L’apartheid israeliano, ha varie ramificazioni per controllare e soggiocare la vita di un palestinese. Una di queste è la “detenzione amministrativa” un metodo processuale e giuridico per tentare di annichilire le future resistenze interne alla popolazione palestinese. Metodo che dopo il 7 ottobre 2023 è stato utilizzato in maniera massiccia, da un punto di vista numerico e di aggressività, nei confronti dei palestinesi.
La detenzione amministrativa è una forma di custodia che consente a un governo di trattenere un individuo senza un processo giudiziario formale, spesso giustificata da motivi di sicurezza nazionale o/e di ordine pubblico.
Questo strumento non è vietato ma regolato dal diritto internazionale e dalle Convenzioni di Ginevra del 1949, che definiscono le garanzie e le procedure per i prigionieri di guerra e le tutele per i civili arrestati o detenuti in territorio occupato, ed è quindi previsto da alcune legislazioni per affrontare “situazioni di emergenza”. Ciò però solleva gravi interrogativi sul rispetto dei diritti umani e civili e questa pratica dovrebbe essere considerata una misura eccezionale e di ultima istanza.
La detenzione amministrativa ha origine dalle Regulations del Mandato Britannico di Difesa (1945) e rappresenta una delle più esplicite persistenze coloniali che collegano il diritto coloniale britannico e quello israeliano.
Proprio per questo, Israele è uno dei paesi che maggiormente abusa della detenzione amministrativa sulla pelle dei palestinesi, integrandola nel proprio sistema giuridico e giustificandola attraverso l’articolo 285 dell’ordine militare 1651, che autorizza l’esercito occupante all’abuso di potere, attraverso ordini emessi con una durata fino a 6 mesi senza prove concrete e senza consentire un legittimo processo. Inoltre, non c’è un limite al numero di volte in cui un ordine di detenzione amministrativa può essere rinnovato. Come se non bastasse, i detenuti spesso non hanno nemmeno la possibilità di incontrare i propri avvocati o familiari, rendendo molto difficile per loro preparare una difesa adeguata.
I coloni si rifanno anche alla Emergency Powers Law (1979), applicabile alle persone che possiedono la cittadinanza israeliana. Tuttavia, solo un numero molto ridotto di questi ultimi è stato sottoposto a detenzione amministrativa, un sistema pensato principalmente per essere esteso ai territori occupati con l’obiettivo di colpire il maggior numero possibile di palestinesi o, come ha raccontato in un’intervista la direttrice dell’associazione Addameer, Sahar Francais, «arrestare quanti più palestinesi possibile senza essere tenuti o presentare alcuna prova ai tribunali militari».
Durante la detenzione i prigionieri affrontano abusi di diversa specie, a partire dai violenti interrogatori durante i quali sono sottoposti a torture fisiche e psicologiche, che includono percosse, minacce, isolamento e privazione del sonno, fino alle condizioni delle celle sovraffollate e sporche.
Ma chi sono i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane?
Possiamo rispondere a questa domanda grazie al lavoro portato avanti dall’organizzazione non governativa palestinese fondata nel 1991, citata precedentemente, Addameer (dall’arabo “coscienza”) quale è una delle principali voci di advocacy per i diritti dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.
Gli attivisti di Addameer offrono assistenza legale gratuita ai prigionieri politici palestinesi, lottano contro la tortura, le detenzioni arbitrarie e la pena di morte, promuovendo leggi che possa tutelare i detenuti cercando il sostegno della comunità internazionale.
Secondo le ultime statistiche, il numero totale di detenuti nelle carceri israeliane attualmente è di 10.100 persone di cui 3.398 detenuti amministrativi, 270 bambini e 95 donne. Tra i prigionieri ci sono attivisti per i diritti umani, detenuti provenienti da Gaza, Gerusalemme Est e dai territori del 1948, così come quelli arrestati prima degli Accordi di Oslo. Inoltre, fanno parte di questi gruppi anche i membri del Consiglio legislativo palestinese, ossia i politici e i prigionieri condannati a pene superiori ai 20 o 25 anni.
