Il ponte della NATO: fondi militari e “dual use”, ecco gli interessi all’ombra dello Stretto di Messina

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Ci sono alcuni temi che in politica sembrano tornare ciclicamente solo per far parlare di sé. Nella politica italiana il ponte sullo stretto è l’archetipo di questa cosa. Ogni volta che se ne è parlato, nei decenni, tutto si è risolto in un miraggio, in castelli di carta, di parole, di slogan. Per la prima volta dopo molto tempo però, la cosa sembra essere diversa: il ponte è al centro di un ingarbugliato nodo politico, che non riguarda solo l’Italia, ma il suo posizionamento in Europa e nella NATO. Le evoluzioni recenti testimoniano come la costruzione di questa infrastruttura (o almeno il suo tentativo, dato che ancora non è stato aperto nemmeno un cantiere) possa essere un efficace cartina di tornasole per osservare la politica del governo, in generale per comprendere come dietro un’infrastruttura possa esserci anche l’economia di guerra, o l’opacità di grandi gruppi di potere privato. Lo testimonia il collegamento evidente tra il nuovo impegno al riarmo e il progetto del ponte, nonché la colpevole nonchalance che caratterizza l’impalcatura normativa predisposta per la realizzazione del progetto, troppo insensibile, nonostante i vari richiami, ai rischi di infiltrazione mafiosa

Tutto questo discorso è complesso, stratificato. Per questo dobbiamo provare a fare un pò di chiarezza, riordinando le carte sul tavolo 

Cosa c’entra la NATO e L’Europa con il ponte sullo stretto? 

E’ ormai una notizia consolidata, rilanciata anche da testate estere come Politico, che il governo Italiano abbia iniziato a pensare di far rientrare le spese per la realizzazione del ponte all’interno del famoso “5%” del PIL che, a partire dal Summit Nato svoltosi all’Aja lo scorso 25 Giugno, l’Italia ha promesso di spendere in “sicurezza”, ossia in armi, infrastrutture militari, e aspetti connessi, tra cui anche lo sviluppo di tecnologie “dual-use”. In poche parole, il collegamento creato dal ponte sarebbe giustificato dalla sua funzionalità ad eventuali operazioni militari, oltre che dal suo impiego civile.

Non è certo una novità, se si considera che già con il D.L. 35/2023, che è servito a “riattivare” la società che fa da stazione appaltante di tutta l’opera, (la Stretto di Messina Spa) il governo ammetteva di considerare il ponte come una infrastruttura strategica anche per la difesa, data la “rilevante presenza di basi NATO nel sud Italia” (vd. relazione introduttiva della legge di conversione di quel decreto). Sebbene questa strada non sia ancora certamente confermata, così come lo stesso Ministro della Difesa Guido Crosetto ha esplicitatorecentemente, questa intenzione conferma quanto viene denunciato già da tempo, ossia che l’economia di guerra non significa solo fabbricare armi, ma anche dotare di finalità militare ciò che non lo avrebbe. 

Ma la NATO non è l’unico attore rilevante in questa vicenda, anche se come è ovvio dovrebbe dare il suo consenso per far rientrare davvero il ponte nel conto delle spese militari; L’Unione Europea gioca da tempo un ruolo altrettanto importante, e verrebbe da dire, “connivente” se bene non chiaramente intelligibile. Da un lato, c’è il fatto che il progetto di collegamento tra Sicilia e Calabria è stato inserito dalla commissione europea già da diverso tempo nella Trans-European Transport Network (TEN-T), un piano di investimenti, con apposito fondo “Cef” (Connecting Europe Facility)

(Corridoio Scandinavo-Mediterraneo, che collega Palermo ad Helsinki, parte della TEN-T REGOLAMENTO (UE) 2024/1679)


Il carattere “dual-use” dell’infrastruttura, ovvero il suo possibile utilizzo militare oltre che civile, emerge anche dal richiamo da parte del governo ad un altro piano Europeo, il Military Mobility Pack. Sebbene la sua origine risalga al 2018, tale politica, volta a facilitare la mobilità di truppe e mezzi militari nei paesi europei, è stata recentemente ripresa dalle Istituzioni Europee tanto da promuovere una procedura di consultazione, rivolta a vari portatori di interesse, tra i quali figura espressamente la Nato. Insomma, non è un segreto che L’Unione Europea voglia promuovere politiche filo-nato, e volte alla progressiva militarizzazione dell’economia, sempre utilizzando l’espediente della “sicurezza” come efficace strategia comunicativa e di autolegittimazione. In questo modo però, gli Stati perdono il loro posizionamento strategico, ed affari che dovrebbero essere gestiti “internamente” vengono appaltati a strutture sulle quali non è facilmente esercitabile alcun controllo democratico. 

