L’importanza di essere “The Greatest”: Muhammad Ali

Come si fa a non credere nel destino? Come si possono ignorare tutti i segnali che l’universo ti sta mandando per farti capire che sei destinato alla grandezza? Semplicemente non puoi e Cassius Clay ne era ben consapevole.

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Cassius Clay nasce il 17 gennaio 1942 a Louisville, in Kentucky. Il suo nome fu usato dalla sua famiglia per molte generazioni prima di lui, rubandolo a un padrone di una piantagione famoso per le sue idee abolizioniste.

Il suo destino, questo incredibile atleta lo scopre fin da piccolo proprio nella sua città, Louisville. Dal padre in regalo aveva ricevuto un’incredibile bicicletta rossa fiammeggiante e lui non vedeva l’ora di poterla mostrare a tutti girando per la città. Entrato in un negozio la posò fuori ma al suo ritorno la bici era scomparsa. Si diresse subito alla stazione di polizia denunciando il furto, un’azione molto insolita per una persona neri nella Louisville degli anni ’50. Il Kentucky non era un Paese fortemente segregazionista, ma lo erano gli anni ’50. Ma il destino volle che alla stazione di polizia ci fosse il poliziotto Joe E. Martin che, oltre ad ascoltare le sue lamentele contro chi gli avesse rubato la bicicletta, gli consigliò anche di imparare a boxare. E, in effetti, non fu un cattivo consiglio.

Il suo esordio da boxer si può far risalire al 1960, alle Olimpiadi a Roma. A 18 anni Cassius Clay conquistò l’oro olimpico nella categoria dei pesi mediomassimi, dimostrando chi sarebbe diventato. Già a quell’età emergeva la capacità che aveva di attrarre tutti, di coinvolgere. Fece colpo anche sulla ragazza più ambita, la corritrice Wilma Rudolph, che era stata avvicinata anche dal nostro Livio Berruti per cui quell’olimpiade fu alquanto soddisfacente. Tornato in patria era certamente l’uomo del momento, sfilò per le vie di Louisville proprio con Wilma e a 18 anni mostrava una sicurezza che, o ce l’hai o non ce l’hai così giovane, e lui ne aveva da vendere. L’America però, purtroppo, non sa riconoscere i suoi campioni, le sue eccellenze e ancora una volta, dopo ciò che riservarono a quello che forse è stato il più grande corridore della storia, Jesse Owens, la storia si ripeté. Un cameriere si rifiutò di servirlo perché nero e lui gettò la medaglia olimpica nel fiume dell’Ohio come segno di protesta verso un intero Paese che non lo riconosceva. Non si può raccontare la vita di questo atleta se non si pone l’attenzione sulla vita di quest’uomo. I due aspetti sono incredibilmente legati. Non si limitò solo a boxare, lui divenne il portavoce di un popolo intero, di un modo di pensare.

Cassius Clay divenne campione del mondo nel 1964 e il giorno dopo concluse un percorso di conversione che portava avanti da molto tempo, culminato con il cambio del nome in Muhammad Alì. Non voleva più avere a che fare con un nome da bianco, con un nome che veniva collegato ad un mondo che non esisteva più e che voleva dimenticare. Questo suscitò notevole scandalo nell’opinione pubblica, data anche la sua vicinanza e amicizia con il politico e attivista afroamericano Malcolm X. Il movimento islamico puntò su Muhammad Alì anche per la sua incredibile popolarità. Sembrava un profeta che passeggiava in mezzo alle persone, lo ascoltavano, gli facevano domande, i giornalisti sentivano e riportavano tutto. Questo atteggiamento ben presto gli causò non pochi problemi. Nel 1967 la guerra del Vietnam causava una quantità di morti difficile da contare e l’America necessitava di sempre più soldati. Muhammad Alì però non ragionava come tutti gli altri, aveva un altro modo di affrontare ogni sfida che incontrava. All’ennesima domanda impertinente dei giornalisti sull’argomento lui rispose: «Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro», ribadendo la volontà di non partire per il Vietnam. La reazione del governo fu forte, 5 anni di reclusione e, più grave almeno per lui, la revoca della licenza da parte delle commissioni atletiche pugilistiche.

Muhammad Alì non era un semplice sportivo, era diventato un’icona, un modello, quasi un modo d’essere e in questa occasione lui stesso desiderava dire la sua a modo suo, come spesso gli accadeva, anche superando quella linea immaginaria. Questa volta molti non furono dalla sua parte, non riuscendo a capire una sua possibile scelta coerente alla sua recente conversione e quindi alla non violenza; suscitò molte polemiche soprattutto in chi aveva visto partire e morire il proprio figlio o il proprio marito e ora lo additavano come privilegiato, lui che in occasione della sentenza pianse al telefono con la madre. Ma ancora in tanti lo amavano, e non ci fu mai modo di pensare il contrario. E tutto l’amore che per più di 5 anni tutto il mondo aveva aspettato di dimostrargli, sfociò finalmente durante un incontro: nel 1974 si tenne l’incontro che è passato alla storia come “Rumble in the Jungle”, tra Alì e George Foreman a Kinshasa nello Zaire, valevole per il titolo mondiale. Erano tutti con Alì, perché lui rappresentava tutti loro, tutte le persone nere che in lui intravedevano una speranza per il futuro. Lo accompagnarono dall’aeroporto fino a prima di salire sul ring con “Alì boma ye”, “Alì uccidilo”. Il pugile da Louisville riuscì nell’impresa, riprese il titolo che era suo di diritto di nascita.

Fu l’ultimo incontro di spessore della sua carriera, dopo poco iniziò un lento declino, costellato da sconfitte che lo portò al ritiro nel 1981.

Fu più di uno sportivo, fu la voce di ogni persona nera e non. Superò quelli che erano e sono tuttora i limiti di uno sportivo, rendendo la sua vita un continuo ripetersi di momenti straordinari. Lui stesso si caricò di questo impegno, cioè quello di essere uno, di essere unico e di rappresentare tutti, perché il suo destino era questo.

La sindrome di Parkinson, che cresceva in lui già da molto tempo, sarà mostrata al mondo intero in occasione delle Olimpiadi di Atlanta, dove Muhammad Alì, come ultimo tedoforo, commosse il mondo tenendo ben alta la fiaccola olimpica che tremava visibilmente per la malattia. Un’ultima dimostrazione di “The Greatest”.

Autore

Romano e romanista. Tutti mi dicono che assomiglio a Mauro Icardi, ma secondo me sono più bello. Nei viaggi con gli amici sono quello che guida, ma per passione. Laureato in Lettere, sognavo di scrivere per qualche testata giornalistica, ma per il momento mi ritrovo in Generazione: mi accontento.

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