L’attesa è finita: Strappare lungo i bordi, la prima serie di Zerocalcare, è finalmente su Netflix. Si tratta di sei episodi da una ventina di minuti l’uno, che raccontano la storia di Michele Rech, forse il più famoso fumettista della New Generation italiana.
La campagna di lancio della prima stagione è, essa stessa, già un successo. Roma è tappezzata da cartelloni raffiguranti alcune vignette che hanno come protagonisti i personaggi della serie e come argomento i mezzi della capitale. Questi ultimi, si sa, sono sempre in ritardo e sempre pieni, ma sono anche luoghi romantici dove nascono amori platonici interrotti da uno «sguardo lacerato dal distacco».
«Un fumettista romano, la cui coscienza prende le forme di un armadillo riflette sulla sua vita e un amore mancato mentre con due amici si reca fuori città»: questa è la descrizione che si trova nella piattaforma e che corrisponde grosso modo allo scheletro della narrazione, ma basta guardare il trailer della serie per capire che c’è un mondo intorno a questa apparente semplicità. Lo spettatore è trasportato, attraverso una serie infinita di flashback, nelle paranoie e nel vissuto dell’autore dall’infanzia ai giorni nostri. Egli si sente coinvolto e vi si riconosce. Michele Rech si regala con ironia, semplicità e verità portando il pubblico ad empatizzare con lui, a sentirsi meno solo, a capire che non sempre basta strappare lungo i bordi per dar forma alle proprie vite. Spesso possono esserci degli imprevisti più o meno grandi, ma si possono risolvere tutti nella quotidianità, insieme alle persone vicine.
L’universo di Zero Calcare era approdato sul grande schermo già nel 2018, con La profezia dell’armadillo, ma è stato con Rebibbia Quarantine che l’artista ha sperimentato il mezzo con cui trasformare i suoi fumetti in un prodotto cinematografico vincente: l’animazione.
Com’è nata l’idea di creare la tua prima serie di animazione e come si è sviluppato il progetto?
«Provo a esse veloce e a non attaccà na pippa: a me un paio d’anni fa mi era venuta la voglia di provare a raccontare una storia a cartone invece che a fumetti, perché mi piaceva che fosse un linguaggio molto diretto e molto accessibile. M’accorgevo, quando pubblicavo i cartoni scemi fatti al volo a casa mia, che comunque un video così veniva molto più guardato di un fumetto sullo stesso identico tema. Io sono un tipo molto verboso nei fumetti e sono anche un po’ maniaco del controllo. Infatti tendo a mettere, intorno alle vignette dei fumetti, anche i testi delle canzoni con la nota musicale, per cercare di suggerire quella che dovrebbe essere l’atmosfera e quello che suggerisco di ascoltare mentre uno si legge quel fumetto. Immagino, però, che uno su un milione abbia ascoltato quella roba lì mentre leggeva il fumetto: con la serie glielo puoi imporre, puoi controllare come chi guarda riceve quel prodotto da quasi tutti i sensi e questa cosa qua mi sembrava figa. Inizialmente pensavo di poter fare tutto da solo, ma ovviamente non era possibile. Con Rebibbia Quarantine ho preso un po’ le misure di quello che potevo ed ero capace di fare da solo e di quelli che evidentemente erano i miei limiti. Lì c’è stato l’incontro con Movimenti Production, che ha coinvolto una serie di professionisti, per colmare tutte le lacune per quello che riguarda anche proprio il linguaggio cinematografico in sé. Sono molto felice del risultato, perché sono riuscito a controllare comunque tutto il processo senza snaturare me stesso, ma facendomi aiutare in tutti i punti in cui non sapevo proprio come procedere».
La serie che cosa ti ha suscitato rispetto ai lavori precedenti?
