La scuola è aperta a tutti. […] I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altri provvedimenti, che devono essere attribuite per concorso.
Art. 34 della Costituzione della Repubblica Italiana
Il presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini, parlamentare del PCI, ha vigilato i lavori di approvazione di questo articolo. L’articolo 34 della Costituzione Italiana è stato redatto nel corso delle intense discussioni tra figure di rilievo come Aldo Moro, Lozza Stellio e Vincenzo Mazzei, e rappresenta un pilastro fondamentale della Costituzione, in quanto stabilisce il diritto all’istruzione in tutte le sue forme e gradi.
I costituenti, nel plasmarlo, hanno ambiziosamente sognato una Repubblica Italiana che fosse attivamente impegnata nel garantire e promuovere il diritto all’istruzione, riflettendo la consapevolezza dell’importanza dell’istruzione nella costruzione di una società equa e progressista.
Possiamo dire, dopo più di 75 anni dall’approvazione della nostra Costituzione, che la Repubblica Italiana non si sta impegnando abbastanza per garantire il diritto all’istruzione: con scuola e università più che essere un diritto stanno diventando un lusso per pochi.
L’università, più che essere un diritto, ormai è un lusso.
Il grado più elevato di istruzione nel nostro paese, essenziale per accedere a posizioni lavorative più remunerative e per costruire un futuro migliore, presenta tre significativi limiti che rendono l’università un percorso più gravoso e complesso per gli studenti di tutta Italia, con conseguenti impatti finanziari sulle loro famiglie: costi elevati dei libri, spese per l’alloggio o pendolarismo, e tasse universitarie.
Il costo elevato dei libri è strettamente correlato all’inflazione, e secondo i dati riportati da Il Sole 24 Ore, nel 2023 i prezzi dei libri sono aumentati del 3,5%. L’Istat ha poi stimato un incremento dell’indice nazionale dei prezzi del 6,4% su base annua.
Lo stesso Paolo Tartaglino, presidente del gruppo Educativo dell’Associazione Italiana editori, ha ribadito come bisogna garantire a ogni studente l’effettivo diritto allo studio, rendendolo uno degli obiettivi primari politiche pubbliche del Paese, tanto più oggi che gli indici di povertà mostrano come in difficoltà siano soprattutto le famiglie con minori, con immaginabili conseguenze sulla dispersione scolastica. È importante che i fondi per l’acquisto dei testi scolastici da parte delle famiglie meno abbienti, pari a 133 milioni l’anno, siano erogati dalle Regioni a chi ne ha diritto nella maniera più efficiente e veloce possibile.
Sul caro affitti la nostra generazione ha in testa un’immagine ed una soltanto: le proteste con le tende che nel corso di questi ultimi due anni hanno tanto fatto discutere televisione e giornali accendendo i riflettori su un problema non più silenzioso. UDU, Unione degli universitari, nel loro report universitari al verde, in collaborazione con CGIL e SUNIA, spiegano come il canone medio di locazione in Italia si aggiri intorno ai 350€, con differenze tra il Nord e il Sud, in una forbice che differenzia le due zone di 120€.
Andando a vedere i dati per le città più grandi, che ospitano importanti poli universitari, si passa dai 250€ di Palermo agli oltre 500€ di Roma e Bologna, fino ad arrivare ai 640€ di Milano, con una media di 450€. Conti alla mano c’è una differenza sostanziale tra chi vive in città e chi vive nelle periferie/provincie italiane, che hanno un margine variabile di costi di più di 100€. Allo stesso tempo, stanze e locali che spesso sono inabitabili, possono arrivare facilmente a costare oltre gli 800€ mensili nei centri urbani.
Cosa dire per quanto riguarda i pendolari? I costi rimangono comunque elevati: solo 6 regioni, Lazio, Umbria, Emilia-Romagna, Campania, Piemonte e provincia di Trento hanno previsto delle agevolazioni rivolte sia agli studenti sia ai giovani che usufruiscono del trasporto ferroviario regionale.
Facendo una media delle coperture per le distanze superiori a 100 km in ogni regione, si ottiene un costo annuo di 900€; se consideriamo anche l’abbonamento urbano in queste cifre, è necessario aggiungere ulteriori 200€.
Sul fronte delle tasse universitarie, escludendo coloro che sono beneficiari di borse di studio e quindi godono di agevolazioni per lo studio, i dati provenienti da USTAT, il portale dei dati dell’istruzione superiore, indicano una media annuale delle tasse universitarie pari a 930€. Questo valore varia con una media di 1254€ al Nord e 652€ al Sud, prendendo in considerazione una media aritmetica tra i valori riportati dagli atenei.
L’importo più elevato al Nord è da imputarsi principalmente dalla differente distribuzione dei redditi degli iscritti sul territorio nazionale.
