Eni in tribunale per i danni all’ambiente. È il primo caso italiano di climate litigation

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A maggio, Greenpeace Italia e ReCommon hanno citato in giudizio Eni S.p.A per le conseguenze della loro attività sull’ambiente e sul clima. Sono stati coinvolti anche il Ministero dell’Economia e delle Finanze e la Cassa depositi e prestiti, i due maggiori azionisti di Eni. Abbiamo intervistato Simona Abbate, Energy & Climate campaigner di Greenpeace Italia per capire come andrà il primo processo sul cambiamento climatico in Italia.

Attivisti di Greenpeace a Roma, 11 maggio 2021

Eni dovrà rispondere alle accuse rivolte da Greenpeace Italia e ReCommon davanti a un giudice. Con loro, anche dodici cittadini che chiederanno di rendere conto dei danni subiti e futuri, in sede patrimoniale e non, derivanti dalla crisi ambientale.

«La società non è solo il maggiore emettitore italiano di anidride carbonica, ma influenza anche le scelte politiche ed energetiche del nostro Paese» – racconta Abbate – «Per noi è importante perché mentre la popolazione sta iniziando a fare delle scelte importanti per ridurre le proprie emissioni, Eni non va di pari passo con questo cambiamento». E aggiunge, accusando Eni di non attuare realmente una politica di decarbonizzazione: «Chiediamo di non continuare a usare false soluzioni e di iniziare a ridurre le proprie emissioni».

Greenpeace Italia e ReCommon chiedono a Eni di rispettare l’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. Cioè di rivedere la propria strategia industriale per ridurre le emissioni derivanti dalle sue attività di almeno il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020.

I dodici cittadini che affiancheranno Greenpeace e ReCommon provengono dai luoghi già colpiti dalla crisi ambientale. «Ci sono persone originare del Polesine, in difficoltà per l’avanzamento del cuneo salino, ma anche giovani che sentono i cambiamenti climatici sulle loro spalle, così come ragazzi che hanno perso numerosi giorni di scuola per colpa di eventi estremi. Sono cittadini comuni che a un certo punto si sono resi conto che bisognava fare qualcosa di più concreto», dice Abbate.

Quello contro Eni è il primo caso italiano di climate litigation. Si tratta della prima causa civile sul clima contro una società privata, con l’obiettivo di imporre il rispetto di alcuni standard ambientali. «Si inizierà a discutere della decarbonizzazione di Eni. Il nostro obiettivo è anche quello di aumentare la discussione sul tema», conferma Simona Abbate.

Ad oggi, in Europa sono circa 300 le cause sul clima, davanti a tribunali nazionali o regionali e il suo numero è in crescita. È quanto esposto nel report “Climate Litigation in Europe”, scritto dalla conferenza annuale del Forum europeo dei giudici per l’ambiente (EUFJE). Il 75% delle cause è stato intrapreso contro un’ampia varietà di attori governativi, tra cui governi nazionali e subnazionali e altre istituzioni pubbliche. Le cause contro i privati, quindi, rappresentano ancora una percentuale molto minore. Tuttavia, anch’esse sono in aumento: almeno il 40% di queste sono iniziate nel 2020. Quasi il 50% delle cause sul clima in Europa sono attribuibili a singoli individui o organizzazioni, o da entrambi insieme, come nel caso di Greenpeace Italia e ReCommon.

La maggior parte delle volte, si tratta di cause lunghe. Greenpeace e ReCommon, però, dicono di essere pronti ad affrontare lo scontro: «Siamo pronti ai tempi lunghi, a discutere, ad affrontare il tema tutti i giorni, finché non riusciremo a raggiungere i nostri obiettivi. Serve cambiare adesso, serve farlo il prima possibile e noi stiamo mettendo in campo tutte le nostre carte».

«L’azienda ha risposto con un comunicato stampa, nel quale ha detto che avrebbe proseguito per vie legali, considerando anche la diffamazione. Noi chiediamo a Eni è di non usare dei toni intimidatori nei nostri confronti, ma, se convinta di essere nel giusto, di rispondere concretamente in tribunale».

La prima udienza è fissata a novembre. Greenpeace e Recommon, fino ad allora, continueranno a portare avanti la campagna di formazione e informazione su Eni.

«L’azienda continua a utilizzare delle false soluzioni, non mette in campo una politica di decarbonizzazione reale e concreta», dice Abbate. Le sue accuse sono in linea con quanto rilevato dall’organizzazione Oil Change International nel rapporto “Big oil reality check 2023”: nel 2022 l’Eni ha investito quindici volte di più nei segmenti di business legati ai combustibili fossili rispetto a quanto ha collocato in progetti per le energie rinnovabili.

«Gli studi dimostrano che l’Italia entro il 2050 potrebbe essere totalmente green e basterebbe soltanto puntare sulle energie rinnovabili, ma manca la volontà politica di farlo. Purtroppo Eni oggi cerca in tutti i modi di tutelare il proprio business basato sul fossile», conclude Simona Abbate.

Autore

Nata a Ferrara, tra la nebbia e le biciclette. Quando non ho la testa tra le nuvole, mi piace nascondere il naso nelle pagine di un libro o dietro una macchina fotografica. Scrivo di lotte e diritti, mi piace raccontare dei posti e della gente di cui nessuno parla mai. Frequento assiduamente i mercatini dell’usato e al tiramisù non dico mai di no, queste sono le uniche regole di vita che mi so dare.

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