«Questa serie è stata una maniera per prendere le misure. Io qua ho cercato di fare quello che mi sembrava fossimo in grado di fare e in cui potevo avere il controllo, non mi sono avventurato in territori troppo sconosciuti. Sono tutte cose che, in vista di possibili altri progetti, c’ho un po’ più chiari. Però se me li metto a dì adesso e poi non li so fa, faccio una figura de merda, quindi diciamo che me fermerei qua».
Su Netflix funzionano le serie che sono molto radicate a livello locale, ma che hanno un respiro internazionale. Vorrei capire: come hai lavorato per quanto riguarda l’universalità? Qual è quel tratto della tua storia che tu dici: piacerà ovunque, dal Belgio, all’Olanda, all’America? Perché sulla romanità e sulla forza di parlare di noi italiani sei imbattibile, il problema era fare il salto internazionale.
«Posto che io non dirò mai nella vita che piacerà ovunque ‘na roba mia. Questa esperienza io l’ho avuta anche nel fumetto: io all’inizio pensavo che la questione era la romanità e quindi piaceva ai romani, poi pensavo che la questione erano i riferimenti generazionali e quindi piaceva a chi aveva guardato gli stessi cartoni animati miei e coglieva quei riferimenti, eccetera. In realtà andando avanti e incontrando lettori di età diverse e di paesi diversi, mi sono reso conto che il minimo comune denominatore di chi entra in sintonia con la roba mia è, e adesso cercherò la maniera più gentile di dirlo, de sta in un qualche modo un po’ impicciati. Nel senso che le persone che hanno vissuto quel senso di inadeguatezza, di insicurezza, che probabilmente si portano appresso da quando sono piccoli fino a quando non avranno novanta anni (ovviamente declinato in momenti diversi, a prescindere dalla loro età, dalla loro collocazione geografica e dalla loro estrazione sociale), riescono a entrare in sintonia con quello che racconto. Viceversa a uno che è nato a Roma, che ha la stessa età mia, che ha visto gli stessi cartoni animati miei, ma è uno che quella roba non ce l’ha perché ha sempre avuto una facilità di relazione con l’esterno, probabilmente le cose mie non gli parleranno mai. Quindi penso che sia un po’ quella la cifra universale e la cifra escludente».
Nel corso degli anni Netflix si è definita e si è imposta con dei parametri e delle coordinate ben precise. Nel linguaggio, nella produzione e nello sforzo creativo hai avuto un limite oppure piena libertà creativa dal punto di vista dell’esuberanza verbale?
«Dell’esuberanza verbale (ride), è una serie che c’ha na parolaccia ogni tre parole, quindi diciamo che limiti da quel punto di vista non ci stanno. Devo dì che uno dei motivi per cui poi sta cosa si è potuta fare con Netflix è che a me m’è stata data libertà più o meno totale. Poi chiaramente tu stai a parlà a un pubblico de milioni de persone, quindi chiaramente c’hai bisogno di un’attenzione a quello che dici. Ma quello è un lavoro che faccio a monte anche nei fumetti, perché per esempio io dico un sacco di parolacce però non uso mai roba che sia omofoba, sessista o razzista, a meno che non è in bocca ad un personaggio negativo di quel tipo. Quello che c’è stato è stato lo stesso tipo di ragionamento che faccio per i fumetti miei, applicato ovviamente al fatto che è una platea molto più vasta con tipi di sensibilità diverse».
Tu dai voce a tutti i personaggi tranne che all’Armadillo, a cui dà voce l’attore Valerio Mastandrea, come mai?
«Parti dal presupposto che Valerio incarna nella mia vita la figura dell’Armadillo da prima de pensà a qualsiasi doppiaggio. Assomiglia a me (ma penso che s’ammazza se glielo dici). Lui aveva già pensato di fare La profezia dell’armadillo in tempi non sospetti, quindi aveva anche una dimestichezza con il linguaggio mio. Poi io evidentemente non c’avevo idea di che voce c’avesse l’armadillo. Essendo la mia coscienza, quella che entra in contrasto con me, certamente non potevo farlo io. Nel momento in cui ho sentito Valerio doppiarlo, in cui ho visto la faccia dell’armadillo parlare con la voce di Valerio, m’è sembrato che era subito perfetto, e che dava proprio un plus gigantesco a tutta quell’impalcatura là. Quindi, è stato super naturale».