Conti finali per uno studente fuori sede? Se nel calcolo finale inseriamo spese come tasse – alloggio – pasti – trasporti – materiale didattico – attività sociali e ricreative – salute e benessere arriviamo a 17483 € annuali per ogni studente fuorisede. Alla luce di quanto guadagna un italiano di media all’anno, secondo l’ultimo rapporto OCSE 33855 euro, i 17483 € rappresentano quasi 7 mensilità. Un po’ tantino vero?
Invece per uno studente o studentessa non fuori sede, ma che studia nella città-provincia-regione in cui vive? Togliendo le spese per l’alloggio, e considerando quelle dei trasporti, per chi fa il pendolare si arriva a 9334€, mentre per chi studia in sede fino a 9777€ per chi fa il pendolare. Seguendo il ragionamento di prima sarebbero 4 mensilità di un lavoratore medio da 1200€ al mese. Da diritto a lusso il passo è breve.
Di giorno studente e di notte lavoratore, uno Spiderman senza superpoteri.
Al fronte delle testimonianze e dei dati riportati è inevitabile una conclusione: studiare in Italia costa, e non tutti possono permettersi le spese. Per pagare la propria camera d’appartamento, i manuali di studio e il trasporto pubblico gli universitari decidono di lavorare per non far gravare tutto sulle spalle delle loro famiglie.
Ma quali lavori fanno le studentesse e gli studenti universitari per pagarsi gli studi? Che tipologia di mercato del lavoro viene offerto loro?
Dati Istat alla mano, i giovani che lavorano e studiano sono il 5,76% del totale, una percentuale che l’Italia non raggiungeva dai tempi della crisi finanziaria del 2008-2009, con un aumento del 2,01% degli occupati che studiano. Un significativo surplus di occupati c’è stato, in doppia cifra, nel range di età che va dai 25 ai 34 anni. Queste statistiche fanno riferimento ai giovani in generale in Italia.
Rapportate all’università, secondo l’Eurostudent, gli Studenti lavoratori sono oltre il 40%. Le cause? L’aumento dei costi degli studi e condizioni economiche disagiate. Le statistiche Eurostudent rivelano che in Italia gli studenti lavoratori sono 4 su 10, e la percentuale arriva fino al 57,9% tra i casi meno abbienti, e fino al 47,6% nel Nord-Est del Paese.
Fino a 24 anni i rapporti di lavoro sono per lo più precari: in media gli studenti trovano lavori part-time e lo fanno, spiega l’indagine, per bisogno, e per rendersi autonomi dalle famiglie, ma anche per rapportarsi il prima possibile con il mercato del lavoro.
Il settore maggiormente rappresentato dagli studenti-lavoratori è quello degli impieghi stagionali, nonostante esista una narrazione popolare secondo la quale i giovani sono considerati “couch potatoes”, e privi della volontà di lavorare durante i periodi di pausa.
Fra il 2018 e il 2022, in Italia il numero di contratti stagionali è sensibilmente cresciuto, passando da 654.498 a 1.018.089. Qual è la percentuale di giovani under 29 che negli ultimi anni ha svolto questo tipo di lavori? Il 37,7% nel 2019; 35,8% nel 2020; 38,2% nel 2021; 38,6% nel 2022.
Quasi la metà dei giovani lavoratori e lavoratrici (46%) ritiene di essere pagato troppo poco. I compensi sono in tutto o in gran parte variabili: in generale, per 4 persone su 10 (43%) la retribuzione mensile è inferiore a 1.000 euro. Solo un terzo riceve una retribuzione compresa cioè tra 1.000 e 1.500 euro, mentre meno di uno su quattro (il 24%) supera i 1.500 euro netti mensili.
Il tutto, con un forte gap di genere, si parla di 1.160 euro per gli uomini, e di 996 euro per le donne. Il precariato sembra essere parte del DNA dei nuovi lavoratori: l’Inps certifica come in Italia tra gli under 35 l’incidenza dei contratti a tempo determinato sia più che doppia rispetto ai lavoratori maturi (23,5% contro 10,7%). Scorrendo gli annunci, il 14% fa riferimento a contratti a tempo determinato, il 12% a tirocini o stage (generalmente della durata di 6 mesi), l’8% a collaborazioni occasionali, e l’11% a forme di lavoro autonomo.
La nostra generazione non solo affronta lavori snervanti, con orari irregolari e dall’alto tasso di precarietà, ma deve far fronte non solo alla mole di studio ma anche al peso economico della carriera universitaria. Senza quelle poche lire vigliacche non potrebbero permettersi gli studi che valgono 7 mesi di lavoro per gli uomini e 9 per le donne. Un sistema fortemente classista, immobile, che va contro agli studenti lavoratori ed in particolar modo alle studentesse lavoratrici.
Chi vorrebbe studiare con un sistema così opprimente?
