Un diritto per tutelare chi sceglie di restare

Cosa significa abitare i luoghi di origine

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Chi non ha desiderato o desidera ancora fuggire dal proprio luogo di origine? Chi non ha varcato la soglia di quella casa opprimente, in quel paesino che, così al margine, gli stava stretto, per approdare invece in un centro che lo vestisse del mondo? Quel paese ormai stagnante di vecchie tradizioni e conservatorismi, di opportunità residuali il cui allontanamento vorremmo significhi un’erosione dell’antico ordine.

E chi è stato costretto a fuggire perché la propria casa è stata distrutta, la sua vita stravolta da catastrofi naturali, povertà, indigenza? E cosa ne è stato dei rimasti? Abbandonati anch’essi ad un piccolo mondo antico come dei martiri di un topos bucolico fermo nello spazio-tempo. E se questo stesso paese non fosse davvero il tempio dei rimasti e dei partiti?

“Restare in paese” è davvero un modo residuale di “essere nel mondo” e, come viene troppo spesso raccontato, un atto eroico, antiquato, antimoderno? E non è forse invece la sindrome anti-paesana ad essere una causa-effetto dei fenomeni di abbandono di queste zone del territorio? I paesi abbandonati fanno parte di una nuova geografia mentale dei luoghi, una geografia che Vito Teti, nel suo libro La restanza, uscito per Einaudi nel 2022, ha voluto chiamare «geografia del dolore». L’antropologo calabrese ha analizzato un fenomeno nuovo e antico, per cui partire e restare sono i due volti della stessa medaglia: la restanza, appunto.

Che cos’è la restanza

Vito Teti decide di descrivere un contrasto irrisolto:

Ho iniziato ad adoperare il termine restanza per raccontare i rimasti, le loro storie “in assenza” di qualcosa o di qualcuno, ma mi premeva soprattutto riflettere su un aspetto apparentemente controintuitivo: il viaggio da fermo di chi resta, e, contemporaneamente, sul radicamento archetipico ad un luogo di chi parte. Sentimenti speculari e contrapposti che originano dalla conservazione del sé e che chiedono di raccontare la fecondità ideologica di una coincidentia oppositorum.

La restanza costituisce un assottigliamento del confine tra restare e migrare, un’immagine interiore del processo mentale di chi desidera restare nel “ventre” di una terra difficile, ma anche di chi per scelta o per forza parte, avendo ancorato, anche quando non metabolizzato, il suo corpo ad un luogo e facendo diaspora con la mente.

La dimensione del restare implica sempre l’accettazione di un destino che è lacerazione e dolore, ma anche una forma di pratica attiva, dinamica, ricca di futuro e non nostalgia regressiva, immobilismo, apatia, perché per restare, davvero, bisogna camminare, viaggiare negli spazi invisibili del margine, avere la capacità di ripensare e di rinnovare l’esistenza; perché anche quando restare è attesa, l’attesa è attenzione. L’attesa, tanto quanto il dilemmatico polo opposto del partire, dà vita a nuove relazioni e a nuove mentalità che in un percorso dialettico parallelo apportano accrescimento conoscitivo e non fa, come spesso si crede, cristallizzare consuetudini e culture, ma rideterminare proiezioni e tensioni.

Nella storia dell’umanità, calamità, mutamenti climatici, incendi e invasioni hanno costretto intere comunità a spostarsi, ma non è facile abbandonare la propria terra, e per di più precipitosamente, perché il luogo che si lascia è il luogo in cui si è cresciuti, in cui si possiede la casa, la campagna, il luogo in cui vi sono punti di riferimento storico, religioso, culturale, il luogo in cui esistono relazioni con gli altri abitanti, relazioni controverse e mutevoli eppure indispensabili.

È per questo che dietro la storia di trasferimenti e spostamenti si nasconde la storia di permanenze e resistenze, laddove chi, contro ogni raccomandazione e magari condannandosi alla solitudine, decide di restare in territori dichiarati pericolanti dalle autorità agisce una sorta di rivoluzione nella restanza rispondendo all’obbligo morale di non abbandonare il luogo natìo, di vegliarlo come una persona cara.

Nell’anima dei luoghi non c’è solo un triste passato ma anche una forte speranza di futuro, che non discende dalle potenzialità territoriali garantite dall’istituzione ma discende dall’impegno di chi vive e abita e non è un caso che la parola restanza venga associata al paese, al piccolo luogo.

Non si tratta di mero attaccamento, non si è ancorati ad un fazzoletto di terra, bensì alle memorie umanissime che segnano un’identità sociale ed esistenziale. Non è mai facile andare via e nessuna logica o nessun sogno possono legittimarne o alleviarne il dolore, noi «siamo costitutivamente il luogo in cui siamo nati e cresciuti, siamo i luoghi che abbiamo abitato; siamo i luoghi sognati e desiderati e siamo anche i luoghi da cui siamo fuggiti e che a volte abbiamo odiato, per urgenza d’esistere al di fuori e al di là del perimetro noto

La restanza non può essere considerata solo immobilità perché è anche incontro con l’altro, convocare ombre, presagi e riti, fare i conti con il proprio doppio.

