11 dicembre 1969: quando l’accesso all’Università fu liberalizzato

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Negli anni precedenti al fatidico ’68, l’Università aveva una connotazione certamente classista: l’accesso alle varie facoltà era, infatti, condizionato dal percorso delle scuole superiori. Più precisamente, molte facoltà erano accessibili solo a chi aveva frequentato il liceo. Ad esempio, chi aveva fatto il classico poteva accedere a tutte le facoltà, il liceo scientifico permetteva di iscriversi a tutti i corsi di laurea, ad eccezione di Lettere e filosofia, e chi aveva frequentato le Magistrali poteva accedere solo alla facoltà di Magistero.

Il processo di massificazione che investì l’Italia alla fine degli anni ’50, però, non risparmiò nessun settore della società e, di conseguenza, anche l’Università dovette prendere atto dei cambiamenti in corso. Il processo non fu lineare e privo di contrasti: sono questi gli anni, infatti, della grande contestazione studentesca, dell’Università vista come luogo di elaborazione ideologica, animata da una generazione di ragazzi convinti di vivere nell’imminenza di una rivoluzione.

Se il ’68 costituisce, dunque, un anno di rottura nella storia della nostra Repubblica, anche l’anno seguente non fu da meno. Il ’69 rappresenta, infatti, l’anno in cui l’accesso alle varie facoltà fu liberalizzato, grazie alla legge n.910 dell’11 dicembre del 1969, detta la “Codignola”, che portava le firme di Rumor, Ferrari Aggradi e Colombo. Ma il ’69 va ricordato anche perché fu l’anno dell’Autunno Caldo e di quel tragico 12 dicembre in cui esplose la bomba di Piazza Fontana.

Il ’69 porta con sé anche le immagini di operai in rivolta. Inizia l’Autunno caldo, quel difficile percorso che portò alla firma dello Statuto dei lavoratori

Il contesto

La riforma universitaria cade, dunque, in un momento in cui gli atenei erano i luoghi più caldi d’Italia. Nel ’69 la protesta studentesca era ancora viva, anche se vanno fatte delle dovute precisazioni rispetto alle prime fasi della rivolta. In questo nuovo scenario ciò che cambia è sicuramente il livello di tensione dello scontro: l’ultimo giorno del ’68, il 31 dicembre, davanti al famoso locale La Bussola di Viareggio, una manifestazione di Potere Operaio culmina con il triste episodio di Soriano Ceccanti, allora diciassettenne, rimasto paralizzato a causa di un colpo di pistola esploso dalla polizia.

L’inizio del ’69 coincide poi con una fitta ripresa della protesta studentesca contro la legge Sullo, ma la tensione cresce ancor di più quando a febbraio Nixon fece la sua storica visita a Roma: questo comportò un innalzamento ulteriore del clima di agitazione, culminato con la morte dello studente Domenico Congedo, che precipitò nel tentativo di fuggire dalla facoltà di Magistero assediata.

Il ’69 sancisce, quindi, un cambiamento di rotta della protesta. Molte delle storiche esperienze che avevano acceso la miccia del ’68, iniziarono a sciogliersi. Terminavano, ad esempio, le esperienze di Trento e Torino, mentre a Milano un’inchiesta dimostrò che sia alla Cattolica che in altri atenei ci si impegnava in fabbriche o in comitati di quartiere, e in molti aderivano ai gruppi di sinistra extraparlamentare.

Dunque, un movimento studentesco che non finisce, ma cambia pelle e si appresta ad uscire dalle Università, per legarsi col movimento operaio e per trasformare la società, accentuando ora i caratteri della propria militanza.

Quali furono gli effetti di questa legge?

Va comunque detto che il numero di studenti universitari aumentò enormemente già a partire dagli anni ’60, in pieno boom economico, quando si arrivò circa a 550 mila iscritti (si pensi che, intorno al 1950, si contavano poco più di 20 mila matricole!). Ora l’ulteriore liberalizzazione degli accessi (si legga il testo ufficiale della legge: […] possono iscriversi a qualsiasi corso di laurea: a) i diplomati degli istituti di istruzione secondaria di secondo grado di durata quinquennale […]), ha un effetto non completamente positivo: la selezione degli studenti diventava assolutamente più serrata all’interno della facoltà; fatto che, di conseguenza, aumentò in modo consistente il numero di fuoricorso e di studenti che abbandonavano il percorso.

L’Università rimase quindi ancora un ambiente estremamente selettivo a livello sociale, prima che intellettuale: Luciano Guerzoni, accademico e deputato comunista, ricorda che «chi si laurea, al solito, viene da famiglie di ceto medio-alto. Oggi come allora, i figli di benestanti sono quattro volte quelli di lavoratori dipendenti».

La semplice misura di liberalizzare l’accesso non poteva portare, nell’immediato, un beneficio reale o un cambiamento sensibile. Ben diverso invece fu il caso francese, dove il ministro gollista Faure propose una vera e propria riforma di tutto il sistema universitario: unì all’innovazione didattica la concessione di spazi di autonomia agli atenei, prevedendo anche una più consistente rappresentanza studentesca.

Abbiamo visto che l’Università era diventata un fenomeno di massa, già prima di questa legge. Restava però da sciogliere un nodo, ovvero abbattere quel muro tra studente (di qualsiasi provenienza scolastica o sociale) e il docente barone. Massificazione sì, constatato che questa fosse inevitabile, ma classista no. Questo era il punto cruciale.

E la liberalizzazione di tutte le facoltà, senza una completa riforma universitaria, non poteva bastare.

Le irriverenti scritte sui muri tipiche di quegli anni

Autore

Francesco, laureato in Lettere, attualmente studio scienze dell'informazione, della comunicazione e dell'editoria. Approfitto di questo spazio per parlare di politica e di dinamiche sociali. Qual è la cosa più difficile da fare quando si collabora con un magazine? Scrivere la bio.

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