Il trionfo della Nazionale italiana agli Europei non è una vittoria isolata, né casuale. È il frutto di un percorso partito dalla cocente delusione per la mancata qualificazione ai mondiali in Russia, un percorso lineare, sorprendentemente pulito e senza intoppi, che ha visto crescere e maturare una squadra sempre più consapevole dei suoi mezzi e vogliosa di dimostrare il suo valore. Ma nulla nasce dal nulla, soprattutto se si parte svantaggiati. Quali sono state le chiavi del successo azzurro?
La vittoria del gruppo, ossia della conoscenza reciproca
L’Italia si presentava a questo Europeo come una buona squadra, senza, tuttavia, campioni da mettere in vetrina, top players da prima pagina. Non aveva il potenziale offensivo delle nazionali favorite, annoverando svariati giocatori con poca esperienza internazionale, appartenenti a club poco blasonati. Senza campioni e fuoriclasse, specie nel reparto offensivo, la Nazionale si è affidata alla proverbiale forza del gruppo.
Ma cosa determina, in fin dei conti, il gruppo? Se ne parla spesso come l’arma in più di questa Nazionale, ma il discorso è gonfio di retorica, poco approfondito e tarato sul livello emozionale: lo spirito di squadra, l’alchimia, l’entusiasmo. Tutto vero e tutto riscontrabile in qualsiasi nazionale di qualsiasi sport. Cosa ha di speciale il gruppo di staff e giocatori che ha conquistato l’Europeo, cosa lo distingue dalle altre squadre? La conoscenza. Essere gruppo significa conoscersi a vicenda, sul piano umano e calcistico. Conoscere le caratteristiche dei compagni, i pregi e i difetti. Il compito più difficile in una nazionale è costruire la conoscenza gli uni degli altri, creare l’abitudine a giocare insieme. Il termine “abitudine” indica in Dante la reciproca disposizione tra due o più parti o quantità: la complementarità fra più elementi, l’incastro delle tessere di un puzzle.
L’abitudine, ossia la conoscenza reciproca fra giocatori, si crea con il tempo, in decine di allenamenti e partite nel corso di una o più stagioni. In nazionale il tempo non c’è: qualche raduno, le partite delle qualificazioni e poco altro. Non a caso, sono pochissime le nazionali nella storia che hanno lasciato un segno sul piano del gioco, perché non ci sono i modi e i tempi per costruire un’identità riconoscibile. Più comodo affidarsi ai singoli, ai campioni, ai giocatori in grado di incidere; sono loro, solitamente, a decidere le competizioni internazionali. Roberto Mancini è riuscito in questa piccola impresa: non avendo in rosa i campioni, ha capito sin da subito di doversi affidare al gruppo, al gioco, alla conoscenza. Lo ha fatto nel minor tempo possibile e con ottimi risultati: questo è il suo merito più grande.
I professori della difesa e il maestro del centrocampo
Tutti sono utili, nessuno è indispensabile. No, alcuni giocatori sono indispensabili. Una squadra di calcio, schierata in campo, dovrebbe sempre formare dei triangoli fra i giocatori, per garantire le giuste coperture e diverse soluzioni di gioco. Il triangolo formato da Bonucchi, Chiellini e Jorginho è stato il segreto, tecnico e carismatico, dell’Italia a Euro 2020.Bonucci e Chiellini dovrebbero tenere un corso universitario ad Harvard per come difendono. Sono fantastici, assolutamente fantastici.
La dichiarazione, che sottolinea la caratura della coppia di difensori italiani, appartiene a Josè Mourinho, rilasciata nel 2018 dopo la vittoria della Juventus sul Manchester United in Champions League. La frase è emblematica ed incornicia alla perfezione la carriera di una coppia che, nonostante l’età, ancora fa la differenza.
Meglio di chiunque altro, hanno espresso il concetto di alchimia, giocando legati da un filo invisibile che coordinava i loro movimenti. Hanno dominato mentalmente l’Europeo in cui le difese si sono esaltate e gli attacchi hanno deluso, l’Europeo che ha visto un portiere vincere meritatamente il premio di Player of the Tournament, mentre i fenomeni offensivi di Francia, Germania, Portogallo offrivano sbiadite prestazioni. Bonucci e Chiellini, anche in un anno non positivo con la maglia della Juventus, sono stati l’anima della squadra, costituendone la spina dorsale insieme ad un altro protagonista assoluto della competizione, il perno del centrocampo azzurro.