Rischi per l’ambiente e Normativa antimafia: nessun confronto democratico

Le cose non vanno meglio se si guarda più direttamente a come in effetti il governo stia gestendo la concreta realizzazione del ponte. Dopo i continui rinvii il Ministro delle infrastrutture e dei Trasporti Salvini, che è stato il principale promotore politico del progetto, ancora nessun cantiere è stato aperto. A parte utilizzare questa mastodontica opera come un efficace espediente retorico, la rocambolesca ricerca di un modo per dare il via ai lavori è ciò che ha affannato il leader del carroccio. 

Da un lato, in collegamento con quanto si diceva prima, il governo si è appellato alla Commissione Europea per provare a superare un primo grande ostacolo, quello ambientale. Dopo una prima bocciatura del ministero dell’ambiente che non aveva approvato una VIA (valutazione di impatto ambientale) il governo ha corretto il tiro e realizzato una relazioneIROPI (Motivi Imperativi di Interesse Pubblico Prevalente) che il 9 maggio 2025 è stata inviata alla commissione europea, dove in soldoni si chiede la possibilità di derogare alla normativa ambientale per lo stringente “interesse pubblico” che sarebbe connaturato al ponte (vd. Pagina 24 e seguenti della relazione). La Commissione deve ancora pronunciarsi in merito, ma ha recentemente fatto sapere che, nonostante la permanenza dell’infrastruttura nella TEN-T, la stessa non potrà più beneficiare del già citato fondo “Cef”, perché lo stesso è riservato ad opere che connettono paesi diversi, e non parti diverse di un stesso paese. 

Come se non bastasse, intanto, mentre si attendono le risposte da Bruxelles, il governo approva (sempre con decreto-legge, se fosse necessario specificare, e quindi bypassando nella sostanza il confronto con le opposizioni) diverse norme problematiche, che hanno suscitato la reazione anche dell’autorità nazionale anticorruzione (ANAC), che a maggio ha prodotto un’apposita relazione, rimasta in gran parte inascoltata. E’ infatti con il DL Infrastrutture, (n.73/2025) che il governo ha, tra le tante ed eterogenee previsioni, disciplinato alcuni aspetti relativi al ponte sia direttamente che indirettamenteNel primo caso è stato stabilito che il rifinanziamento dell’intera opera oltre a potersi svolgere “a pezzi”, ovvero per fasi produttive e non considerando la complessità del progetto; questo genera un effetto paradossale, ossia che non esiste ancora un progetto esecutivo di tutta l’opera e quindi il suo costo preciso è difficilmente individuabile e prevedibile, nonostante lo stesso sia stimato in circa 13,5 miliardi di euro, e siano stati già stanziati i relativi fondi pubblici. A cascata, ciò significa che tutto il meccanismo normativo che dovrebbe presiedere allo svolgimento dei lavori potrebbe violare le norme europee, e dare seguito a un grande contenzioso giudiziario. 

L’ANAC si dice infatti preoccupata perché tale meccanismo potrebbe scontrarsi con il divieto europeo di superare il 50% del prezzo iniziale, perché questo lederebbe evidentemente la concorrenza, generando potenziali contenziosi. Non è un caso forse che tutto questo sia stato evidentemente fatto per assicurare al colosso WeBuild Spa la gran parte dei lavori, promuovendo un modello opaco in favore di grandi centri di potere privato invece che a procedure più trasparenti. Indirettamente, invece, il decreto ha creato un regime emergenziale in cui si potranno svolgere gli appalti, derogando alle norme antimafia relative proprio a questo settore. A titolo di esempio di una stratificata, complicata e poco intellegibile normativa, si prenda il nuovo articolo 46-bis, che prevede che per l’affidamento e l’esecuzione dei contratti pubblici di lavori, forniture e servizi del su detto regime “emergenziale” sia sufficiente l’informativa antimafia liberatoria provvisoria. 

