga di Pelé come rivalsa degli oppressi

Contro l’Inghilterra la situazione precipita: gli inglesi fanno valere la stazza e la maggior abitudine a giocare quel tipo di calcio. Invece la squadra brasiliana sembra un ibrido inconsistente, una copia innaturale di qualcosa che non sarà mai. Questo pareggio è forse lo spartiacque più importante nella storia del calcio. Negli spogliatoi i veterani e lo staff non hanno dubbi, i brasiliani non possono essere come gli europei. I brasiliani devono essere brasiliani, in tutta la loro varietà culturale. L’ordine di stampo europeo deve essere messo al servizio dell’estro, del ritmo e della follia afrobrasiliana, questa era la strada

Contro L’Urss si cambia musica, dentro il bambino prodigio Pelé l’uomo della foresta Garrincha e il mediano Zito. I brasiliani sgusciano da tutte le parti, non danno punti di riferimento agli avversari, li sfidano, li saltano e si divertono.

Garrincha è un treno fuori controllo e Pelé danza sulla palla quasi fosse un ballerino di samba. Un calcio primitivo, puro, emozionale, come quello di bambini che giocano in spiaggia. Il gioco del Brasile ricorda un concerto di forrò, un coro perfetto e dinamico di strumenti diversi, di assoli che si mescolano perfettamente in una sinfonia ipnotica.

Il caos che collabora con l’ordine annienta prima l’Unione Sovietica e poi l’Ungheria. Si arriva ai quarti contro il Galles, apparentemente una mera formalità. La partita però non si sblocca, l’ingranaggio del Brasile sembra soffocato dalla stazza degli avversari, ma d’un tratto il colpo di genio: la palla arriva a Pelé, spalle alla porta; il ragazzo sa già che il difensore si sporgerà ingolosito dal pallone, deve solo aspettare, gli prende il tempo e sguscia via con un palleggio. Si coordina e tira. Solo rete. Il fanciullo è diventato uomo.  

Il Brasile arrivò in finale, e in ballo non c’era solo una coppa, ma la responsabilità di difendere un concetto di brasilianità che non fosse più censura ma coesistenza. Il calcio ginga inaugurato da questi ragazzi fu la rivalsa di una cultura soffocata, di un popolo prima schiavizzato, poi ghettizzato e infine dimenticato.

Aggrappato ai piedi di quel fuscello col numero dieci sulla maglia, non c’era più solo il Brasile, ma tutti gli uomini e le donne oppresse, i colonizzati, i deportati, gli abbandonati e discriminati, che attraverso le giocate di Pelé poterono urlare al mondo di esistere. Il calcio di quel Brasile era un atto rivoluzionario, che ripercorreva le gesta degli antichi schiavi, della loro capoeira, della musica e del desiderio di difendere la propria identità. Il Brasile vinse, quello indigeno, quello nero, quello bianco e meticcio. Non c’erano più differenze quando giocava Pelé, c’era un solo Brasile, unito, felice, almeno per una notte.

Le lacrime di Pelé

Di campioni ne sono passati migliaia, di leggende una manciata e poi c’è Pelé

È il primo e unico caso in cui non è lo sport a creare il giocatore ma il giocatore a creare lo sport. Tutto ciò che conosciamo e viviamo del calcio, la sua anima popolare, la capacità di unire i popoli, il suo essere sport di duchi e operai, di uomini e donne, è l’eredità lasciata da questo giocatore. La storia di Pelé, dei suoi gol (oltre mille), dei tre mondiali vinti col Brasile, o di quando nel 1969 la sua sola presenza riuscì ad arrestare la sanguinosa guerra del Biafra, sono la cera con cui è stato plasmato il mito del calcio, e queste due essenze, calcio e Pelé, sono ormai indistinguibili e per sempre inseparabili.  

Questo rende l’uomo immortale, perché ovunque ci sarà anche un solo bambino che calcia un pallone, o uno zio eccentrico che esulta dopo un gol, una parte di Pelé sarà lì.  

Autore

Luigi Briante

Luigi Briante

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Sono un inguaribile logorroico, nemico giurato del dono della sintesi, ma stiamo scendendo a patti per il bene dei lettori e di chi mi incontra nei pub. Drink preferiti: gin tonic e latte e menta, entrambi rigorosamente con ghiaccio. Professionista da cui traggo ispirazione? Geronimo Stilton. Animale guida: Martin Scorsese.

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