A scuola impariamo tutto sulla Mesopotamia ma di DCA non parliamo mai: ne discutiamo con Animenta e FoodNet

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Si stima che oltre 300 mila minori italiani soffrono di disturbi legati a cibo, identità, peso e immagine corporea: il 30% ha meno di 14 anni. Secondo un’analisi condotta dal Consorzio interuniversitario CINECA, si assiste a un aumento del fenomeno di circa il 40% rispetto al 2019. 

Prevenire i Disturbi del Comportamento Alimentare partendo dai banchi di scuola significa abbracciare un concetto di formazione e crescita che prevede anche il benessere fisico e psicologico. 

Abbiamo intervistato Laura Montanari – vicepresidentessa di Animenta, psicologa clinica e counselor – e Deborah Colson – psicologa e psicoterapeuta, fondatrice e responsabile del Progetto FoodNet – tra le autrici delle linee guida che hanno visto anche la collaborazione dello psicologo e operatore di FoodNet Andrea Bonfiglio. 

Le vostre aree di intervento sono differenti ed entrano in contatto con realtà e persone tanto lontane tra loro quanto accomunate dalla medesima causa: cosa vi ha portato a unire i vostri intenti proprio nell’ambiente scolastico?

Laura Montanari: «L’ambiente scolastico è uno dei poli dell’educazione, da intendersi in senso strettamente etimologico come il “trarre fuori ciò che sta dentro”. Quando svolgiamo le nostre attività in aula il nostro obiettivo è sicuramente accrescere la conoscenza delle persone su questo tema; allo stesso tempo è per noi fondamentale creare un legame, un’alleanza di lavoro, con la platea che ci ascolta affinché studenti e studentesse possano costruire una maggiore consapevolezza – “tirando fuori”, per l’appunto, le loro visioni e considerazioni – e, in generale, delle competenze emotivo-relazionali fondamentali non solo nell’ambito dei DCA, ma anche nell’ottica della promozione della salute fisica, mentale e sociale».

Deborah Colson: «L’ambiente scolastico, nella società odierna, rappresenta uno dei pochi contesti in grado di raggiungere capillarmente le nuove generazioni, dai bambini agli adolescenti e giovani adulti. Questo lo rende un luogo privilegiato per promuovere la prevenzione in tema di salute mentale. Benché si osservi un’allarmante anticipazione dell’età d’esordio dei Disturbi del Comportamento Alimentare, nella fattispecie, rivolgersi alle generazioni più giovani – vale a dire in età evolutiva – permette di intervenire preventivamente, ancor prima che eventuali vulnerabilità possano tradursi in autentiche patologie dell’alimentazione. Nonostante FoodNet e Animenta abbiano origini diverse – FoodNet è composto da specialisti della salute mentale, mentre Animenta nasce dall’esperienza condivisa di ex pazienti – la nostra collaborazione è nata dalla volontà di unire queste competenze complementari per stilare una raccolta di buone pratiche sulla prevenzione dei DCA in grado sia di fare riferimento alla letteratura internazionale di settore, sia di dare indicazioni concrete, semplici e soprattutto efficaci. Il nostro obiettivo comune è, pertanto, prevenire l’insorgenza dei Disturbi del Comportamento Alimentare e contrastare i drammatici dati che mostrano un costante aggravamento della situazione».

Avete già alle spalle esperienze dirette nelle scuole sia attraverso l’esperienza delle vostre professioni sia per fini divulgativi: che percezione si ha nel contesto scolastico dei Disturbi del Comportamento Alimentare e vengono visti come un’emergenza?

L. M. «Sulla base della nostra esperienza, la percezione che il contesto scolastico ha sul tema dei DCA è variegata. Ci siamo relazionati con varie situazioni in cui spesso l’emergenza, o comunque la necessità di parlarne, proveniva dagli studenti e dalle studentesse che fortemente hanno voluto moduli di approfondimento sul tema in contesti come le assemblee di istituto, le giornate dello studente o le attività intra ed extra-scolastiche. Allo stesso tempo, molti docenti si sono resi protagonisti della divulgazione creando spazi ad hoc o scegliendo di dedicare alla prevenzione delle ore deputate alla classica didattica. In generale, il bisogno di approfondire è forte e proviene sia da studenti e studentesse che da docenti e, talvolta, famiglie. È tuttavia presente anche un timore di parlarne per cui a volte il silenzio sembra essere la soluzione. Si teme di comunicare in modo inadeguato, di non saper veicolare al meglio il messaggio che si vuole trasferire o di incrinare situazioni già in partenza delicate. Le linee guida in tal senso sono una risorsa preziosissima in quanto accompagnano docenti, formatori e professionisti in una divulgazione precisa e consapevole».

