Anche gli eroi piangono: gli atleti scardinano il tabù della salute mentale

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This depression get the best of me

Era il 17 Febbraio del 2018 quando DeMar DeRozan, stella della pallacanestro americana, scagliò questo fulmine a ciel sereno attraverso il suo account Twitter. Nelle interviste successive DeMar si aprì con esemplare serenità al racconto delle sue fragilità e di un ritrovato equilibrio interiore, raggiunto grazie al percorso terapeutico. Non appariva né un uomo sconfitto, né imbarazzato, in perfetta antitesi con l’immaginario pietoso e isterico con cui il pensare comune ama ritrarre il disagio umano. La sua lucida confessione aprì un varco in quel velo mistificatorio che sottopone atleti e atlete al peso di una perfezione malsana, imprigionandoli nell’ingiusto stereotipo di “super-umani” ai quali non può essere concesso il “lusso” di perdere il controllo.

intervista di ESPN in cui DeRozan parla per la prima volta di salute mentale e della sua esperienza

Come la prima tessera di un domino, il passo di DeRozan diede la forza a tanti altri di uscire allo scoperto. Pochi mesi dopo un altro giocatore della National Basketball Association, l’allora trentenne Kevin Love, confessò in una commovente lettera, pubblicata sulla rivista The Players’ Tribune, di aver combattuto, solo un anno prima, contro attacchi di panico e crisi depressive. La lettera si apriva così:

Il 5 novembre, subito dopo l’intervallo contro gli Hawks, ho avuto un attacco di panico. È venuto fuori dal nulla. Non ne avevo mai avuto uno prima. Non sapevo nemmeno se fossero reali. Ma era reale, reale come una mano rotta o una distorsione alla caviglia. Da quel giorno, quasi tutto nel modo in cui penso alla mia salute mentale è cambiato.

Kevin Love nel 2018. (foto dal sito di The Players’ Tribune)

Per Love quella mano invisibile che premeva sul suo petto fu il trauma necessario a comprendere che qualcosa nel suo modo di (non) gestire le emozioni doveva cambiare per sempre. Una delle ammissioni più importanti del giocatore riguarda la genuina quanto nociva difficoltà del mondo maschile a rapportarsi con la propria interiorità.

Crescendo, capisci molto velocemente come dovrebbe comportarsi un ragazzo. Impari cosa serve per essere un uomo. È come un copione: sii forte. Non parlare dei tuoi sentimenti. Superalo da solo.

Love non ci dice nulla di nuovo rispetto a quello su cui già negli anni 80’ ironizzavano amaramente i The Cure nel singolo Boys don’t cry: la retorica machista del 20esimo secolo non permette agli uomini di vivere in modo sano le proprie emozioni. Non piangere, non essere fragile e se devi esserlo fai in modo che nessuno lo sappia: un’incudine oscilla lenta e inesorabile sopra la testa di ogni uomo e mostra incisa a caratteri cubitali la parola “DEBOLE”.

Ma da quando non essere deboli ha assunto questo significato? Da quando essere uomini si è tradotto nel dover reprimere le proprie emozioni?

Il modello occidentale dell’eroe, così come quello della mascolinità, devono molto alla mitologia greca. Chiunque dalla sua infanzia e adolescenza ricorda le gesta degli eroi omerici: Il Pelide Achille, tanto forte da far tremare i propri avversari o il troiano Ettore, guerriero valoroso, padre, marito e fratello esemplare. Eppure ciascuno di loro è dettagliatamente descritto da Omero nel suo aspetto più fragile: il momento del pianto, del terrore, della follia. Questi aspetti non appaiono mai in contrasto con la dimensione valorosa dell’eroe, ma ne sono parte integrante, perché nella visione omerica la fragilità nobilita
l’uomo e ne esalta ancor di più la forza d’animo. Achille abbraccia addirittura Priamo, suo nemico, piangendo con lui i cari persi in guerra. Ed il valoroso Ettore trema per un’intera notte tra le braccia di sua moglie, prima di affrontare il suo ultimo duello.

Se questi erano i modelli maschili per eccellenza, perché mai un ragazzo ad oggi, dovrebbe sopportare lo stigma della vergogna e della debolezza ogni qualvolta avvertisse la necessità di aprirsi e mostrare le proprie inquietudini? Quando la vera potenza starebbe proprio nell’accettare la nostra natura cagionevole. Accettare di essere dei sistemi caotici, sensibili e fragili libererebbe gli uomini (e per diretta conseguenza anche le donne) da un falso mito che da troppo attanaglia le nostre relazioni sociali ed interpersonali.

