“Malattia come metafora” e impossibilità di accettare la vulnerabilità

Proposta di un tentativo di normalizzazione anche verso tutto ciò che sfugge al controllo diretto della società.

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Tutte le bugie che si dicono ai malati di cancro, e che essi stessi dicono, indicano quanto sia diventato difficile per le società industriali avanzate adattarsi alla morte. Dal momento che la morte è oggi ritenuta un evento oltraggiosamente insensato, la malattia che viene largamente considerata sinonimo della morte è sentita come qualcosa che bisogna nascondere.

Questa citazione è contenuta nel saggio Malattia come metafora di Susan Sontag (1933-2004): letterata, filosofa e scrittrice statunitense. Proprio prendendo spunto da quest’ultimo, l’intento del seguente articolo è avviare una riflessione circa il modo di considerare la malattia nella società odierna.

Lo scritto di Sontag utilizza come esempio la differenza di percezione tra la tubercolosi, considerata malattia dell’eroe romantico e del poeta, e il cancro, ritenuto invece morbo del singolo, di colui che, non essendo riuscito ad esprimere i suoi sentimenti, li ha interiorizzati trasformandoli in tumore. Un disturbo della mente che glorifica la personalità del malato contro una disfunzione del corpo che lo colpevolizza. 

L’incapacità della società di concepire la debolezza

Il tema principale è questo: l’incapacità della società di accettare la realtà della malattia. E la causa di ciò probabilmente deriva dall’impossibilità di tollerare la vulnerabilità, la paura, che porta alla costruzione di espedienti per nascondere tutte queste emozioni negative che non si vogliono affrontare.

La società non ha più il coraggio di pensare al fatto che si è esposti continuamente a rischi, che nessuno è immune ai problemi e che avere paura è normale. Nascondendo questo lato invisibile della vita che fa paura, si cerca di negare che siamo anche corpo (e non solo anima), e negare questa corporeità significa negare che siamo anche esseri fragili, bisognosi di cure, di affetto. 

La società è terrorizzata dall’incontrollabile, e proprio grazie alla metaforizzazione della malattia cerca di portare tutto sotto il suo controllo.

E colui che si ammala? Significa che ha fallito nel controllo della sua vita. Se nel mondo antico le epidemie venivano considerate come una punizione divina, ora sul malato ricade la colpa di essersi autoinflitto la malattia. Quest’ultimo è giudicato negativamente perché vittima di debolezza, vizio, capriccio e incapacità di sottostare all’ordine prestabilito.

Il giudizio morale della società

La malattia produce l’adesione ad un “tipo psicologico”: le persone vengono etichettate. Quante volte si è sentito dire che «la ragazza anoressica è colei che si è messa a dieta per rincorrere un ideale di fisico da modella o che si comportava in un determinato modo solo per capriccio».

Il giudizio della comunità diventa un giudizio morale dell’individuo che non è stato in grado di contenersi e seguire la “retta via”. Ti viene inculcato che tu hai tutta la colpa della tua malattia. E questo senso di colpa proiettato nell’individuo può produrre delle conseguenze molto gravi.

Quante volte, infatti, si sente parlare della difficoltà di esternare il proprio problema e chiedere aiuto? Dopo ciò che è stato spiegato in precedenza non è nemmeno difficile biasimare questo atteggiamento: nella società sembra quasi che avere un problema significhi essere “difettosi, come un ingranaggio guasto di un meccanismo più complesso.

Spesso si ha paura a usare la parola anoressia (o qualsiasi altro disturbo alimentare) ad alta voce, a chiamare il proprio malessere con un nome; è molto più facile nasconderlo. Il problema è che nascondendolo agli altri, ma soprattutto a sé stessi, questo continua a scavare radici nella persona diventando sempre più difficile da estirpare. 

Ti senti fragile? È normale 

La parola chiave dovrebbe essere: normalizzazione. È normale avere un problema e avere una difficoltà (che sia semplicemente un “giorno no” o un disturbo molto più grave) ed è normale avere bisogno di aiuto. 

Sempre Susan Sontag, nel saggio citato in apertura, scriveva:

Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza: nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese.

Uno degli obiettivi di Animenta è proprio comunicare con le persone facendole sentire meno sole, perché riconoscendosi nelle storie di altri ci si può sentire compresi e quindi anche accettare la propria difficoltà e chiedere aiuto potrà risultare più semplice. 

Conclusioni

La conclusione del saggio Malattia come metafora è che probabilmente l’uomo non è in grado di abbandonare le metafore perché queste sono molto utili per comprendere meglio la realtà. Ma l’importante è eliminare quelle dannose che causano solo dolore.

Diventa di conseguenza fondamentale focalizzarsi non tanto sull’attribuzione di simboli alla sofferenza, quanto sui problemi in sé e, quindi, sulla cura. Su un modo concreto per aiutare chiunque soffra

Solo avendo il coraggio di fare i conti con la realtà (e non con l’immagine di essa) potremmo fare qualcosa di concreto. È il momento di agire.


Questo articolo, frutto della collaborazione tra Generazione Magazine e Alimenta, è a cura di Claudia Anaclerio.

Autore

Animenta è un’ associazione nata con l’obiettivo di raccontare per sensibilizzare sui disturbi del comportamento alimentare. Animenta nasce per creare momenti di ascolto, confronto e accoglienza per chi ha affrontato o sta affrontando un disturbo del comportamento alimentare e nasce per portare un cambiamento reale in un settore lasciato nell’ombra per troppo tempo. Grazie ad Animenta viene fatta informazione e sensibilizzazione con i ragazzi del liceo e delle università, si creano di momenti di confronto e discussione su tematiche ancora troppo poco affronta e attraverso raccolte fondi, l’associazione vuole supportare in futuro le famiglie che affrontano queste malattie.

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