Tra i detenuti figura anche Marwan Barghouti, soprannominato il “Nelson Mandela palestinese”, condannato a cinque ergastoli poichè ritenuto responsabile di attacchi terroristici in Israele durante la seconda Intifada. Per approfondire la figura di Marwan Barghouti, vi rimandiamo alla lettura dell’articolo sul nostro sito, qui.
La violenza dei diritti infantili
Un aspetto particolarmente allarmante è rappresentato dagli arresti dei minori palestinesi. Tutto ciò che abbiamo raccontato precedentemente viene infatti applicato anche ai bambini. Secondo i dati condivisi proprio dal Servizio penitenziario israeliano, 85 bambini palestinesi, di età compresa tra i 16 e i 17 anni, sono attualmente detenuti in regime di detenzione amministrativa.
Per di più, i bambini palestinesi, a partire dai 12 anni, sono vulnerabili a arresti e persecuzioni da parte delle forze israeliane poiché, secondo la legge militare israeliana, 12 anni è l’età in cui inizia la responsabilità penale.
Il 98% dei bambini dichiarano di essere stati sottoposti ad atti di tortura e denigranti. Save the Children ha condotto la ricerca “Injustice” che documenta le gravi violazioni dei diritti dei bambini palestinesi detenuti, gli abusi subiti e le ripercussioni traumatiche psicologiche che le condizioni delle carceri sioniste lasciano. Ecco alcune delle testimonianze:
- «Prima di essere arrestato, mi hanno sparato alla gamba e alla schiena, il proiettile mi ha attraversato lo stomaco. Sono stato portato in ospedale dove i soldati mi hanno interrogato. Avevo le mani e i piedi ammanettati al letto. Ho detto loro che non sapevo niente ma mi hanno mandato in prigione». (Ahmad, 15 anni)
- «L’interrogatorio è durato dalle 6:00 alle 15:00. Ero senza cibo, acqua, sonno, e sono stato ammanettato. Hanno cercato di ingannarci per farci ammettere cose che non avevamo fatto». (Laith, 16 anni)
- «Durante l’interrogatorio, il soldato mi ha detto: “Tu e i tuoi amici, vi ucciderò uno ad uno”». (Khalil, 13 anni)
- «Mi hanno colpito con le mani e con i fucili, ovunque, soprattutto nelle parti intime». (Yousef, 13 anni)
Gli standard internazionali relativi alla giustizia minorile, a cui Israele ha aderito, stabiliscono che la detenzione dei minori debba essere considerata un’ultima risorsa e che nessun bambino debba essere privato della libertà in modo ingiustificato o arbitrario. Ma ciò non viene rispettato: la principale causa di detenzione è il lancio di pietre o il sospetto di ciò.
Le scomode realtà studentesche
Un esempio lampante della detenzione amministrativa è il caso degli studenti palestinesi che vengono sistematicamente presi di mira dalle forze di occupazione israeliane: vengono arrestati in particolare per il loro attivismo politico e le loro partecipazioni a manifestazioni o incontri scolastici.
Tra gli esempi più emblematici ricordiamo la ragazza divenuta simbolo della resistenza contro il regime della detenzione amministrativa, il suo nome è Heba al-Labadi, giovane palestinese arrestata dalle forze di occupazione israeliane nel 2019. Dopo essere stata arrestata senza accuse formali, è stata sottoposta per un mese a torture fisiche e psicologiche, senza la possibilità di vedere i familiari o un avvocato. Il 25 settembre dello stesso anno, ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la sua condizione. La sua protesta ha spinto la Giordania a prendere posizione, portando alla sua liberazione.
Il gesto della giovane ragazza ha determinato successivamente la resilienza di molti altri detenuti: nel 2021 i detenuti in detenzione amministrativa hanno proseguito lo sciopero della fame, come nel caso di Kayed Fasfous, che ha resistito per 131 giorni. Nonostante l’intensità di queste proteste, il numero di detenuti amministrativi palestinesi continuava a crescere. Di fronte a questa situazione, nel gennaio 2022, i prigionieri hanno deciso di boicottare collettivamente tutti i tribunali militari israeliani, rifiutandosi di partecipare a processi che considerano illegittimi.
