La stessa rabbia, la stessa Primavera

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Io sono il primo a cui tocca l’onore di eseguire la nostra decisione. Sono il primo che ha avuto l’onore di scrivere la lettera, e sono anche la prima torcia. La richiesta principale è l’abolizione della censura: se questa richiesta non sarà rispettata entro cinque giorni, vale a dire entro il 21 gennaio 1969, e se la gente non dimostrerà appoggio alla nostra azione, altre torce umane mi seguiranno.

Jan Palach, la «Torcia umana n°1»

Era la mattina del 16 gennaio, quando Jan Palach, un giovane studente di filosofia, si diede fuoco in piazza San Venceslao, a Praga, per protestare contro la censura imposta dai sovietici, che avevano precedentemente occupato la Cecoslovacchia. Jan Palach divenne così un martire, un simbolo della lotta all’oppressione, rappresentata dall’Unione Sovietica il cui mito, da questo episodio in poi, cominciò un rapido declino nelle fantasie degli studenti in rivolta in tutto il mondo.

Questo episodio però si inscrive in una cornice più ampia: la morte di Palach avviene immediatamente dopo la “Primavera di Praga”, ovvero quel momento in cui i dirigenti del Partito comunista, guidati da Alexander Dubček, avviarono un processo interno di riforme per cercare di costituire un socialismo dal volto umano.

Era l’avvio di un percorso di stampo fortemente antiautoritario, che ricorda da vicino i moti di Budapest del ’56. Sebbene la matrice delle due insurrezioni sia piuttosto differente, l’esito finale fu il medesimo: il potere centrale provvide ad un brutale stroncamento della protesta.

«Primavera non bussa, lei entra sicura»

Quando le forze che sono ostili al socialismo cercano di portare lo sviluppo di alcuni paesi socialisti verso il capitalismo, questo non diventa solo un problema del paese coinvolto, ma un problema comune e una preoccupazione per tutti i paesi socialisti.

Leoníd Il’íč Bréžnev

L’inizio della Primavera di Praga si può far risalire ad un anno prima della morte di Jan Palach: il 5 gennaio ’68, infatti, Alexander Dubček fu eletto Segretario Generale del PCC al posto di Antonín Novotný, un politico legato all’età staliniana dell’Urss e sopravvissuto alla destalinizzazione. Dubček apparteneva invece ai riformatori, a chi criticava quell’impostazione rigida di partito, ed era affiancato da intellettuali come Milan Kundera. 

Le idee di Dubček erano sicuramente popolari: decentralizzare l’economia, concedere la libertà di stampa, rimuovere la dittatura del partito unico e introdurre il pluralismo politico, erano provvedimenti assolutamente inediti. Il fermento politico-culturale che iniziò sotto Dubček, però, non poteva essere accettato senza riserve a Mosca, che temeva un’espansione di quella protesta anche in altre aree del Blocco di Varsavia.

Il 21 agosto del ’68 le truppe sovietiche, con l’appoggio della DDR, Polonia, Ungheria e Bulgaria, occuparono Praga. Dubček fu arrestato e sostituito da Gustáv Husák che guidò il processo di normalizzazione del Paese.

Ripristinare la dittatura in una nazione che aveva mostrato un oggettivo fermento politico e culturale contribuì, come si diceva in apertura, a danneggiare moltissimo l’immagine dell’Urss nel resto del mondo. Agli occhi degli studenti, che nel ’68 erano in rivolta ovunque, non era più lo stato-guida della loro rivoluzione, dal momento che, com’era stato ampiamente dimostrato, i loro carri armati arrivavano puntualmente a stroncare le proteste degli stati che appartenevano al Blocco di Varsavia.

Dottrina Breznev, si chiamava, questa particolare forma di politica estera messa in atto dall’allora Segretario Generale del PCUS; e con questa espressione si giustificò l’invasione.

Carri armati sovietici a Praga

Come i bonzi in Vietnam

In nome della salvaguardia del potere centrale, dunque, fu legittimato l’ingresso delle truppe in Cecoslovacchia. Il ripristino della censura da parte del regime fu la causa di una serie di singole – e brutali – rivolte che si verificarono a Praga in quei mesi.

Jan Palach aveva 21 anni quando, uscito dal suo alloggio universitario e diretto a Piazza San Venceslao – luogo più affollato della città – si bruciò vivo dopo essersi cosparso di benzina. Prima di questo gesto aveva spedito tre lettere: al leader studentesco di Praga, all’Assemblea della Facoltà di Lettere e Filosofia e a un suo amico. Nel testo si chiedeva l’abolizione della censura e del notiziario Zpravy, giornale d’occupazione delle forze sovietiche.

Palach non morì subito, in quanto fu soccorso dai passanti: morì tre giorni dopo tra sofferenze atroci, il 19 gennaio. Seguirono altre dieci torce umane, e i morti furono 5.

Questo metodo di protesta non era casuale: Palach e gli altri che lo seguirono, si ispirarono ai monaci buddisti vietnamiti, che si davano fuoco a Saigon per protestare contro il governo filo-americano che praticava politiche di oppressione contro gli stessi monaci.

L’episodio di Jan Palach, comunque, resta circoscritto ad un periodo storico con una connotazione ben precisa: da un lato un Paese – comunista – desideroso di decentrare il suo apparato e costituire il tanto agognato socialismo dal volto umano; dall’altro, un potere rigido che faceva della centralizzazione la sua potenza.

Quale poteva essere, allora, la sintesi di questo conflitto? Una risoluzione pacifica non poteva esistere, e quindi il gesto di Palach fu l’emblema di una protesta esasperata, che quando andiamo ad analizzare – cinquant’anni dopo – non dobbiamo farlo con l’intento di aggiungere un’altra bandiera alla nostra fazione politica: l’unica lettura che dobbiamo dare alla morte di Jan Palach è quella della lotta all’oppressione, in tutte le forme con cui questa si è manifestata.

Il sacrificio di Thích Quảng Đức nella foto di Malcom Browne, giugno 1963

Autore

Francesco, laureato in Lettere, attualmente studio scienze dell'informazione, della comunicazione e dell'editoria. Approfitto di questo spazio per parlare di politica e di dinamiche sociali. Qual è la cosa più difficile da fare quando si collabora con un magazine? Scrivere la bio.

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