Perché Galimberti ci definisce una generazione di infelici?

Umberto Galimberti definisce la generazione Z dei ragazzi infelici: i giovani non si innamorano più di sé stessi ma degli idoli che vorrebbero riuscire ad emulare.

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Per i greci il concetto di felicità era legato all’armonia con sé stessi

Eudamonia è una parola greca che tradotta significa felicità. Ricostruendone l’etimologia si può capire più precisamente che cosa i greci intendessero per felicità. Eu, il prefisso della parola, significa bene. Il suffisso, invece, deriva da daimon, demone inteso nel senso di talento, di animo. Nella cultura greca, quindi, la felicità era interpretata come un’armonica convivenza con gli aspetti più puri della propria personalità; e per raggiungerla bisognava conoscere sé stessi e innamorarsene.

Per Galimberti dopo oltre duemila anni siamo giunti ad un’idea di felicità lontana dai nostri demoni e sempre più dettata dai falsi modelli che ci educano. Pochi ragazzi cercano una realizzazione o sono disposti a “combattere” per ottenerla. Pochi sono pronti a costruirsi un’identità svincolata dai miti momentaneamente confortanti. E così, si vive un’adolescenza nell’aspirazione del successo e dei soldi, sognando cose che non si potranno comprare mai e desiderando, spesso, donne finte, abbellite da qualche filtro e dalla chirurgia estetica o uomini simili ad ologrammi.

L’ospite inquietante: il nichilismo sociale

In L’ospite inquietante, il filosofo analizza il nichilismo sociale diffuso nei giovani come, appunto, un germe che toglie senso alla realtà per darlo, invece, a piaceri effimeri e alle proiezioni individuali. Nell’ansia di diventare qualcuno, la giovinezza si allunga sempre di più e ossimoricamente finisce subito. È facile ritrovarsi sulla soglia dei venti anni già disillusi. Perché quella letterina da Hogwarts che hai aspettato per anni non arriva più e non si ha più quella fantasia per credere che arriverà. Perché non si riesce a capire come trovare una via d’uscita per evadere da quelle prigioni che sono l’Università, il lavoro o la disoccupazione. Ovviamente per alcuni non è così; hanno un obiettivo e anche sudare per conquistarlo significa crescere. Per la maggior parte, però, è diverso, perché spesso quell’obiettivo è troppo o necessita di un compromesso o molto spesso non si riesce nemmeno ad identificarlo.

Lucas Cranach il Vecchio, L’età dell’oro, 1530

Così nascono generazioni infelici, generazioni di ragazzi e ragazze senza un posto nel mondo. Galimberti giudica questo fenomeno come un qualcosa di inevitabile, come un prodotto figlio dei tempi. Il vero motivo risiede nel fallimento dell’educazione, scolastica e familiare. I giovani vengono educati dalle Tv, dalla loro filter bubble su Instagram e crescono con la fascinazione per degli idoli che solo una piccolissima parte di loro riuscirà ad emulare. Il problema principale del fallimento dell’educazione è che i ragazzi non hanno più modo per innamorarsi di sé stessi perché non sanno come fare per conoscersi. Diventa, così, automatico innamorarsi degli idoli e credere che la felicità risieda in una vita come la loro.

Illusione e delusione

Ma non è così. Tutto questo è solo un’illusione a cui seguirà consequenzialmente una delusione. Per questo Galimberti dice “molti giovani sono infelici e alcuni nemmeno lo sanno”. Quindi qual è la soluzione proposta da Galimberti? In realtà una soluzione non c’è, ci sono delle vie alternative o dei modi per sfuggire a queste trappole. Imparare a conoscere sé stessi e innamorarsene aiuta a capire quello che si vuole veramente. Quindi si ritorna al concetto greco di felicità: scopri quello per cui sei fatto e fallo.

Ora, Galimberti supera i settanta, che ne sa se i ragazzi sono infelici e, soprattutto, se sanno di esserlo? Può dirlo a livello filosofico e sociologico. Sicuramente ha ragione riguardo alla nostra idea di felicità e a quanto essa sia influenzata dai falsi miti che compongono l’universo collettivo sociale. Ma l’infelicità generazionale è una cosa relativa, come si può dire che il nostro non sia semplicemente un altro atteggiamento alla vita? Che non sia altro che il prezzo da pagare per la convivenza con quell’ospite inquietante, il nichilismo, che, per noi, è figlio della consapevolezza. O forse siamo soltanto ammalati, insoddisfatti e indolenti come le generazioni romantiche, intrappolati nel loop del desiderio del desiderio del desiderio del desiderio del desiderio.

Autore

Matteo Fantozzi

Matteo Fantozzi

Direttore Responsabile

Matteo, classe 1997. Non avevo mai provato il disagio di creare una bio finché non ho dovuto scrivere la mia. Se ti dico qualcosa, credimi. Non sono un bugiardo e non voglio fare il giornalista.

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