Altri esempi significativi includono il caso di Shatha Hassan, presidente del consiglio studentesco all’Università di Birzeit, che è stata arrestata e detenuta senza accuse per ben cinque mesi. Mais Abu Ghosh, originaria di Gerusalemme, a 20 anni è stata arrestata nella sua casa nel campo profughi di Qalandiya, insieme ad altri 18 studenti dell’Università di Birzeit. Così come Ahmed Tamimi, la giovane attivista palestinese arrestata nel 2017 dopo aver schiaffeggiato un soldato israeliano durante una protesta contro l’occupazione, e Bahu Abu al-Ata, detenuto per il suo impegno politico a Gaza.
Questi abusi vanno oltre la violazione dei diritti individuali; sono parte di una strategia deliberata per sopprimere e disincentivare qualsiasi forma di attivismo tra le nuove generazioni palestinesi.
Come si è evoluta la situazione dopo il 7 ottobre 2023?
L’uso della detenzione amministrativa ha subito diverse oscillazioni in relazione agli eventi storici che si sono susseguiti. I momenti di maggiore intensità si sono verificati con l’inizio della seconda Intifada nel settembre del 2000, a Gaza nel 2014 e le successive escalation dell’ottobre 2015. La situazione è ulteriormente peggiorata, in questo anno di genocidio, a partire dal 7 ottobre 2023.
L’organizzazione israeliana B’Tselem ad agosto di quest’anno ha pubblicato il report “Welcome to Hell” , che denuncia le sistematiche violazioni dei diritti umani che i prigionieri palestinesi subiscono nelle carceri sioniste, un sistema che ha dato l’avvio ad una serie di atrocità che vanno dalla tortura fisica alla privazione di cibo, acqua e assistenza medica.
Grazie alle testimonianze di 55 prigionieri rilasciati, il rapporto fornisce il quadro di un sistema carcerario parte di un progetto di repressione volto a mantenere il totale controllo sulla popolazione palestinese e la sua deumanizzazione: le celle sono sovraffollate, gli spazi sono angusti e le condizioni igieniche precarie, l’ambiente è insalubre e contribuisce alla diffusione di malattie; molti detenuti sono costretti a dormire sul pavimento e a condividere spazi senza adeguata luce naturale e ventilazione; l’accesso all’acqua è limitato, in molti casi per solo un’ora al giorno.
Violenza fisica e psicologica: le guardie carcerarie e i soldati israeliani utilizzano diversi strumenti per la tortura dei detenuti, tra cui spray al peperoncino, granate stordenti, bastoni, manganelli elettrici e cani da attacco. Inoltre, i detenuti vengono umiliati e privati del sonno con l’ascolto forzato di suoni disturbanti.
Violenza sessuale: abusi e violenza sessuale sistematica contro i prigionieri palestinesi, con colpi ai genitali e abusi di gruppo da parte di soldati.
Negazione di assistenza medica: i detenuti sono spesso privati di cure mediche necessarie, anche per lesioni gravi o malattie potenzialmente mortali. In alcuni casi, questa negligenza porta a conseguenze estreme, come la morte o amputazioni. È il caso di Sufian Abu Saleh, che ha perso una gamba a causa dell’indifferenza delle autorità sanitarie.
Le pratiche documentate nelle carceri israeliane non rappresentano solo istanze punitive, ma un campo di tortura sistematica, nonchè una chiara manifestazione della brutalità del regime di apartheid costruito da Israele. Questo sistema di incarcerazione di massa ha lo scopo di disgregare il tessuto sociale palestinese, smantellare le resistenze interne e non può essere giustificato.
Il Sudafrica ha dimostrato al mondo che l’apartheid può essere sconfitto grazie a due fattori: una forte mobilitazione interna e il sostegno concreto della comunità internazionale. Il primo elemento è già presente. Ma quando arriverà il secondo? Quando riusciremo a superare i comunicati pieni di parole vuote e prive di azioni reali?