il 24 ottobre 2020, esce un DPCM in cui leggiamo, tra le altre cose, al punto m: “sono sospesi gli spettacoli aperti al pubblico in sale teatrali, sale da concerto, sale cinematografiche e in altri spazi anche all’aperto”. Da quel momento il mondo dei lavoratori dello spettacolo è in rivolta, le piazze fisiche e virtuali intasate da indignazione e appelli. Questa pandemia ci ha messo davanti a una realtà che esiste e che è sempre esistita: c’è una gerarchia classista degli impieghi. Chi ha creduto nel proprio sogno affermandosi nel mondo dello spettacolo, dell’intrattenimento o della cultura ha letto il testo del decreto con la voce di qualche parente polveroso che un giorno, tanti anni prima, aveva classificato la passione per l’arte, per la cultura, come hobby infruttuoso, come attività da svolgere nel tempo libero. Una dicotomia tra lavoro e tempo libero che sopravvive nonostante importanti falle. Dove collochiamo le persone che lavorano nel cosiddetto “tempo libero” di qualcun altro?
Il tempo libero come lo viviamo noi non è sempre esistito, ma si è sviluppato in tempi molto recenti, a partire dalla Rivoluzione Industriale e da tutti quei fenomeni che ci raccontavano a scuola quando ci spiegavano Dickens: la nascita della fabbrica, la nascita della metropoli, la nascita del ceto operaio e poi quello impiegatizio.
L’equivalente del nostro ‘tempo libero’ nel mondo antico era per i greci la σχολή (scholè, da cui deriva la nostra scuola), per i romani l’otium. La σχολή, o l’otium, era il tempo che le classi agiate dedicavano alle lettere, alla cultura, alla cura dell’anima e del corpo. Non credo sia un caso che tali attività venissero poste sullo stesso piano. La lingua ci aiuta molto a comprendere le differenze nel modo che aveva l’uomo antico di intendere l’otium e dell’importanza che gli attribuiva. Per contro, infatti, il lavoro era chiamato negotium (nec otium), una negazione dell’ozio. Per noi è l’esatto contrario, il tempo libero è dedicato a quello che chiamiamo divertimento (da divertere: volgere). Nelle lingue moderne il termine otium è rimasto solo nello spagnolo ocio, mentre in francese e in inglese prima di parlare di tempo libero si è passati rispettivamente per loisir e leisure, simili all’italiana “licenza” militare. I rapporti tra lavoro e tempo libero, tra cura dell’esteriore e dell’interiore, si sono dunque invertiti a discapito del secondo.
Il concetto di otium inizia a sdoppiarsi con gli epicurei che lo interpretano come tempo da dedicare al piacere dei sensi. Nel Medioevo, tuttavia, questo otiumimproduttivo, vuoto, dedicato alla carne viene recriminato in favore di un ozio riflessivo, dedicato alle lettere e alla preghiera. Il Rinascimento e i secoli successivi, soprattutto nell’Ottocento, riporteranno in auge l’aspetto edonistico dell’otium. Ma a questo punto si è consumata una rottura insanabile. I vecchi otialetterari e artistici sono entrati a far parte della società retta e produttiva, si sono spostati nelle università, nella specializzazione scientifica, si sono dati una veste istituzionale accettabile, mentre a vivere oziando sono rimasti i bohemien, i poeti maledetti, i rockers, la negazione di tutto ciò che esiste di responsabile e integrato: lavoro, responsabilità, famiglia, fede, ecc.
Il Poeta assomiglia al principe dei nembi / Che abita la tempesta e ride dell’arciere; / Ma esule sulla terra, al centro degli scherni, / Per le ali di gigante non riesce a camminare.
Charles Baudelaire, Spleen, Le Fleurs Du Mal
Nell’età industriale, con il lavoro in fabbrica, gli stessi sindacati di Chicago che anni dopo manifesteranno il primo maggio dando vita alla nostra conosciuta festa dei lavoratori propagandano lo slogan: 8 ore di lavoro, 8 di svago, 8 per dormire. Una produzione di massa in tutti gli ambiti come quella che si sviluppa con l’economia capitalista ha bisogno di orari regolamentati e rigidi. Con le 8 ore di lavoro 8 di svago 8 per dormire il tempo libero diventa un diritto. È proprio su quelle 8 ore di svago che l’industria culturale investirà negli anni a venire. E quelle stesse 8 ore di svago amplieranno industrie come quella alberghiera e culinaria e ne faranno nascere di nuove come il turismo.
Il grande paradosso di questo nuovo modo di concepire la giornata e le attività in essa è che anche il tempo libero accresce il plus-valore (Pierre Naville, De l’aliénation à la jouissance: la genèse de la sociologie du travail chez Marx et Engels, 1967) e nel 2020 questo assunto è più vero che mai.
Non solo nel nostro tempo libero continuano ad esserci feste e balli che hanno cambiato volto rappresentando un settore di consumo specifico (party-planners, dj, proprietari di locali e discoteche) ma la stessa cultura e arte sono passate a far parte di questo terzo tempo dell’essere. La veglia per produrre, il sonno per ricaricare la produzione, la seconda veglia per rilasciare la tensione della produzione.
Penso ai giovani che, come me, stanno conoscendo sé stessi e il mondo, alle enormi difficoltà di scelta davanti a un sistema che inietta insicurezze e dubbi, a tutti coloro che sognano di lavorare nella cultura e si sentono rispondere «non ti conviene». Ci troviamo sulla linea di confine tra una generazione seduta sulla convenienza, che poi deve riequilibrare i suoi tempi dell’essere, e una generazione incerta, che non vuole credere in questa disillusione. Dopo il lockdown dello scorso marzo il tempo libero si è ridefinito, i locali chiudono alle 18.00, cinema, teatri, attività sportive non aprono nemmeno, il contatto umano è sconsigliato e i tempi dell’essere sono più squilibrati che mai.
E mentre la cultura chiusa nelle mura di scuole e università, con didattiche frontali, che può tirar fuori i prossimi tecnici specializzati del prossimo software, o il prossimo avvocato, o il prossimo medico, è difesa a spada tratta da tutte le istituzioni (e per fortuna, non ce lo dimentichiamo), la cultura da tempo libero è relegata nel baratro come non indispensabile. La cultura dei teatri, dei cinema, della musica, di sistemi di comunicazione ed espressione che ha letteralmente definito la società in cui viviamo e che di nuovo si sta rimboccando le maniche per creare un modo di uscirne con le proprie dita sporche di arte.
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Nel 1998 qualcuno mi ha mandato qui e non so perchè. Negli anni ho scoperto che la cosa più bella di questo pianeta sono i cani, ma anche gli umani ogni tanto sono simpatici. Mi piace la semplicità del pane con l'olio