Tu usi un modo tutto tuo, che non è quello dei doppiatori: cosa pensi mentre dai voce ad una ragazzina, ad una maestra, ad un amico?
«Intanto grazie per averlo definito un punto di forza, io pensavo fosse uno dei limiti. Comunque sono le vocette sceme che si fanno a scuola per imitare le persone. Il motivo per cui io dò la voce a tutti i personaggi è che mi piaceva che l’approccio per lo spettatore non fosse quello di vedere da esterno un teatrino che si svolgeva, ma doveva essere come se tu ti siedi di fronte a uno che ti racconta una storia e te la racconta con la voce sua e se deve fare la voce di qualcun altro la imita in maniera anche casereccia».
Come hai scelto le musiche? Ci sono alcuni gruppi come i Klaxon, i Band of Horses, insieme a Giancane che fa la colonna sonora e poi mi ha sorpreso la canzone di Ron “Non abbiamo bisogno di parole“.
«Questa domanda è complicata. Le ho scelte sulla base della roba che me piace e di come mi immaginavo quel momento lì, quindi ci stanno dentro pezzi della vita mia come la roba punk, ma anche musica da boomer, pure più vecchia di me. A me piace la musica degli anni ’80 quindi c’è da Billy Idol ai Band of Horses. All’interno della serie c’è veramente il mio mondo musicale: sia di quello che è più vicino a me, sia di quelli che sono gli ascolti un po’ più generazionali, da Tiziano Ferro a Manu Chao. Per il pezzo di Ron va detto che era un altro pezzo all’inizio, di una persona che me l’ha negato, mo non so se si può dì, forse no, che era una canzone perfetta per quel punto lì, di un cantautore italiano che però c’ha pisciato. Quindi ho fatto un lavoro di ricerca gigantesco su un qualcosa che avesse quel sentimento un po’ melenso e che sentivi in macchina coi genitori quando andavate in vacanza. Però, che avesse anche quel livello di commozione, sia legato al testo sia legato ai ricordi che ti suscita. Che fosse molto conosciuto, molto popolare e che stridesse col carattere magari più indipendente o punk del resto della colonna sonora. Alla fine dopo una ricerca lunghissima, che ha coinvolto un po’ tutti quelli che lavoravano con me abbiamo trovato Ron. Io passavo le giornate a cercare su Google: “50 pezzi italiani famosi struggenti”».
Voli come una farfalla intorno ad un punto, con leggerezza, con ironia e poi ad un certo punto pungi. Cosa arriva prima per te: la situazione divertente oppure la riflessione seria su cui poi costruisci tutto l’ironico e il comico?
«Io sono un tristone, quindi viene sempre prima la parte triste, piagnona e drammatica, ma siccome so nato a Roma e so benissimo che i piagnoni sono l’ultimo anello della catena alimentare delle prepotenze, c’ho costruito intorno un’impalcatura di ironia, di autoironia e di divertimento che serve a mettere le mani avanti. Perché se tu sei il primo che si prende in giro, gli altri non banchetteranno con te. Questa cosa qua, quindi, mi serve a costruire la fortificazione intorno al nucleo, che però è sempre quello triste. È un momento crepuscolare questo».
L’intervista è tratta dalla conferenza stampa di Zerocalcare, organizzata in occasione della presentazione dei primi due episodi della sua serie alla Festa del Cinema di Roma.
Autore
Aurora, classe 1997, laureata in Letteratura musica e spettacolo, attualmente studio Scritture e produzioni dello spettacolo e dei media. Sono un'appassionata di cinema e odio le presentazioni formali.