Un editoriale per parlare di metodo e non di contenuti

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I contenuti non sono ancora fatti e non vogliamo parlarne, ma abbiamo dei suggerimenti sul “come”

Ad inizio luglio, il Corriere della Sera ha detto che la procura di Milano sta indagando sul figlio di Ignazio La Russa, Presidente del Senato. Leonardo Apache La Russa, di 19 anni, è accusato di aver stuprato una ragazza il 18 maggio scorso, a Milano. La diffusione della notizia ha fatto sentire a molti la necessità di esprimersi a riguardo, confondendo i fatti con le supposizioni o i commenti personali e dando vita ad una circostanza che ciclicamente si ripresenta sui giornali: il commento morboso, ripetitivo e inopportuno su episodi di stupro o molestie.

La discussione, poi, non è mai virtuosa ma spesso lontana dalla realtà ed estranea da una sintassi che dia dignità alle storie, condizionando negativamente chi legge e abbassando il livello del racconto, che perde qualsiasi caratteristica positiva, di cui il giornalismo moderno e digitale sarebbe pieno.

I fatti, adesso, sono pochi. I commenti, troppi: questo editoriale prova a dare dei suggerimenti sul “come”. 

I fatti

Ad inizio luglio, con questo articolo, il Corriere della Sera ha reso nota la vicenda. Nel pezzo, viene riportato che la ragazza non ricordava della sera passata con Leonardo Apache La Russa e, una volta chiesto cosa fosse successo il giorno prima, lui le avrebbe riferito di aver avuto un rapporto sessuale mentre lei era incosciente e sotto effetto di stupefacenti. La donna, dopo aver saputo la versione di La Russa, ha contattato una sua amica che le avrebbe confermato il fatto che fosse stata drogata.

Il giorno dopo si è recata con la madre in un centro antiviolenza, per verificare il suo stato di salute. I giornali riportano che le siano state trovate addosso delle lesioni e che è risultata positiva alla cocaina, alla cannabis e alle benzodiazepine, che però ha detto di aver assunto da sola sotto forma di Xanax.

Questa storia e i giornali

La vicenda è stata ripresa da molte testate giornalistiche. Dall’articolo del Corriere della Sera, per la prima volta, emerge l’uso di sostanze stupefacenti e tranquillanti da parte della ragazza. Questa parte della storia è stata ripresa ed enfatizzata da molti, tra i quali spicca Filippo Facci. 

Facci, giornalista e scrittore già noto per le sue affermazioni su donne, Islam e sud Italia, spesso condivise su Libero, venerdì scorso era stato annunciato come nuova figura di punta della Rai sotto il governo Meloni. A Facci sarebbe stata affidata la striscia I Facci Vostri in onda dal lunedì al venerdì prima del Tg2 delle 13, ma ora questo incarico sembra in bilico a causa delle affermazioni fatte dal giornalista proprio sul caso che vede coinvolto Leonardo Apache La Russa.

Sempre su Libero, Facci scrive un pezzo il cui focus è la poca attendibilità della ragazza data l’assunzione di sostanze precedentemente all’incontro con La Russa junior:

Lei aveva in corpo Xanax (per l’ansia o per dormire), fluoxetina (è il vecchio Prozac, antidepressivo, ma anche anoressizzante o in uso nelle terapie per i disturbi dell’alimentazione) e poi una canna e poi cocaina: ma sotto inchiesta è lui – che lei ha baciato in pubblico – e che le avrebbe dato un ulteriore farmaco, di cui per ora tuttavia non si ha notizia o traccia. Messa così, è chiusa

Questo racconto finisce, consapevolmente o meno, per normalizzare l’avere rapporti sessuali con persone in stato confusionale, sotto l’effetto di alcol o droghe e, per questo, non in grado di dare un consenso.

Benché il caso sia ancora aperto, per Facci – come anche per il Presidente La Russa – è già chiuso. La ragazza è una testimone inattendibile, una “vittima imperfetta” alla quale è facile non credere.

L’articolo continua poi con il suo estratto più famoso, quello che ha scatenato la bufera pubblica:

Risulterà che una ragazza di 22 anni era indubbiamente fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache La Russa (una famiglia, una tribù) e che perciò ogni racconto di lei sarà reso equivoco dalla polvere presa prima di entrare in discoteca, prima di chiedere all’amica “sono stata drogata?” anche se lo era già di suo.

