Il rapporto che i fruitori di un’opera d’arte hanno con essa, non è affatto scontato, ed è anzi forse un elemento costitutivo dello stesso ruolo che l’opera svolge all’interno di una società; perché nemmeno un’opera d’arte può essere aliena dalla dimensione sociale o può essere considerata “in astratto”: le si dà un significato tramite il contesto in cui si pone, e nel modo in cui è fruita.
Quando quest’opera d’arte è un film, questo fatto è ancora più evidente. Il modo in cui la società ha fruito del cinema è radicalmente mutato. La “magia” di cose che si muovevano, e poi a un certo punto parlavano, e addirittura poi ancora si coloravano su di uno schermo bianco, si è abbinata all’importanza (non senza una certa pomposità) del momento in cui le persone si recavano al cinema, l’unico luogo dove poteva avvenire l’arcano. Ci si vestiva, spesso con più riguardo che per fare altre cose, e si, fisicamente, entrava in questo luogo chiuso, con il buio contrastato solo dal rosso delle poltrone, ci si sedeva ed appariva un fascio di luce che dava vita allo spettacolo. Quindi, gli spettatori andavano al cinema perché, se avessero voluto partecipare alle fantasie della finzione, quello sarebbe stato l’unico modo. L’unico modo di vedere magari città lontane, mondi immaginati, antichità ricostruite, storie e romanzi che prima avevano solo la forma delle lettere.
Oggi questa situazione si è completamente ribaltata: tutti i giorni ci passano davanti gli occhi centinaia di immagini e video, in ogni momento della giornata. Abbiamo uno schermo personale che ci permette virtualmente di soddisfare ogni esigenza, di guardare quello che desideriamo quando lo desideriamo. Il punto è che, senza voler muovere inutili critiche anacronistiche o nostalgiche alla modernità, e tantomeno senza voler fingere di vivere in un’altra epoca rimpiangendo le cassette a nastro e le pellicole, questo cambiamento nel modo di fruire le immagini, e quindi anche i film, non può non aver influito sul nostro rapporto con esse.
La fine del rito collettivo cinematografico
Intanto, come si diceva, l’avvento delle piattaforme streaming ha interrotto quel “rito” collettivo, che si compiva andando a vedere un film al cinema. Lo stare seduti vicino a sconosciuti al buio, mentre si guarda qualcosa di altrettanto sconosciuto è stato sostituito dallo stare stesi sui letti delle nostre camere, con il portatile sulla pancia.
Queste differenti modalità non sono equiparabili. La prima implica la condivisione, lo scambio reciproco, perché sappiamo che le persone sedute in sala hanno scelto, come noi, di impiegare del tempo per guardare quel film, e quindi hanno rinunciato a fare altro per lasciare spazio a quello. Quindi, andare al cinema è un’attività completa, perché si esce e si va al cinema, non anche al cinema. E questo significa che lo spettatore sarà comunque il più attento possibile a quello che vede, cercherà di farsi rapire per quel tempo, perché ha fatto una scelta precisa e certamente non può metterla in pausa, ma al massimo andare via.
Questo a conferma che il “modo” in cui fruiamo di una cosa è importante. Infatti, tutti questi elementi, quando stiamo guardando qualcosa su Netflix in casa, scompaiono. Scegliamo di vedere qualcosa dall’immenso catalogo che ci propone la piattaforma, e da soli iniziamo a guardarlo. Di certo non dobbiamo “prepararci” perché di solito il criterio che si adotta è quello del «quando ho tempo lo guardo». Quindi è un’attività che, proprio per la sua accessibilità, tendiamo a fare quando ci è possibile, e, quindi, non in sostituzione di altro. Spesso iniziamo a vedere qualcosa ma poi, per tanti motivi, interrompiamo. Abbiamo sonno, dobbiamo studiare, abbiamo finito la pausa, dobbiamo andare a cena, abbiamo impegni più importanti; giocoforza la possibilità di interrompere la visione ci fa essere meno attenti ad essa (tanto si può sempre tornare indietro e guardare di nuovo), ci fa cogliere meno i dettagli, la rende discontinua e interrompe la “magia” della proiezione, perché quella accade qui ed ora, non dopo, domani, tra tre giorni o una settimana.
Tutto questo non vuole essere in alcun modo retorico, anzi, il recente vissuto che abbiamo avuto a causa della pandemia forse rende più chiara l’abissale differenza che c’è tra un’attività e l’altra, e, quindi, anche guardando da questo punto di vista si riesce a capire ancora di più il valore di andare al cinema. Perché un conto è non poter andare al cinema, l’altro è non volerlo fare. Perché due anni di restrizioni e chiusure ci hanno sicuramente abituato a vedere il cinema come luogo “inutile”, ma forse, anche per quello che si è detto, tanto inutile non è. Perché ci ricorda la necessità di dare “peso” alle cose che facciamo per capirle ed apprezzarle, che la dimensione sociale di queste è un arricchimento, e che la “comodità” che ci offre la tecnologia non è sempre qualcosa che “aumenta” la bellezza dell’esperienza, anzi, a volte, finisce per diminuirla.
Autore
Federico Mastroianni
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Classe 2001, ma mi sento molto più vecchio. Studente di Giurisprudenza a Roma, aspirante giornalista (infatti mi piace molto scrivere), ma anche suonare la chitarra. E questo è quanto.