In quest’ottica, l’esempio di uomini dotati di visibilità globale, come DeMar DeRozan, Kevin Love, Michael Phelps (che ha confessato recentemente di essersi salvato grazie alla terapia) è quanto mai fondamentale se si vuole innescare un’epidemia di onestà che sgretoli quel monumento al machismo vecchio e fatiscente, ridando agli uomini il reale potere: quello di essere se stessi e poter chiedere aiuto.

Simone Biles. Olimpiadi di Tokyo 2020. (foto della CNN)

Mi sento davvero come se avessi il peso del mondo sulle spalle. So che lo spazzo via e faccio sembrare come se la pressione non mi influenzasse, ma dannazione a volte è difficile.

Sono queste le prime parole pronunciate nel 2020 dalla ginnasta statunitense Simone Biles, dopo essersi ritirata dalla finale olimpica di Tokyo a causa di un disagio mentale da stress. Uno sfogo che racchiude la frustrazione di un’intera categoria professionale.

Gli atleti sono da sempre degli incubatori di valori sociali, simboli su cui proiettare i sogni e le aspirazioni più recondite dell’uomo comune. In una società occidentale ossessionata dall’immaginario di perfezione, basata sulla competizione e l’individualismo, gli atleti si sono sobbarcati la responsabilità di reprimere tutto ciò che fosse incompatibile con questo schema.

Finché Biles, DeRozan, Phelps, Love, Naomi Osaka e tanti altri non hanno deciso di abbandonare la maschera e ricordare al mondo che per essere eroi non bisogna cessare di essere umani. Parlando pubblicamente della loro esperienza hanno contribuito a sdoganare uno dei tabù più pressanti dei nostri tempi, quello della salute mentale.

My depression and my anxiety is never going to just disappear. I’m never going to be able to snap my fingers and say “Go away. Leave me alone”. It makes me. It is a part of me. It’s always going to be a part of me.

Michael Phelps

La nascita di questo nuovo modello di atleta, che basa la propria forza e il proprio messaggio sull’accettazione dell’imperfezione, non è un’anomalia casuale, ma la proiezione di un bisogno delle nuove generazioni. Spieghiamo meglio il motivo.

Michael Phelps, fotografato da Lee Seidenberg per Talkspace

Secondo l’ultimo rapporto dell’Unicef, in Europa oltre 9 milioni di adolescenti tra i 10 e i 19 anni convivono con disturbi legati alla salute mentale, ansia e depressione in oltre la metà dei casi. In Italia, i dati Istat del 2021 confermano che dal 2019 la percentuale di giovani insoddisfatti dalla vita e con un basso punteggio di salute mentale è raddoppiato.

Demoralizzati, alienati, nervosi, spaventati, eccoci qua. La beata gioventù, quella spensierata, a tratti frivola che ricordano i nostri genitori, sembra oggi un lontano reperto vintage, perso tra vecchie canzoni, filmati su pellicola e libri da viaggio.

Sicuramente la pandemia ha avuto un impatto devastante sulla salute mentale, ma non gli è imputabile il ruolo di unico carnefice. Sono anni che è in atto un processo di disillusione dei più giovani. La trama a lieto fine inaugurata dal secondo boom economico, basata su lavoro, famiglia e benessere, è arrivata inesorabilmente ai titoli di coda. Il mondo appare come una matassa sempre più confusa di valori e problematiche indistricabili.

Crisi finanziaria, crisi climatica, crisi dell’individualismo occidentale, tra pochi anni “crisi” sarà la prima parola pronunciata da ogni bebè, sempre che i telefoni non ci rendano sterili prima. Intanto l’avanzata dei social ha portato la distanza tra realtà e apparenza ad assottigliarsi fino a scomparire, provocando in noi uno smarrimento nuovo, che nessun nostro predecessore ha mai testato.

Che la salute generale risenta di tutto questo è un fatto logico e non un “vittimismo di massa”. Il lato positivo è che crollata la recita del progresso inarrestabile e della società felice e perfetta per natura, crolla anche l’equazione che vedeva l’infelicità come un fallimento, e il fallimento come un marchio a vita.

I giovani in primis sentono sempre meno la necessità di disprezzare le proprie debolezze e nascondere i propri disagi. Gli atleti intanto, fanno quello che hanno sempre fatto: adattarsi all’evolvere del mondo. E sembrano ogni giorno più consapevoli del passo evolutivo da compiere, da simbolo dell’utopia di perfezione del 20esimo secolo, ad avanguardia della rivoluzione contro uno dei suoi più temibili prodotti: la repressione emotiva.

Autore

Luigi Briante

Luigi Briante

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Sono un inguaribile logorroico, nemico giurato del dono della sintesi, ma stiamo scendendo a patti per il bene dei lettori e di chi mi incontra nei pub. Drink preferiti: gin tonic e latte e menta, entrambi rigorosamente con ghiaccio. Professionista da cui traggo ispirazione? Geronimo Stilton. Animale guida: Martin Scorsese.

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