L’arte che racconta ciò che la storia dovrebbe insegnare

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La guerra esiste da sempre, ma di recente si è tornato a parlarne a voce alta, eclissando addirittura l’ormai ex nemico pubblico numero uno: il Covid. Molti sono rimasti sorpresi e altrettanti si chiedono come e quando finirà questa storia. Difficile trovare delle risposte;  facile, invece, prevedere che le vittime non saranno solo i deceduti ma anche i numerosi sfollati, i profughi, le famiglie in lutto.

Christian Boltanski, Les archives du coeur

Esistono, infatti, degli spazi siderali nei quali la guerra agisce e che in passato sono stati la scintilla del genio di due artisti, nati a ridosso del secondo conflitto mondiale. Ciò che ricevettero in eredità furono macerie, povertà, sofferenza, incertezza e morte: le prospettive per il popolo Ucraino non sono troppo diverse. Per questi due artisti contemporanei il passato di cui prendere immediatamente coscienza fu quello dell’Olocausto, che divenne il tema principale del progetto artistico di entrambi.  

Anselm Kiefer: come riattivare la memoria di avvenimenti tragici

Nato in Germania pochi mesi prima il termine della Guerra, Anselm Kiefer abbandona presto gli studi di legge per dedicarsi alla pittura, ma la vera e propria svolta avviene alla soglia degli anni ’60, quando diventa allievo dell’artista Joseph Beuys presso l’Accademia di Düsseldorf: sarà proprio lui a spingere il giovane Kiefer ad indagare gli aspetti tragici della storia e della cultura tedesca, in particolare quella del periodo nazista.

Anselm Kiefer, settembre 2019

Ecco, dunque, che, proprio in quegli anni, Kiefer realizza il suo primo progetto artistico incentrato sull’iconografia nazionalsocialista, Bestezungen (1969), una serie di fotografie in cui l’artista si ritrae vestito con l’uniforme dell’esercito del padre, mentre simula il saluto nazista di fronte a monumenti ed edifici del regime. Un punto di non ritorno, che scatenerà l’indignazione della critica tedesca che lo additerà come apologetico. La sua intenzione in realtà era di riattivare in modo intenzionalmente traumatico la memoria di avvenimenti tragici, che un gran numero di tedeschi avevano rimosso perchè lacerati dal senso di colpa.

Da quel momento, tramite icone e segni, punta ad accedere ai luoghi più inospitali della memoria, opere in cui inserisce elementi evocativi quali serpenti e ali, ma anche richiami alla Genesi come la «scala verso il cielo». Successivamente, Kiefer decide di dare fisicità al simbolo e renderlo così più tangibile ed efficace. Con questa scelta riconosce la forza dell’esserci al mondo ed inizia a raccogliere impronte dell’esistenza umana, prove che costituiscono una memoria oggettuale. È il caso di opere fortemente evocative quale è Lilith (1996), una tela sulla quale l’artista poggia una tunica bianca. Le fa da sfondo un cielo grigio nel quale avviene un conflitto aereo. L’elemento reliquiale completa e rafforza il simbolo e chiude il processo di affermazione estetica. 

Christian Boltanski: trovare un punto di congiunzione fra memoria individuale e memoria collettiva

Tra il 2010 e il 2011, Kiefer ha occupato la cattedra di Creazione artistica al Collège de France di Parigi. Tra i tanti spunti di riflessione indicati nelle sue lezioni troviamo, non a caso, Christian Boltanski. Dell’artista, in particolare, si prende in analisi The Missing House, un’opera realizzata nel 1990: un meta-spazio prodotto dal bombardamento del 1945 in mezzo ad una schiera di case in una via di Berlino Est. Questo spazio vuoto corrisponde esattamente a quello che occupava la palazzina distrutta. I due muri che prima erano in comune con le case vicine sono diventati muri esterni, ed è proprio su quelle pareti che l’artista ha affisso delle targhe con nomi e date, a testimoniare gli uomini e le donne che abitavano il palazzo. Non è specificato se fossero ebrei o meno, se siano morti durante il conflitto mondiale o se invece siano sopravvissuti. Sono uomini e donne unici, come lo sono i loro nomi. Materialmente parlando, si tratta di restituire un senso ad un contesto abbandonato e di riattivare una memoria, proprio come era solito fare il collega tedesco.

Figlio di padre ebreo e madre cattolica, Christian Boltanski nasce in Francia nel 1944, passando i primi mesi di vita rinchiuso con la sua famiglia in uno scantinato per sfuggire alla tirannia del nazismo. Senza una regolare scolarizzazione e senza aver ricevuto una tradizionale formazione artistica, inizia a dipingere in adolescenza immagini che sembrano riaffiorare da una memoria infantile, un passato doloroso fino ad allora sepolto. Dal 1967 si allontana dalla pittura per sperimentare altre modalità espressive: usa fotocopie che mescola con documenti originali o con fotografie che prende dagli album di famiglia. Attraverso questi nuovi materiali, integra nel suo lavoro elementi del suo universo personale, al punto che la sua biografia diventa uno dei suoi temi principali. È così che la sua vita e il suo lavoro si fondono, nel senso che il lavoro è l’invenzione di una biografia distorta e presentato come tale. Lo scopo della sua produzione artistica è quello di trovare un punto di congiunzione fra memoria individuale e memoria collettiva, poiché mentre la memoria storica viene restituita alle generazioni a venire, quello che va sempre distrutto è la memoria dei singoli individui: si propone, anche con dei progetti esageratamente universali, di restituire la somma delle piccole memorie, di persone anche anonime.

Ritratto di Christian Boltanski alla retrospettiva Faire son temps, 2020 © Hervé Veronese, Centre Pompidou

Esempio perfetto di questa visione utopica è uno dei suoi ultimi progetti, Les archives du coeur, aperto al pubblico nel 2010. Il suo obiettivo è quello di riunire in un unico luogo le registrazioni sonore dei battiti del cuore dell’umanità.

I visitatori delle mostre a cui partecipa vengono invitati a contribuire alla realizzazione di questo grande progetto, registrando i battiti del proprio cuore all’interno di uno spazio preposto per questo, per farne dono all’artista. In questo modo si ottiene il suono di un cuore pulsante, simbolo di vita per opporsi al trascorrere del tempo e all’oblio. L’idea è quella di archiviare il mondo.  

Autore

Michela Cipolla

Michela Cipolla

Autrice

Quando non sono in giro per mercatini dell’usato a comprare giacche eccentriche a due euro, mi trovi a casa a scrivere perché non so fare altro. Scherzo dai, so anche bere 4 gin tonic senza collassare sui divanetti. Non sempre almeno.

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