Spesso negli sport di squadra si parla di leadership in relazione alla capacità di un giocatore di guidare i propri compagni alla vittoria. Nello specifico, qual è la dote del leader? È colui che si assume le responsabilità nei momenti difficili? Chi risolve le partite grazie al suo talento? O chi trascina la squadra con carattere e carisma? Risulta difficile definire in modo univoco la leadership. Non bisogna, tuttavia, commettere l’errore di riferirla solo al singolo giocatore, senza considerare la leadership più importante, quella che sola può condurre alla vittoria: la leadership di gruppo. Nessun atleta ha mai vinto da solo. La squadra al servizio del campione provvede ai record e alle statistiche; il campione al servizio della squadra è sinonimo di titoli. La leadesrhip di squadra, che si traduce in un’identità di gioco riconoscibile, viene trasmessa, in primis, dall’allenatore. Nel basket americano due allenatori in particolare hanno espresso al meglio il concetto di subordinazione dell’io alla squadra, due fra i coach più vincenti nella storia dell’NBA: Gregg Popovich – cinque titoli con i San Antonio Spurs – e Phil Jackson, undici anelli fra Chicago Bulls e Los Angeles Lakers. Due grandi allenatori che hanno fatto del gioco e dello spirito di squadra il perno della loro filosofia, ma con metodi e strategie molto differenti. Standardizzare o personalizzare: questo è il dilemma.
Gregg Popovich e il segreto della dinastia Spurs: gli stessi standard per tutti
Diplomato alla scuola superiore, Gregg Popovich nel 1970 consegue la laurea presso la Air Force Academy. Negli anni del college si specializza in studi sovietici e intraprende la carriera di spia presso la CIA, per poi scegliere il basket come lavoro della sua vita. Questo background lo influenza non poco nella sua concezione del basket, nell’esaltazione dei valori del duro lavoro e della disciplina: «Senza la disciplina non si va da nessuna parte, e non solo nel basket». Accanto alla disciplina – e parte integrante della stessa – la fiducia: tra allenatore e giocatori, tra compagni di squadra all’interno dello spogliatoio.
Per mettere alla prova i giocatori, per capire su chi possa far affidamento, Popovich usa spesso il metodo del “go serbian”. È un metodo duro, aggressivo, senza mezze misure. Un momento di totale umiliazione pubblica, in cui il coach massacra un giocatore sottolineandone errori e carenze. A riguardo, si è espresso Sean Elliott, campione NBA nel 1999 sotto la guida di Popovich: «Se giochi per lui a lungo, prima o poi vieni demolito, non importa come ti chiami. Può succedere in partita, durante la proiezione dei filmati, in allenamento». Tutti i giocatori sono uguali: che si tratti di David Robinson, Tim Duncan, Manu Ginobili, Tony Parker. Una prova da superare, un test per temprare la mentalità del giocatore.
Il metodo non risparmia nessuno, Popovich non fa differenze: come in caserma, ogni giocatore viene trattato allo stesso modo, senza favoritismi o regole ad hoc. Esiste un codice, una linea da seguire valida per tutti. Non a caso, l’allenatore serbo si è sempre affidato molto alla panchina, gestendo le rotazioni dei giocatori più importanti, risparmiando loro minuti e dando spazio ai giovani. Per far ciò occorre tenere tutti sullo stesso livello, trasmettendo fiducia e ricevendo in cambio prestazioni positive. Nel 2013-2014, per la prima volta nella storia della lega, nessun giocatore di San Antonio ebbe un minutaggio medio superiore ai 30 minuti: i vari Duncan, Ginobili, Parker e Leonard hanno accettato questa strategia senza discutere, perché nutrivano verso l’allenatore e la squadra una fiducia immensa. Le parole del coach serbo sono emblematiche: «Non hai un sistema diverso per Duncan, Parker e Ginobili rispetto a quello per i numeri 12, 13 e 14. […]. Devi avere gli stessi standard per tutti. Puoi trattare le persone in modo diverso perché ognuna è diversa, ma tutti devono marciare con lo stesso batterista, con gli stessi standard». Fiducia, armonia di gruppo, disciplina: gli ingredienti di Popovich per la leadership di squadra.