Ma Facci non ha solo detrattori, infatti alcuni giornalisti che lo conoscono personalmente si sono prodigati in sua difesa. In un articolo su Linkiesta Giulia Soncini afferma che le accuse volte al giornalista hanno in realtà come scopo un attacco al governo: la frase incriminata di sessismo viene definita dalla giornalista come “una brutta battuta” che non compromette le capacità di Facci come conduttore di una striscia Rai. Anche Mattia Feltri si schiera a Favore di Facci, tracciando la biografia di un uomo antifascista e anticonformista. 

Mettendo da parte la solidarietà degli addetti ai lavori, una frase del genere – esplicitamente sessista – è grave indipendentemente dall’orientamento politico di chi la scrive. Soprattutto, non può essere separata dalle funzioni – pubbliche – svolte da chi la pronuncia. Se Facci, per esempio, avesse espresso la sua opinione in televisione, ad un orario di punta, non avrebbe fatto altro che alimentare il victim blaming che colpisce le donne vittime di violenza dopo una denuncia. 

Davanti a queste notizie giornalisti come Facci sembrano perdere il loro complesso sistema lessicale, impegnandosi nella disperata ricerca di un dettaglio che renda le vittime responsabili della violenza subita. Lo stesso accade nella narrazione mainstream dei casi di femminicidio, quando si implica che l’assassinio sia la diretta conseguenza di un uomo esasperato dalla sua compagna o ex a causa di gelosia, di separazione o di altri comportamenti. 

L’assunzione di droghe da parte della ragazza è stata ripresa su più fronti e la sua vita è, ormai, attentamente indagata e scandagliata dai giornali. In questo caso in particolare, trattandosi di una ragazza giovane, viene analizzato il suo profilo TikTok: su Repubblica esce un articolo dal titolo “Pasticche e party sfrenati, sul palcoscenico di TikTok le fragilità di una generazione” all’interno del quale si fa riferimento ai contenuti postati dalla ragazza sul social.

Abiti succinti, generose scollature e make-up elaborati (anche se qui, sempre, regna la regola dei filtri). Frasi sibilline sui ragazzi, amiche, i risvegli alla ricerca delle sigarette perse tra le lenzuola e le pastasciutte a mezzanotte. Le risposte glaciali a chi mette in dubbio quello che dice, i cuori e gli “amo” al posto di amore a chi le dice quanto sia bella. Video e selfie che non si sono fermati nelle settimane trascorse dalla notte della violenza. Perché, e torniamo a quello che è un diritto e che non può essere un’accusa, ognuno reagisce a suo modo, soprattutto se ha venti anni e ha in mano un cellulare praticamente da quando è nata.

L’articolo tenta apparentemente di sancire la libertà di reagire in modo diverso dopo una molestia, ma in realtà insinua l’esatto contrario: come sottolineato dalla giornalista Corinna de Cesare, si tratta di una vittimizzazione secondaria. Alcune frasi in particolare: “Video e selfie che non si sono fermati nelle settimane trascorse dalla notte della violenza”, instillano nel lettore il dubbio che nessuno che ha davvero subito una violenza si comporterebbe in modo simile.

Il comune denominatore di questi articoli è il victim blaming. La diretta conseguenza è, da un lato, un clima di diffidenza nei confronti delle donne che denunciano la violenza. Dall’altro lato, leggere articoli di questo tipo sui principali quotidiani nazionali disincentiva le denunce da parte delle vittime di violenza.

Una narrazione equa dei fatti, priva di pregiudizi e bias sessisti, è necessaria per creare una società in cui chi si trova in situazioni di abuso (psicologico, sessuale, economico) abbia attorno persone disposte a credere alla sua storia, a partire dai giornalisti incaricati di raccontarla.

Come parliamo quando parliamo di consenso 

Manon Garcia nel suo saggio dello scorso anno, da cui prende il nome il paragrafo, diceva:

Queste concezioni così intuitive possono essere così riassunte: essere consenzienti è essere d’accordo, un rapporto sessuale consenziente è legittimo e un rapporto sessuale legittimo è consenziente, il sesso non consenziente è stupro.