«I giovani di oggi non hanno più voglia di studiare», questa è la tipica frase che viene rivolta a quei ragazzi che durante il loro percorso universitario finiscono fuoricorso o non riescono a raggiungere il tanto agognato (da un sistema sociale tossico si intende) 110 e lode. Gli stessi che pronunciano un’affermazione del genere dimostrano molta ignoranza e una conoscenza a dir poco superficiale dei molteplici problemi che coinvolgono gli studenti universitari.
Primo tra tutti l’emigrazione universitaria: infatti, non sempre le famiglie degli studenti fuorisede hanno le possibilità economiche per pagare l’affitto di un appartamento, per questo motivo molti universitari si ritrovano a lavorare mentre durante gli studi.
L’80% degli studenti fuoricorso lo è perché mentre studia lavora: spesso i lavori “da universitario” sono impieghi pomeridiano-serali o che si svolgono nel weekend, occupando il tempo che si dovrebbe dedicare allo studio, andando quindi ad incidere sui voti e sulla sanità mentale della persona. Nonostante alcune università offrano l’opportunità di frequentare come studente part-time, spesso gli studenti-lavoratori non sono adeguatamente tutelati.
Un caso emblematico riguarda uno studente-lavoratore che cercava il riconoscimento del diritto a ottenere permessi straordinari e retribuiti per motivi di studio, oltre la durata prevista dal suo corso di studi. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso (sentenza n. 19610/2020), stabilendo che il diritto ai permessi studio debba limitarsi alla durata legale del corso di studi intrapreso. Non è stato riconosciuto il diritto agli ulteriori anni necessari al soggetto “fuoricorso” per conseguire il titolo di studio desiderato. (Fonte: Salvis Juribus)
Nell’immaginario collettivo, un bravo studente è spesso considerato colui il quale ottiene una media di voto superiore al 28, si laurea con il massimo dei voti (110 e lode) entro la durata prevista del corso. Ricordiamoci però un concetto fondamentale prima di giudicare: il contesto. Per capire l’effettivo rendimento di uno studente vanno presi in considerazione molteplici fattori che poco hanno a che vedere con la valutazione numerica.
Con l’auspicio che, confrontandosi con la dura realtà dei fatti e considerando anche il preoccupante aumento dei casi di suicidio, gli atenei possano assumere un ruolo proattivo iniziando a valutare con serietà i problemi e le necessità degli studenti-lavoratori.
Forse dopo 76 anni andrebbe attuata la Costituzione, no?
Dopo tutto questo catastrofismo realista, poiché si tratta di un problema estremamente tangibile, è tempo di proporre delle soluzioni alla politica, al mondo dell’istruzione e a quello del lavoro.
I rapporti etico-sociali e economici tra istruzione e lavoro non rappresentano soltanto la fondamenta del nostro Paese, ma costituiscono anche gli assi sui quali è necessario intervenire per agevolare un’educazione di qualità, in parallelo con un’occupazione concepita in modo dignitoso. Lavoro che dovrebbe avere come principio una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità dell’impegno profuso, in linea con quanto sancito dall’articolo 36 della nostra Costituzione.
Focalizziamoci sul treno dell’Istruzione, in particolar modo quella universitaria. Nel lontano 2018 l’ex Presidente del Senato e leader di Liberi e Uguali Pietro Grasso aveva proposto alle forze politiche di tagliare le tasse universitarie attraverso un investimento di 1,7 miliardi di euro. La proposta era stata fortemente contrastata da Carlo Calenda, favorevole invece ad una tassazione progressiva sui redditi degli studenti e delle studentesse universitarie.
Vanno stanziati maggiori fondi alle Regioni per permettere a tutti i vincitori di borsa di studio per meriti di poter usufruire istantaneamente dei soldi che sono vitali per gli studenti, senza ampliare quel limbo di tre parole che tutta la comunità studentesca ben conosce: idonei non beneficiari.
Le possibilità di agevolare lo studio per la futura classe dirigente del nostro paese ci sono, ma la politica fa orecchio da mercante: è consapevole che i giovani sono una fascia minoritaria della popolazione e che quindi non spostano voti come i numeri dei lavoratori over 40 e dei pensionati.
Se la politica volesse davvero contrastare la fuga dei cervelli, il fenomeno dei giovani NEET, e la natalità sempre di più in decrescita nel nostro Paese, è da qui che deve partire. L’Italia deve superare una visione basata sui bonus, e deve iniziare a ragionare su come i problemi si possano risolvere con una visione lungimirante, cosa che l’attuale governo e forze politiche di maggioranza non stanno dimostrando.
«Ed io pago», come direbbe Totò. Ci permettiamo di correggere: «e noi paghiamo, lavoriamo una schifezza e manco possiamo studiare».
Autori
Jonathan Piccinella
Autore
17 gennaio 2004 come data fatidica, e da quel momento sono immerso nei libri, nei paesaggi di Sezze e nelle canzoni di Kendrick Lamar. Napoletano di fede e di sangue, ricomincio pure io da tre cose: ascoltare, guardare e parlare, o su questa pagina, scrivere.