Addio al saluto “Signore e Signori”: perché è importante partire dal linguaggio per cambiare la società

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Lufthansa decide di abbandonare la formula «gentili signore e signori» rivolta ai passeggeri seduti in cabina in attesa del decollo per cercare parole più inclusive. Il divieto imposto dalla compagnia tedesca sarà valido anche per le filiali Austrian, Eurowings, Swiss e Brussels Airlines. 

Iniziativa assolutamente in linea con il percorso già iniziato dalla Germania, che cerca da tempo di apportare un cambiamento all’apparato linguistico, nel tentativo di difendere le minoranze. Al centro del dibatto c’è per esempio la Gendersternchen, cioè l’asterisco che supererebbe il binarismo maschile\femminile. Una vera e propria sperimentazione che sta diventando abitudine sempre più diffusa, pur non essendo stato ancora inserito nel sistema di scrittura ufficiale. 

Il concetto di annientamento simbolico a cui faceva riferimento il sociologo George Gerbner già nel 1976, parlando dell’impossibilità di esistere pienamente nel mondo sociale se non si è rappresentati, può infatti essere applicato non soltanto ai media, ma anche alla lingua che parliamo tutti i giorni. La sempre crescente attenzione al corretto utilizzo dei pronomi personali riflette la necessità di fare spazio a identità che altrimenti non avrebbero modo di esprimersi linguisticamente e, dunque, non godrebbero di legittimazione. Se non sei lei e non sei lui, semplicemente non sei: devi necessariamente fare una scelta tra due alternative insufficienti, ridimensionare la tua complessità e quindi, di conseguenza, rinunciarvi.

È davvero così importante ragionare sulla nostra lingua?

Oggi ci troviamo in un momento storico in cui i cambiamenti sociali e culturali corrono veloci, e questo argomento non potrebbe essere più attuale. Il problema della trasformazione della lingua, soprattutto in Italia, è da sempre motivo di dibattito fra intellettuali: pensiamo anche soltanto alla questione dell’identità dell’italiano, sollevata da Dante nel Trecento, alle Prose della volgar lingua di Bembo, al dibattito ottocentesco di Manzoni e Ascoli, o alle questioni linguistiche di Pasolini del 1964. Il nostro modo di parlare dice molto della nostra società e della direzione verso cui sta andando. 

Parlare non è mai neutro.

Luce Irigaray, filosofa e linguista

L’errore comune che i più tradizionalisti si ritrovano a fare è quello di concentrarsi sulla bellezza di un vocabolario ricco di termini arcaici a cui siamo affezionati, mettendo in secondo piano la funzione primaria della lingua: quella di permettere a un individuo di esprimersi e comunicare con gli altri. Ma come posso esprimermi se non esistono delle parole adatte a farlo? Parola si dice anche vocabolo, dal latino voxvocis, con l’aggiunta del suffisso bolo, che significa “lancio”; per cui è come se in qualche modo il vocabolo lanciasse una voce che, toccando la realtà, genera significato. Il rapporto della mente con la realtà avviene soprattutto tramite il linguaggio, una specie di ponte tra una situazione di fronte a noi (o dentro di noi), e un suono che la nomina, e, nominandola la rende reale. Addirittura, secondo alcuni studiosi, determinati concetti prenderebbero vita solo nel momento in cui vengono pronunciati. 

La funzione della lingua è quella di orientarci nella realtà e nel mondo

John Austin, nel suo Come fare cose con le parole (1962) ha parlato per primo della performatività del linguaggio, sottolineando che esso, oltre che descrivere, è anche in grado di plasmare la realtà: basta per esempio osservare in che modo riflette le strutture di potere che, a sua volta, lo influenzano; o la presenza, e dunque anche l’assenza, di certe espressioni in una lingua piuttosto che un’altra, specchio di necessità evidentemente differenti.