La sentenza stabilita dal tribunale di Roma che assolve un collaboratore scolastico dall’accusa di violenza sessuale per aver infilato le mani nelle mutande di una studentessa minorenne arriva a pochi giorni dalla denuncia di stupro nei confronti di Leonardo Apache La Russa. E, come dice Giulia Blasi, un filo visibile lega queste due vicende: la violenza contro le donne è utilizzata come mezzo di controllo sociale.

Nel 2013, il Parlamento Italiano ha ratificato la sottoscrizione dell’Italia alla Convenzione di Instabul, il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne, riconosciuta come forma di violazione dei diritti umani.

Proprio all’interno del testo della Convenzione emerge per la prima volta la definizione dello stupro come un “rapporto sessuale senza consenso”, specificando che il consenso deve “essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona e deve essere valutato considerando la situazione ed il contesto”.

Come la legge Italia, anche la narrazione che si fa dei casi di violenza sessuale è manchevole di un punto di vista fondamentale: quello delle donne abusate. Questo atteggiamento si inquadra all’interno della cultura dello stupro, un’espressione utilizzata nell’ambito degli studi di genere per descrivere un sistema in cui stupro e violenze sessuali sono ritenute socialmente accettabili. Il processo di normalizzazione della violenza come strumento sistemico di controllo sulle donne avviene anche attraverso la comunicazione mediatica che – troppo spesso – banalizza e giustifica gli abusi, contribuendo a rendere la discriminazione di genere prassi quotidiana. Concretamente, questo meccanismo si esplica attraverso 3 pratiche di cui facciamo esperienza quotidiana: lo slut-shaming, il victim-blaming e l’oggettificazione del corpo femminile.

Lo slut-shaming (dll’inglese “slut”, puttana, e “shame”, vergogna) è la tendenza a screditare una donna per determinati comportamenti o desideri sessuali, considerati inopportuni o persino sbagliati. Ciò include per esempio il pregiudizio della donna-tentatrice, secondo cui l’abbigliamento o l’atteggiamento possono costituire un elemento che istiga alla violenza. Con l’espressione victim-blaming (colpevolizzazione della vittima, il troppo noto “se l’è cercata”) si intende invece il processo psicologico attraverso cui la vittima di una violenza viene considerata responsabile della violenza stessa. Attraverso questo meccanismo, la causa del reato viene abilmente spostata dall’uomo aggressore alla vittima. Secondo un’analisi dell’Istat, una persona su 4 in Italia ritiene che un abbigliamento “succinto” possa essere la causa di una violenza sessuale.

Chiude il quadro l’oggettificazione del corpo femminile, l’elemento che fa da trait d’union tra le pratiche sopra citate in quanto consiste nella predisposizione a considerare la donna come oggetto finalizzato alla gratificazione sessuale di un uomo. In quest’ottica, il corpo femminile diventa terreno di conquista e lo stupro la rappresentazione più primitiva dell’oppressione dell’uomo sulla donna, condannata ad essergli violentemente subalterna.

Per poter combattere realmente la condizione di terrore che vivono milioni di donne, in Italia e nel mondo, è fondamentale educare al consenso: finché la società continuerà a considerare le donne come responsabili delle loro violenze, spersonalizzandole e riducendole ad un pezzo di carne che non ha diritto di esprimersi sulle sue volontà, non sarà possibile avere un reale cambiamento.

Quindi?

Se è vero che la narrazione mediatica riflette la coscienza comune, è altrettanto vero anche il contrario. Così come la cultura dello stupro è fatta di atteggiamenti quotidiani tanto normalizzati da passare inosservati, allo stesso modo i media legittimano certe pratiche attraverso una narrazione giustificazionista e distorta che però viene percepita come normale. Il linguaggio, soprattutto in questi casi, diventa sostanziale. Il vocabolario e la semantica associata alle parole sono sempre stati lo specchio del grado di civiltà di una popolazione ed i termini utilizzati in diversi contesti sono, infatti, la prima spia delle abitudini culturali e degli equilibri di potere che governano un popolo.

Il giornalismo è un mezzo fondamentale che ha il potere di educare e produrre nuove coscienze collettive. A volte, però, sembra non sfrutta queste potenzialità.

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Dinamiche, creatività, approfondimenti culturali e fenomeni emergenti dal punto di vista di una generazione indipendente e in evoluzione.

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