D. C. «Durante le nostre esperienze abbiamo riscontrato un genuino interesse e una seria preoccupazione riguardo ai Disturbi del Comportamento Alimentare, soprattutto da parte dei docenti. Spesso ci è stato segnalato dagli insegnanti il bisogno di un’attenzione specifica su questi temi in molteplici classi dalle differenti età. Tuttavia, è emersa anche la consapevolezza di una mancanza di formazione adeguata per intervenire efficacemente. Per questo motivo, i docenti chiedono spesso di attivare percorsi di prevenzione nelle loro classi o di ricevere una formazione adeguata per poter rispondere ai bisogni dei loro studenti. Sul fronte familiare, invece, passa spesso in sordina il substrato emotivo fondante l’alimentazione, nonostante – per molte famiglie – il momento dei pasti sia tra i pochi a vedere coinvolti i vari membri in relazione. I nostri interventi si pongono come obiettivo anche quello di aiutare a riattivare uno spazio di condivisione all’interno della famiglia, favorendo la comunicazione su eventuali difficoltà o preoccupazioni, oltre che stimolare la sensibilità circa l’emotività correlata alla nutrizione».

Come occhi esterni ma professionisti, come vedete cambiare la percezione del corpo proprio e altrui nelle diverse generazioni?

L. M. «Il tema del corpo ha da sempre avuto una centralità significativa nella vita delle persone, a vari livelli e con varie intensità. Ad oggi, quello che osserviamo con i nostri occhi e che emerge anche dai lavori che svolgiamo in classe è un’amplificazione di questo aspetto con un particolare focus sul corpo visto attraverso la lente dell’estetica. Sembra che il corpo rientrante in determinati standard introiettati ben precisi sia l’unico, o comunque prevalente, metro di valutazione della propria persona, della propria autostima e del proprio valore. Nei ragionamenti e dibattiti che spesso svolgiamo in aula sembra esserci una causalità diretta secondo la quale se si rientra in un determinato tipo di corpo si è automaticamente felici, soddisfatti, realizzati e meritevoli. Quante volte, tuttavia, anche coloro che rispecchiano questo standard estetico provano insoddisfazione? Quante volte sembra non essere mai abbastanza? Quanto è riduttivo sentirsi definiti o definirsi solo per la propria corporeità? Siamo solo corpo? Queste e tante altre domande sono frutto della riflessione su questo tema che necessita di un continuo e costante approfondimento in tutte le fasce di età e, soprattutto, in quella pre-adolescenziale e adolescenziale».

D. C. «La cultura dell’immagine ha sicuramente amplificato l’attenzione sul corpo, soprattutto durante l’adolescenza, una fase della vita già di per sé caratterizzata da un’attenzione più marcata verso l’aspetto fisico. Tuttavia, non ci sono studi che dimostrino la presenza di una correlazione diretta tra la differente percezione del corpo tra le generazioni e l’incidenza dei Disturbi del Comportamento Alimentare. Ciononostante, riteniamo che ci sia un bisogno crescente di creare spazi di riflessione più ampi sul tema, soprattutto alla luce delle influenze moderne, come i social media, che possono distorcere la percezione del corpo. Questi spazi permetterebbero di affrontare la questione in modo critico e di supportare lo sviluppo di un’immagine corporea più equilibrata e consapevole».

A scuola si insegnano materie come scienze motorie, scienze e storia dell’arte. Ognuna a proprio modo pone al centro i corpi. Se la prima prevede la loro diretta esposizione, la seconda si ritrova spesso a trattare di metabolismo, composizione del cibo, peso e indice di massa corporea indipendentemente dalla sensibilità del suo pubblico, il corpo studentesco. L’ultima, invece, ne analizza evoluzioni e affermazioni nelle diverse epoche storiche. È pensabile ma anche auspicabile un nuovo approccio a tali insegnamenti?

L. M. «Un nuovo approccio alla didattica è possibile lì dove si sceglie di collocare al centro la persona e di uscire dall’ottica della performatività a tutti i costi. Acquisire competenze tecniche, legate ad una specifica materia, è fondamentale nell’ottica del “sapere” e del “saper fare”. Lì dove si scegliesse di mettere maggiormente al centro la persona, considerando tutte le implicazioni psico-pedagogiche e psico-sociali che la scuola – per definizione – è chiamata a valorizzare, si porterebbe avanti un lavoro ancora più completo, quello del “saper essere”, inteso come un’integrazione solida e comunque flessibile tra tutto ciò che si sa, tutto ciò che si fa e tutto ciò che si è. Sviluppare competenze umane, emotivo-relazionali e comunicative è una risorsa fondamentale che prescinde dall’abilità tecnica, comunque importante, e riguarda la possibilità di favorire la crescita di studenti e studentesse, in quanto persone e non solo “futuri professionisti e lavoratori”».