Non esiste, tuttavia, un’unica strada. A dimostrarlo è un altro grande allenatore di NBA, che basò la sua filosofia di gioco sul collettivo, sulla sintonia e la fiducia tra giocatori; ma con altri metodi, non con il rigore autoritario di Popovich, bensì con un intimo approccio psicologico.
La psicologia di Phil Jackson: differenziare i rapporti
Parliamo di Phil Jackson, l’allenatore più vincente nella storia dell’NBA. Undici anelli vinti seduto sulla panchina di Chicago Bulls e Los Angeles Lakers. Nel suo libro Eleven rings. L’anima del successo, Phil Jackson svela le chiavi del suo successo: psicologia umanistica, filosofia dei nativi americani e meditazione Zen. Il “Maestro Zen”, come è soprannominato, al pari del suo collega Popovich, ricerca una leadership basata sul lavoro di squadra altruistico e sulla fiducia reciproca, raggiunta, ad esempio, tramite sessioni di riflessione condivisa prima di ogni allenamento. Al rigore, al “go serbian”, alla disciplina ferrea di Popovich si sostituiscono autenticità, libertà e dialogo. Jackson riesce ad andare “under their skin”, sotto la pelle dei giocatori, penetrando le loro menti. Ed ogni mente è unica. Ogni giocatore ha il suo carattere, i suoi pregi e difetti, da comprendere a fondo per esaltarne le qualità in campo. Non tutti possono marciare con lo stesso batterista, il ritmo non va sempre standardizzato: talvolta è più efficace differenziarlo.
L’esempio lampante della filosofia di Jackson è il rapporto con Dennis Rodman, uno dei migliori rimbalzisti della storia del basket. «Non mi considerava un giocatore, ma un grande amico. Capiva che avevo bisogno di lui come fonte di ispirazione». Quando Rodman diventa un giocatore dei Chicago Bulls, Jackson capisce subito che l’ex Pistons è dotato di una personalità fuori dagli schemi e che necessita di un trattamento speciale. Non stravolge le sue abitudini, seppur discutibili agli occhi della squadra, ma cerca di assecondarlo per ricavarne il meglio. Simbolo di questo rapporto sono le famose 48 ore di libertà a Las Vegas che Jackson e Jordan concedono a Rodman nel bel mezzo della stagione 1997-98. La concessione non è segno di debolezza, né di un trattamento privilegiato; è la testimonianza di quanto l’allenatore conosca il suo giocatore: è semplicemente ciò che serve a Rodman in quel momento per tornare utile e decisivo per il team. E non è solo Jackson ad accettare la vacanza; il resto della squadra non insorge, non protesta, perché sa che Rodman non la tradirebbe. Effettivamente va così. Rodman torna più carico di prima, risultando decisivo per la vittoria dell’anello in quella stagione. I suoi numeri dimostrano l’efficacia della scelta di Jackson: media di 15 rimbalzi, 2.9 assist e 4.9 punti a partita.
Il metodo Jackson richiama il mantra di Julio Velasco, tra i più famosi coach di volley. La sua storia e il suo ricchissimo palmares non basterebbero a descrivere la grandezza di un allenatore totale che ha fatto scuola divenendo un punto di riferimento anche per altri grandi allenatori appartenenti ad altri sport. Phil Jackson compreso. Ma per capire al meglio quanto il Maestro Zen sia vicino allo spirito di Velasco basti ricordare l’insegnamento che quest’ultimo diede a Pep Guardiola (un altro che, di coaching, qualcosa ne capisce) ai tempi del Brescia, durante un pranzo voluto proprio dall’attuale allenatore del Manchester City, affascinato dal modo di allenare di Velasco: «Pep, quando deciderai di allenare dovrai avere chiarissima una cosa: non provare a cambiare i giocatori, i giocatori sono come sono. Ci hanno sempre detto che per il coach tutti i giocatori sono uguali, ma questa è la bugia più grande che esista nello sport».
Autore
Nasco a Roma nel 1997. Formatomi sui precetti morali del Re Leone, mi laureo in lettere e divento giornalista pubblicista. Appassionato di sport e storie di sport, nella vita faccio il centrocampista. Amo il mare e detesto il sensazionalismo quasi più degli anfibi.