Il signor Jorge Luiz Frello Filho, conosciuto al mondo come Jorginho, è uno dei centrocampisti più forti del mondo. Il mondo se ne è accorto dopo il rigore decisivo contro la Spagna, qualcuno dopo la finale di Champions vinta con il suo Chelsea contro il Manchester City, pochi lo sanno da sempre. «È un giocatore raffinato, probabilmente non capibile da tutti. Devi mettergli gli occhi addosso e guardare solo lui in partita. È tanto bravo e intelligente che fa sembrare tutto facile, raramente ti rimane negli occhi qualcosa di spettacolare. Questa è la sua grandezza». Queste parole di Maurzio Sarri, rilasciate in un’intervista a Sportitalia pochi giorni fa, sono un ritratto perfetto del giocatore e aiutano a capire perché sia sempre stato sottovalutato.
Jorginho possiede molte caratteristiche dell’anti-calciatore moderno, ossia un calciatore non spendibile mediaticamente: è esile fisicamente e senza tatuaggi (almeno visibili). Non solo, non ha un gran tiro, né un gran lancio lungo, dunque tendenzialmente non piace ai ragazzi (e ai giornalisti), non è il giocatore di cui si innamorano. Fortunatamente, nel calcio conta altro: l’intelligenza, sapere cosa fare del pallone ancor prima che arrivi; dopodichè, farlo con la massima semplicità possibile. In questo, Jorginho, al pari di giocatori come Busquets, è un maestro. Lo stesso in fase difensiva: prevedere le idee dell’avversario, coprire le linee di passaggio, indirizzare il gioco e rallentare il ritmo dell’azione. Un tipo di gioco oscuro, che non salta all’occhio, ma indispensabile. In un orologio tutti guardano la lancetta delle ore e dei minuti, nessuno si sofferma su quella dei secondi: ma questa fa muovere le altre due.
I due momenti chiave dell’Europeo azzurro
Si è detto della bravura di Mancini, specie sul piano gestionale. Ma un allenatore si misura attraverso le scelte che compie e, di conseguenza, i risultati. Due sono state le scelte cruciali, con le quali Mancini ha dimostrato di essere un ottimo allenatore, contribuendo in modo decisivo alla vittoria finale.
La prima scelta è indice di intelligenza e maturità. Molti allenatori hanno il difetto di non riconoscere i propri errori e non porvi rimedio. Obiettivamente, un giocatore come Federico Chiesa non poteva non far parte dell’undici titolare. Mancini lo ha capito nel primo tempo supplementare di Italia-Austria, ha riconosciuto il suo errore e da quel momento lo ha sempre schierato dall’inizio. Ed è stato ripagato.
La seconda scelta è di natura tattica. Minuto ’54 della finale contro l’Inghilterra. Mancini inserisce Cristante al posto di Barella e Berardi al posto di Immobile. L’attacco italiano fino a quel momento ha faticato: Mcguire e Stones hanno oscurato Immobile, si è reso insidioso solo Chiesa con qualche accelerata improvvisa. Dunque, rivoluzione nel reparto offensivo: fuori il centravanti di ruolo e attacco “leggero”, con Cristante mezz’ala, a cui viene affidato un compito ben preciso: inserirsi in area nello spazio lasciato libero dalle punte. Il numero 16 è l’unico a poter impensierire sul piano fisico i due centrali inglesi ed è molto abile sulle palle aeree. La partita cambia, l’Italia inzia a spingere con più qualità e convinzione, crea qualche potenziale occasione, fino al pareggio di Bonucci, su cui Cristante è decisivo prolungando la palla sul primo palo.
La vittoria all’Europeo come buon auspicio per le Olimpiadi
I meriti del trionfo a Wembley vanno, in primis, alla squadra, a chi l’ha costruita e plasmata. Ma anche il CT è stato decisivo, in maniera per nulla scontata. È giusto rendere merito anche alla Federazione, che ha creduto nel progetto, dando carta bianca a Roberto Mancini e al suo staff. Analizzata da questa angolatura, la vittoria azzurra all’Europeo rientra in uno scenario più ampio, che vede lo sport italiano in un momento di grazia: la finale di Berrettini a Wimbledon, l’Europeo di softball femminile, la qualificazione alle Olimpiadi dell’italbasket maschile, che mancava da 17 anni. Un movimento e un’azienda, lo sport, che sembra stia vivendo una fioritura nuova, all’insegna della gioventù, del talento e della competenza. E ora arrivano le Olimpiadi.
Autore
Nasco a Roma nel 1997. Formatomi sui precetti morali del Re Leone, mi laureo in lettere e divento giornalista pubblicista. Appassionato di sport e storie di sport, nella vita faccio il centrocampista. Amo il mare e detesto il sensazionalismo quasi più degli anfibi.