La lingua è un organismo vivo che cambia, per l’appunto, in risposta a determinate necessità e non certo indiscriminatamente. Non si può dunque negare il valore del linguaggio come, per dirlo con le parole di Michel Foucault, «dispositivo di controllo». Scegliere un termine piuttosto che un altro può danneggiare concretamente un gruppo sociale. Non soltanto può urtarne la sensibilità, ma riprodurre meccanismi di potere, rapporti di forza e discriminazioni che hanno effetti diretti sulla vita delle persone.

Inserire nuovi termini nel nostro dizionario ci spaventa

Utilizzare delle nuove parole risulta difficile, perché questo vuol dire inevitabilmente modificare un pezzo di realtà. A proposito del DDL Zan, alla cui discussione stiamo assistendo proprio questi giorni, una delle obiezioni che sono state fatte contro il disegno di legge, è l’introduzione di un concetto nuovo nell’ordinamento giuridico italiano, quello di “identità di genere”. Nonostante il termine sia stato già usato dalla stessa Corte Costituzionale (infatti, 6 anni fa la stessa ha stabilito che l’identità di genere è un elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona), l’introduzione definitiva sembra far entrare in crisi perfino i piani più alti. Atteggiamento che testimonia che le parole non hanno soltanto un valore estetico, ma contribuiscono a costruire la realtà.

L’azione è prima di tutto discorso

Hannah Arendt nel suo saggio del 1958 Vita activa. La condizione umana, riprende il concetto aristotelico di zoon logon echon (uomo dotato di parola) che si differenziava da tutti coloro che erano esterni alla polis (schiavi, barbari e donne); questi ultimi non erano propriamente privi della facoltà di parola, bensì di un modo di vita nel quale solo il discorso aveva senso. La sua riflessione si fonda sulla consapevolezza della complementarità esistente tra le due definizioni che Aristotele dà dell’essere umano: avere il logos ed essere un animale politico (inteso come essere che tende per natura all’aggregazione sociale). Nell’agire l’uomo si rivela, così come fa attraverso il discorso.

Hannah Arendt

Proprio la capacità dell’individuo di produrre un discorso, ossia di comunicare, implica l’emergere di un’intenzionalità e di una responsabilità annessa: «Dire qualcosa produrrà spesso, o anche normalmente, certi effetti consecutivi sui sentimenti, i pensieri, o le azioni di chi sente, o di chi parla, o di altre persone: e può essere fatto con lo scopo, l’intenzione o il proposito di produrre questi effetti», scrive il linguista e filosofo John Austin.

Qui emerge la coincidenza tra pensiero e discorso, nei termini in cui il pensiero viene confinato alla sfera intima dell’io in quanto ancora “non espresso”. L’atto della verbalizzazione, dunque, è ciò che espone il pensiero all’altro, definendo il passaggio dal privato al pubblico. Questo passaggio, in riferimento al paradigma classico, fa sì che l’individuo viva, laddove “vivere” si rende con “inter homines esse”.

La parola, l’azione, il discorso e la facoltà di linguaggio, sono usate dalla Arendt come sinonimi, per mettere in evidenza il carattere umano, unico, irripetibile ed irreversibile delle azioni umane. Il discorso in quanto azione viene visto dalla filosofa alla stregua di un miracolo, qualcosa dalla potenza travolgente e determinante. Non a caso, il Vangelo di Giovanni nelle sue righe iniziali recita: «In principio era il Verbo».

Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, disse che «dove c’è diversità è più che legittimo, se non necessario, un cambio di genere grammaticale». Non è possibile raggiungere una soluzione senza mettersi in discussione e senza accettare il confronto. Un invito al dialogo, all’ascolto e, soprattutto, all’importanza di educarci alle differenze, per imparare che ogni storia è diversa dall’altra e va rispettata.

Autore

Nata e cresciuta nella periferia di Roma, sfuggita al destino di diventare un medico (come i miei genitori), sono approdata a Torino in una scuola di “Storytelling and Performing Arts”. Mangio storie e bevo prosecco. In camera ho appesi i poster di Montaigne. Credo nell’amore per il pensiero, nel potere dell’arte e nella bellezza delle parole.

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