I gilets gialli stanno morendo, ma il giletismo è più vivo che mai

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Piccola nota biografica: ero in Francia, quando per la prima volta sentii parlare di “Gilets Jaunes“. Era il novembre del 2018 e certi amici più esagitati di me mi raccontavano di «questo nuovo movimento» che «andava a combattere il fascismo di Macron nelle piazze. Era il risveglio della Francia profonda, della classe operaia, dei perdenti della globalizzazione, di chi non accettava “la politica dall’alto”».

Era però, se si grattava sotto la superficie, una protesta contro il caro carburanti. Le richieste poi si strutturarono verso un modello di democrazia diretta, in cui i cittadini partecipassero con referendum propositivi. 

Per questo era difficile essere contento: avevo già visto con i forconi come un movimento di protesta, privo di appigli ideologici che andassero oltre il semplice malcontento, potesse diventare il Cavallo di Troia per personaggi pittoreschi, spesso con pulsioni semi-autoritarie, “alla generale Pappalardo”.

Così, quando i miei amici mi proposero di andare in strada per protestare contro una marea di cose (il caro carburanti, l’aumento delle tasse accademiche, la “tirannia” del presidente Macron) io ero andato alla manifestazione per la COP24. Non era ancora tempo di Fridays for Future e se mi avessero dato del gretino, avrei pensato che si parlava di raffreddore. 

Dai fasti alla caduta

Poi ci sono state le grandi proteste, una parte dell’opinione pubblica europea che si entusiasmava per quello che stava succedendo, vedendoci la rivolta definitiva del popolo contro l’establishment europeo impersonato da Macron.

Ero già tornato in Italia quando Di Battista e il Di Maio gialloverde incontravano (6 febbraio 2019) alcuni leaders dei gilet jaunes: in particolare, la fazione più “politicante”, guidata da Christophe Chaleçon e Ingrid Levavasseur (qui approfondiamo chi sono e cosa fanno attualmente le persone che erano quel giorno con Di Maio).

Già da due mesi, contro il parere di diversi suoi consiglieri, Macron aveva deciso di venire incontro ai manifestanti, aumentare di 100€ lo SMIC (il salario minimo garantito in Francia), sperando che il movimento, con quella mossa, si “sgonfiasse”. In effetti, un risultato lo aveva ottenuto: secondo il Ministero degli Interni, il numero di manifestanti dopo l’annuncio era sceso da 136.000 persone a 66.000. La violenza, gli atti intimidatori, il tentativo (qualche volta riuscito) della destra estrema d’infiltrarsi nei cortei erano continuati. I partecipanti, però, iniziavano a calare: a giugno 2019 c’erano 5800 Gilets in strada in tutta la Francia. 

Gialli di ritorno

Il 2020, con la pandemia, sembrava aver ucciso il movimento. Il 16 ottobre, due anni dopo l’ultima volta, sono di nuovo a Parigi. Aspetto in fermata il mio autobus, ma non passa nulla. Dopo mezz’ora d’attesa vado a piedi. Vedo che il Pont de Sully, vicino Notre Dame è transennato. Ci sono poliziotti con mitra, decine di camionette. Mi dirigo verso la Place de la Bastille, vedo tanti curiosi fuori di casa col telefono. Sogghignano, non capisco bene cosa stia succedendo, finché da un negozio sento una donna urlare «Guarda, ci sono i gilets gialli!», con un tono divertito. 

Non è un posto facile: qui, nel gennaio 2019, i manifestanti avevano alzato delle barricate e avevano iniziato una vera e propria guerra con la polizia. I poliziotti avevano manganellato senza pausa e avevano lanciato lacrimogeni, mentre i manifestanti avevano iniziato una sassaiola, smontando letteralmente la piazza. Il bilancio di fine giornata parlerà di 152 morti. Invece, a Place de la Bastille, trovo di fronte a me questo. 

Tutto quello che sta succedendo ha del grottesco: la piazza è bloccata e i poliziotti sono moltissimi per una manifestazione che farà poco più di 1000 partecipanti. Sono in piazza perché il prezzo dei carburanti è aumentato. È lì da dove sono partiti, è lì che Maxime Nicolle, leader dei Gilet Jaunes, dice che bisogna ripartire:

Non è questione di scendere in piazza per una settimana o due, ma per cento, finché non otterremo quello che abbiamo chiesto. Non siamo stanchi.

Sono tornati per restare: Nicolle è un ex rider, rappresentante di quei “massimalisti apolitici” che avevano contestato l’incontro con Di Battista e Di Maio.

L’hashtag #GiletsJaunesSaison2 è trend topic su Twitter, ma solo lì i gialli contano: la piazza è semivuota, ha perso la sua identità (molti dei suoi leaders si sono riversati nella galassia anti-vaccinista). C’è sempre quell’eterogenesi di richieste e di partecipanti: bandiere della Palestina, timorati di Dio, pensionati, anarchici, antisemiti e personaggi pittoreschi, uniti nell’odio contro il presidente Macron. Manca solo una cosa: quell’energia di cui mi parlavano le persone che erano dentro i cortei. È diventato un carnevale, una rievocazione dei tempi che furono, fra vecchi amici.