I paesi doppi

Un proverbio calabrese recita «Lu jire e lu venire Deu lu fice», l’andare e il tornare sono stati creati da Dio. La specie umana ha trovato nella mobilità, nella migrazione la sua capacità di sopravvivenza.

Mentre i paesi si svuotano, l’emigrante vi lascia la sua ombra e diventa un’altra persona nel luogo di arrivo (paese due), dov’egli proietta le sue aspettative e i suoi orizzonti di vita. Tuttavia, il senso di appartenenza lo farà sentire per tutta la sua esistenza parte del paese uno, un paese però che non esiste più come lui lo aveva abitato e dove familiari, amici e tutti coloro che non sono partiti vengono toccati da questa parcellizzazione.

Si tratta di un fenomeno di sdoppiamento per cui gli abitanti del paese uno e gli abitanti del paese due riscrivono la loro anima che è anche anima del luogo, e risemantizzano i cronotopi del vissuto presente e futuro ritrovandosi, anche senza volerlo, stranieri a sé stessi.

Il diffuso sentimento nostalgico diventa nuova linfa per chi resta e per chi fugge generando un sentimento sincronico di inappartenenza e radicamento: chi parte recide il suo corpo dal luogo di origine, chi rimane lo recide laddove ha subito la perdita.

Chi resta fermo in qualche modo si sente in viaggio, chi parte in qualche modo si sente rimasto. Non si resta del tutto, non si parte mai del tutto.

Tra disattesa e non ritorno la fisionomia di viaggio e di stabilità vengono riformulati in una metafisica dell’altrove, sorgiva di due doppi che hanno elaborato due modi diversi di costruire la propria territorialità.

Capita, però, che chi era partito decida sua sponte o costretto inaspettatamente a tornare, proprio come è accaduto durante la pandemia da Covid-19. In quell’occasione sono stati molti ad aver riscoperto un nuovo modo di abitare il luogo, di stare a contatto con la piccola patria, più vicina allo stato naturale e lontana dall’urbano, affermando una sorta di opposizione alla concezione urbanocentrica rivelatasi spesso malsana. E più in generale, anche studenti e giovani cittadini stanno avendo contezza del fatto che la montagna e le aree interne non erano zone improduttive e isolate e che oggi come allora possono essere scoperte nelle loro risorse ambientali, paesaggistiche e culturali, per cui tante persone hanno scelto e scelgono di tornare e di restare.

Non è un atto eroico se lo si vede dal punto di vista del richiamo ancestrale. Quando si abita un viaggio o si abitano nuove esperienze, contemporaneamente si abita anche quella vita nel paese che continuiamo a sentire come una sottrazione, anche laddove è la ragione di fuga a lenirla o a camuffarla. Ci si accorge, allora, che il mondo in cui si vive e la consapevolezza della vita e del tempo che ne traiamo è un paradigma da ridefinire.

Per un nuovo modello di sviluppo

In molti paesi abbandonati si attuano “forme di resistenza al declino”: oltre ai giovani che tornano, cooperative operanti in terre sottratte alla criminalità avviano produzioni di grani scomparsi, realizzano nuovi tipi di pane, si dedicano alla produzione biologica, dottorandi e ricercatori creano spazi di indagine e riqualificazione. Una nuova esigenza nasce dalla vita frenetica e dalle dinamiche della città, si ricerca un nuovo modo di abitare i luoghi, meno tossico e più sostenibile, con nuove forme di socialità.

Oggi, purtroppo, il paese viene evocato nell’ambito di una visione estetizzante delle rovine, di un’integrità e di una sacralità da conservare e da ammirare come in un museo. Andrebbe, invece, presa coscienza della devastazione antropologica subita e prestata lucida attenzione ai valori socio-culturali di quel “pondus ancestrale”.

Bisognerebbe opporsi alla chiusura di paesi dove ancora abitano persone e incentivare alla costruzione di una nuova polis, alle opere che possano rilanciarne il valore d’uso e che rendano possibile le economie di chi decide di riabitarli, di riorganizzare spazi e relazioni.

Quel che hanno bisogno i paesi “abbandonati” non è un lavoro destinato al turismo ma un progetto di lungo periodo per la vivibilità quotidiana tramite servizi funzionanti come scuole, ospedali, farmacie; perché, con una ponderata opera di rigenerazione, si salvaguardi la libertà di migrare e il diritto di restare.

La restanza, nelle vesti di pratica conservativa attiva ed etica, vuole, dunque, con il suo lato divulgativo, restituire una rideterminazione territoriale e ideologica al fine di un nuovo senso dell’abitare, che non sia urbanocentrico ma che investa anche dal margine al centro, dalle periferie alle città.

Autore

Laureata in Lettere, studio Filologia Moderna a Padova. Con la passione del viaggio e dei pellegrinaggi, mi addentro tra lingua, storia, cultura e paesaggio. Saggistica, cinema e arti visive. "Il femminismo è stato la mia festa".

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