Ciò, semplificando, significa che i contratti e subcontratti pubblici stipulati tra la stazione appaltante e tutte le imprese interessate, invece che venire aggravati di ulteriori controlli antimafia (così come esplicitamente richiesto dall’ANAC) sono temporaneamente efficaci, e sottoposti ad eventuale revoca solo dopo che i controlli abbiano dato evidenza di cause interdittive. Un regime derogatorio che non ha nessuna giustificazioni, anche considerando gli ammonimenti che nei mesi scorsi il Quirinale ha fatto al Viminale sullo stesso tema. A conferma che non si tratta di qualche cavillo giuridico, sta la preoccupazione espressa anche dalla vice direttrice della Direzione investigativa antimafia, Lorena di Galante. 

Il CIPESS approva l’opera, i dubbi rimangono 

Da ultimo, mercoledì 6 agosto 2025, è arrivata anche l’approvazione del CIPESS, il comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile. Con tale approvazione, manca solamente la “bollinatura” della Ragioneria dello Stato e della Corte dei conti: un controllo formale necessario per poter davvero aprire i cantieri preliminari. Così si esprime infatti Matteo Salvini in conferenza stampa, ammettendo tra l’altro che questa approvazione riguarda il piano economico e finanziario, e non quello esecutivo, che, come detto anche secondo ANAC, ancora non esiste. Il “Capitano” ha anche candidamente ammesso che si tratterà di una infrastruttura “dual use”, revocando ogni dubbio sulla continuità governativa ad istituzionalizzare l’economia di guerra. Non sono mancati anche i trionfanti annunci di come la realizzazione di quest’opera sia socialmente utile perché in grado di creare più di 36.000 posti di lavoro, come se fosse un mistero che appaltare un lavoro del genere, ad una multinazionale come WeBuild S.P.A non genera ricchezza sul territorio, ma semmai promuove un modello estrattivo ed appropriativo di sviluppo, in cui a guadagnarci veramente sono i circuiti dell’economia finanziaria, non certo di quella reale e in particolare Siciliana. Quindi per “settembre-ottobre”, dovrebbero iniziare finalmente i lavori preliminari del ponte, mentre però già si annunciano ricorsi da tutte le parti: diverse associazioni ambientaliste (tra cui Greenpeace, Legambiente, Lipu e WWF)  hanno presentato un’altra richiesta alla Commissione Europea, dopo quella del 27 marzo, per far aprire una procedura di infrazione nei confronti del nostro paese per violazione della normativa ambientale. Il Comitato Capo Peloro, annuncia che è proprio l’approvazione da parte del CIPESS che consentirà di ricorrere alla giustizia interna ed Europea. Insomma, tra le parole di giubilo pronunciate dai rappresentati di Governo per questo ultimo “via libera” alla costruzione del “ponte a campata unico più grande al mondo”, che sarebbe un esempio della grandezza italiana, sembrano comunque esserci molte incertezze. Non si riesce nemmeno, per adesso, a stabilire se quest’opera sarà effettivamente considerata come militare. In tale ultimo caso, come ricorda l’opposizione, il progetto dovrebbe essere ripensato da zero, per rispettare i vincoli che la stessa NATO  richiede per le opere militari

Insomma, un castello di carte, fatto di veti incrociati e dall’equilibrio ancora incerto. La Commissione Europea sembra avere in mano una serie di elementi chiave, e vedere in che modo si orienterà potrà dirla davvero lunga sul posizionamento che la stessa intende finalmente darsi in tema di difesa e riarmo. Un dato evidente è, come sempre, la scarsa trasparenza delle politiche europee, che fanno diventare odioso il suo coinvolgimento quando si tratta di temi così sensibili, se non ci sono (come non ci sono) efficaci strumenti di controllo da parte degli Stati

Cosa c’è di sicuro invece? Che un’opera del genere, con tutti i forse che la contraddistinguono e le forzature a cui è già stata sottoposta per essere approvataè un’opera che costa alla collettività. Sono soldi pubblici, mai così tanti tutti insieme, che saranno utilizzati per promuovere un’opera ambientalmente dannosa, economicamente estrattiva delle ricchezze del territorio, che beneficerebbe invece di altri investimenti, molto più fattibili e rivolti alla cittadinanza, più che ai comitati di affaristi. 