Il 23 ottobre, il nuovo nemico sono i 100€ che Macron ha promesso ai francesi come indennità per combattere l’inflazione. Ai microfoni di RT1, alcuni manifestanti dicono: «Lui ci vuole comprare con questa misura, è già in campagna elettorale. Ma noi abbiamo il nostro progetto politico: mandarlo a casa». Qualcosa che ricorda molto da vicino gli 80€ di renziana memoria. Sarà felice il senatore di Italia Viva, di aver ispirato anche il suo maestro.

Fa notizia il fatto che i Gilets Jaunes si stiamo coordinando con il movimento ambientalista Extinction Rebellion per un’azione contro l’industria petrolifera:

Oggi l’oligarchia parla di transizione ecologica. Ma i miliardari non hanno diritto a cambiare un sistema che serve ai loro profitti. Sta a noi, il popolo, forzare e rompere questo sistema.

Assemblea dei Gilets Jaunes di Lyon

È una misura incoerente la collaborazione d’Extinction Rebellion con un movimento che scende in piazza per richiedere prezzi più bassi per il diesel ? No, perché dentro i Gilets c’è tutto il contrario di tutto. Perciò si può difendere il diritto degli automobilisti di lottare per utilizzare le loro vetture a benzina e combattere l’industria petrolifera; scendere in piazza per pensioni più alte e maggiori possibilità per i giovani.

Con un colpo di coda, il movimento potrebbe anche riprendersi e diventare un fattore decisivo per le elezioni. Sembra però abbastanza fuori moda, al momento, prendere il gilet e mettersi a bloccare una rotonda. Le liste dei Gilets non sono mai andate oltre l’1%, ma oggi a raccogliere molti consensi nella galassia gialla (molto più grande dell’1%) è l’estrema destra rappresentata da Eric Zemmour. Il giornalista, da poco cacciato da C-News (e dunque in rampa di lancio per la candidatura), da settimane flirta con un mondo che «è stato vittima di decenni di cattiva politica». Da populisti a sovranisti, come abbiamo già parlato in un articolo, il passo è breve.

Gialli di casa mia

E qui arriviamo a noi. Perché se i gilets gialli sono (eufemismo) in sofferenza, il giletismo è più forte che mai in tutta Europa. Abbiamo iniziato con gli emuli diretti, i gilets arancioni del sempreverde generale Pappalardo, in piazza solo un anno fa. 

Poi, però, l’upgrade vero è stato fatto nell’ultimo anno, stretti fra la morsa di Io apro, i cortei degli antivaccinisti e dei no green pass. Sono formazioni di Destra, Centro, Sinistra? Nessuna delle tre e tutte e tre le cose.

In piazza a Roma il 9 ottobre non c’erano solo i fascisti di Forza Nuova: c’erano anarchici; poi fanatici religiosi pronti ad assaltare le Scuderie del Quirinale perché credevano fosse la porta dell’inferno; c’erano casalinghe per la scelta vaccinale, poliziotti complottisti informati su Telegram, esperti di medicina alternativa, tanta gente normale, studenti.

Un microcosmo con talmente tante ramificazioni in cui era impossibile districarsi. Cosa vogliono, a parte il ritiro dell’obbligo di green pass? Non si sa, ognuno ha il proprio piccolo leader e il proprio piccolo obiettivo da curare. Diventa così difficile trattare e sorvegliare una piazza che non è troppo partecipata, ma manca un interlocutore preciso.

Perché «Nessuno è il capo» significa che lo sono potenzialmente tutti. Lo si è visto a Trieste, dove il tavolo è per ora diviso fra i portuali di Puzzer, la nuova rockstar del no al green pass, e il gruppo di Piazza dell’unità, insofferente alla sua leadership. Senza contare Milano, divisa fra galassia anarchica, Destra e Italexit di Paragone. Ognuno conta per il proprio reggimento, e questo non aiuta il dialogo. 

Il pericolo è appunto la “giallizzazione” della protesta: anche nel caso il green pass venisse ritirato, si considererebbe un peccato disperdere tutte queste energie. Si entrerebbe così in un loop di mobilitazioni permanenti che poco fa bene alla stabilità dello Stato e che rappresentano una minoranza rumorosa, sebbene organizzata e con grandi capacità di mobilitazione. Fino ad autoproclamarsi «il popolo, la gente, la maggioranza», in un paese in cui l’85% della popolazione è vaccinata.

Tutto questo con la complicità di una parte del Parlamento, che parla di «tolleranza» e «libertà di scelta» in un paese che ha perso più di 100.000 abitanti, fino ad arrivare a Place de la Bastille di ottobre, con il centro della Capitale bloccato per qualche migliaio di persone in piazza.

L’indignazione è qualcosa di prezioso, la piazza è l’arma per combattere le storture della democrazia. Se, invece, diventa una riunione di condominio, ogni settimana a una determinata ora, con gente che si urla addosso e ripete sempre le stesse cose (che senso ha #IoApro oggi?), il popolo, la gente diventa insensibile. Vogliamo davvero correre questo rischio?

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Amo il data journalism, la politica internazionale e quella romana, la storia. Odio scrivere bio(s) e aspettare l'autobus. Collaboro saltuariamente con i giornali, ma mooolto saltuariamente

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