Se consideriamo i social media come una medaglia e vediamo le due facce, l’una può alimentare una narrazione sbagliata dei corpi, non inclusiva e stigmatizzante, l’altra può generare maggiore consapevolezza in quanto di DCA, oggi più di prima, comunque si parla. La scuola può essere un mezzo di analisi critica ed educativa anche dell’uso che si fa dei social?

D. C. «Crediamo fermamente che la scuola debba educare all’uso consapevole dei social media e della rete in generale. Spesso la cultura dell’immagine propone un modello di corpo che risulta in contrapposizione con la variabilità umana, ma questo non è l’unico elemento critico. È fondamentale, infatti, fornire agli studenti strumenti per analizzare criticamente le informazioni con cui entrano in contatto, soprattutto in un contesto in cui i social possono veicolare contenuti diseducativi o rischiosi. Un aspetto particolarmente insidioso sono le pagine che diffondono informazioni pseudo-scientifiche, talvolta proposte da professionisti – o presunti tali – che rischiano di stigmatizzare comportamenti e vissuti o di innescare reazioni negative. I Disturbi del Comportamento Alimentare sono un tema complesso che non può essere semplificato in un breve video o in un’infografica. È necessario un approccio più approfondito, basato su evidenze scientifiche e su una metodologia strutturata».

A che punto è la prevenzione nelle scuole a livello internazionale?

L. M. «Per rispondere a questa domanda ritengo sia fondamentale sottolineare che possiamo fare ancora molto. Come Paese, credo che sia importante realizzare quanto sia arricchente, benevolo e conveniente investire nella prevenzione e, soprattutto, nella promozione della salute, globalmente intesa. Per me questi due termini, prevenzione e promozione, vanno necessariamente di pari passo in quanto – oltre a comunicare l’esistenza della malattia, i campanelli di allarme e i rischi correlati (prevenzione) – diventa fondamentale offrire un’alternativa, fornendo delle linee guida reali e concrete su come poter fare diversamente. E il “voler fare diversamente” non deve essere mosso solo dalla “paura di ammalarsi” (il rischio del terrorismo psicologico legato a determinate condizioni), ma anche e soprattutto dalla scelta di prendersi cura di sé».

D. C. «Il team di FoodNet ha recentemente completato una revisione sistematica della letteratura scientifica sulla prevenzione dei Disturbi del Comportamento Alimentare in ambito scolastico. Abbiamo analizzato ricerche quantitative e longitudinali che valutano interventi di prevenzione primaria su studenti con età pari o inferiore ai 15 anni. I risultati sono preoccupanti: tra il 1997 e il 2021 sono stati pubblicati solo 16 studi in questo ambito, nonostante l’aumento dell’incidenza di questi disturbi e l’età sempre più precoce di esordio. Questo dato sottolinea l’urgenza di intensificare gli sforzi in termini di prevenzione a livello nazionale e internazionale».

Come sperate e vi aspettate reagiscano le istituzioni a tali linee guida?

L. M. «L’augurio è che vi sia una reale comprensione di questo documento, a partire dal motivo per cui è stato fortemente voluto, fino ad arrivare al contenuto e, soprattutto, alla modalità con cui è stato scritto. In particolare, su quest’ultimo aspetto ci teniamo a sottolineare che tutto questo nasce dall’integrazione dai dati della letteratura e dell’esperienza sul campo. L’esperienza è ciò che permette di arricchire quanto scritto sui manuali, di dare sostanza e personalizzare gli interventi di volta in volta. I manuali sono fondamentali così come lo è co-costruire la conoscenza assieme alle persone che di volta in volta partecipano alle nostre attività. Ci auguriamo che le Istituzioni possano valorizzare questo documento perché significa valorizzare nell’ambiente scolastico – uno dei teatri prediletti dello sviluppo psico-socio-educativo – la possibilità di sensibilizzare studenti e studentesse, docenti e famiglie sul tema dei DCA e, in generale, sull’importanza del potenziamento delle competenze emotivo-relazionali fondamentali per ogni persona, in qualsiasi fascia di età». 

D. C. «Ci auguriamo che le Istituzioni e la politica accolgano e utilizzino questo lavoro, e che finalmente – dopo anni di richieste e interrogazioni – aprano la porta alla prevenzione primaria dei DCA, perché anche in questo settore, “prevenire è meglio di curare”. Non dimentichiamo che l’adozione di linee guida per disturbi alimentari permetterebbe di abbattere le spese sanitarie, perché sappiamo che gli stanziamenti sono pochi e vanno utilizzati nel modo giusto».

Autore

Giorgia Cecca

Giorgia Cecca

Autrice

Sono atea ma ho vissuto dalle suore. Sono di sinistra ma una volta ho votato PD. Non mi piace la monotonia ma guardo spesso i film di Nanni Moretti. Piango mentre leggo Mattia Torre perché è la persona che mi fa più ridere. Guido una Vespa perché ho visto troppe volte Caro diario. Sempre per quella questione della monotonia. Che, forse, non mi piace.

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