Sullo sfondo di questo marasma, il tentativo della società civile di reagire: tra crisi idriche ed espropri 

E’ ad esempio il collettivo Spazio No Ponte a segnalare il drastico impatto ambientale che l’avvio dei cantieri comporterebbe. Essi, infatti, attingerebbero acqua da tre pozzi indispensabili perl’approvvigionamento idrico di Messina – una città che combatte da anni contro la carenza d’acqua. La società Stretto di Messina Spa (a cui il governo ha affidato la realizzazione principale dell’opera) prevede un utilizzo di circa 5 milioni di litri d’acqua al giorno, consumo che secondo le dichiarazioni dei delegati Gioacchino Lucangeli e  Daniele Scammacca non andrà ad inficiare il servizio idrico della città. Tali dichiarazioni non hanno convinto del tutto il comitato Vogliamo l’acqua dal rubinetto che da tempo monitora la situazione nella città siciliana e che di contro prevede impatti pesantissimi. Lo stesso Sergio Soraci, membro del collettivo Spazio No Ponte, sostiene che l’uso effettivo di acqua sarebbe nettamente maggiore: oltre ai litri calcolati per la costruzione vera e propria, se ne impiegheranno altri in relazione ai trasporti e al funzionamento di macchinari e attrezzature per dirne alcuni, arrivando a consumarne quasi il doppio.

Il tutto sembra stridere con le reali condizioni di vita dei messinesi che da anni vivono con l’acqua razionata arrivando, in alcuni quartieri, ad essere disponibile solo 4-5 ore al giorno invece alle aree interne dell’isola – ma che soffre comunque per via delle pessime condizioni delle reti idriche: infatti il 53% di tutta l’acqua a disposizione della città si perde durante le fasi di trasporti e distribuzione. Ecco che, come ribadisce Soraci, agli occhi dei messinesi spendere più di 13 miliardi di euro per un’infrastruttura come il ponte sembra un investimento assolutamente non necessario considerate le vere necessità della città.

Tuttavia, continua Soraci, il problema degli approvvigionamenti idrici certamente è tra i più urgenti, ma non è l’unico poiché la costruzione del ponte comporterebbe una radicale trasformazione del volto di Messina (già pesantemente fiaccato dal terremoto del 1908). La zona interessata è quella tra i Pantani, più nello specifico nel borghetto di Ganzirri noto per i suoi vicoli caratteristici, l’aspetto da villaggio marinaro e il paesaggio sui laghi. Si tratta di un posto dal valore identitario per i cittadini che verrebbe completamente modificato dalla costruzione del ponte. Modifiche, queste, non circoscritte solo alla zona dove sorgeranno le torri principali ma estese anche nella zona meridionale della città a causa del ricollocamento di infrastrutture indispensabili, come accadrebbe ad esempio alla stazione centrale. A questo si aggiunge il tema degli espropri: i residenti di quei quartieri dovranno, difatti, abbandonare le proprie case per far largo agli impianti del ponte – si tratta di circa 291 unità immobiliari a Messina e 152 sul versante calabrese. Il punto è che ad essere demolite non saranno solo le abitazioni presenti nelle zone interessate dai cantieri dato che, per via del ricollocamento delle infrastrutture di cui si parlava prima, si faranno interventi in diversi punti della città. Oltretutto non si sa bene in che modo verranno risarcite le famiglie espropriate né dove andranno ad abitare, considerando l’esponenziale crescita dei prezzi nel mercato immobiliare.

Nella speranza di riuscire a difendere il proprio territorio gli attivisti di Spazio No Ponte  –  attivo da circa 25 anni sul territorio – organizzano da mesi manifestazioni e proteste. L’ultima è fissata per sabato 9 agosto, si scenderà in piazza Cairoli a partire dalle 18:00 al grido di “ vogliamo l’acqua e non la guerra!”. 

Autori

Classe 2001, ma mi sento molto più vecchio. Studente di Giurisprudenza a Roma, aspirante giornalista (infatti mi piace molto scrivere), ma anche suonare la chitarra. E questo è quanto.

Classe ‘98. Sono meridionalista, femminista e antifascista. Mi piace disegnare, scrivere e girare per musei. Ah, e ho una fissa per i film con protagonisti in crisi da quarto di secolo.

Classe ‘99, italiano di nascita ma palestinese nel sangue. Scrivo per ANTIMAFIADuemila. Sogno un mondo diverso con Our Voice

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