La lunga vicenda della Fondazione Teatro di Roma illumina uno dei fenomeni più complicati e allo stesso tempo frequenti di questa città: sul fondo di problemi ricorrenti che nessuno vuole gestire, si lasciano inascoltate le persone coinvolte e si fanno scelte che paiono obbligate dalla tendenza politica del momento, risultando in un nulla di fatto – se non in un radicale peggioramento. Questa storia può dirci molto di noi e aiutarci a capire le parti di una noiosa partita a scacchi dove gli avversari non hanno neppure il coraggio di muovere le pedine sulla tavola.
La Fondazione Teatro di Roma amministra e gestisce quattro tra i più importanti teatri della città: il teatro India, il teatro Torlonia, il teatro Argentina e – al termine del suo restauro – anche il teatro Valle “Franca Valeri”, uno dei più antichi teatri moderni d’Europa. A novembre 2021 si dimettono i vertici di Teatro di Roma, il presidente Emanuele Bevilacqua e la consigliera Cristina Da Milano. Nella loro lettera di dimissioni si comprendono le motivazioni, da circa un anno e mezzo all’associazione mancava un direttore: «che non è stato possibile insediare nonostante molte proposte e votazioni susseguitesi negli ultimi diciotto mesi. Tutto ciò è accaduto anche a causa di diverse possibili interpretazioni dell’assetto giuridico dell’associazione stessa, ente privato finanziato da soci che sono Istituzioni pubbliche. Una situazione difficilmente comprensibile all’esterno ma che non ha impedito all’associazione di Teatro di Roma di poter garantire programmazione di alto livello e conti in ordine».
Le loro dimissioni hanno portato alla trasformazione dell’ente in una Fondazione, come suggerito anche dai sindacati coinvolti nella gestione di questo passaggio. A fine dicembre 2022, Teatro di Roma diventa ufficialmente una Fondazione, con l’approvazione e il sostengo della giunta di Roma Capitale e della Regione Lazio. Le polemiche avevano accompagnato anche questo passaggio: il governo Meloni era ormai insediato da qualche mese e Federico Mollicone, capogruppo di Fratelli d’Italia in commissione Cultura alla Camera, aveva richiesto che venisse rinnovato l’esecutivo di Teatro di Roma, dopo una gestione «opaca e incapace» da parte di Bevilacqua. Rispetto alla nascita di una Fondazione, Fratelli d’Italia era favorevole: «Diciamo sì alla proposta di costituire la Fondazione, ma siano rispettate tutte le aree culturali e il sindaco Gualtieri si ricordi che rappresenta un romano su 4». Dopo la dimissione dei vertici si è aperta la fase di commissariamento, gestito dal commissario Giovanna Marinelli – già direttrice del Teatro di Roma dal 2008 al 2010 – che ha condotto la Fondazione fino alla scelta e all’insediamento dei nuovi vertici.
Oggi, il presidente della Fondazione è Francesco Siciliano, attore e produttore televisivo, ricopre questo ruolo da novembre 2023. Sotto la sua direzione si è svolto il passaggio più ambiguo nella gestione di Teatro di Roma, nonché l’ultimo, che l’ha fatta uscire dal commissariamento. Il 20 gennaio di quest’anno è stato annunciato il nome del nuovo direttore della Fondazione, Luca De Fusco. I candidati a questo ruolo erano circa 40, De Fusco era quello più incline alle intenzioni del governo: notoriamente vicino al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, era anche favorito da Federico Mollicone, deputato di Fratelli D’Italia, e da Francesco Rocca, presidente della Regione Lazio eletto a marzo 2023 nella coalizione di destra.
La sua nomina è stata immediatamente contestata, perché è avvenuta durante un consiglio di amministrazione in cui erano assenti le due figure della Fondazione che avrebbero potuto opporsi: il presidente Siciliano e la rappresentante del Comune di Roma, amministrato dal centrosinistra, Natalia Di Iorio. Dalle ricostruzioni sembrerebbe che i due erano in attesa di un confronto che portasse ad un compromesso in grado di coinvolgere la Regione e il Comune, rispettivamente guidati dalla destra e dal Partito Democratico. L’incontro di sabato 20 gennaio era stato disdetto da Siciliano a causa della sua assenza, ma i consiglieri di Regione e del ministero si sono riuniti ugualmente e hanno ufficializzato la nomina di Luca De Fusco.
La mattina di sabato, Siciliano ha convocato una conferenza stampa d’urgenza, raccontando quanto accaduto: alcuni membri del cda hanno mandato avanti la riunione in autonomia, nonostante il regolamento preveda la presenza obbligatoria del presidente per rendere valida qualsiasi delibera. La notizia della nomina di De Fusco non è stata ufficializzata oltre un articolo pubblicato da Il Messaggero, che ha anche svolto la funzione di notifica alle persone che non erano presenti al consiglio d’amministrazione.
Il giorno dopo la nomina di De Fusco si è tenuto un sit-in davanti al Teatro Argentina, partecipato – tra gli altri – dall’assessore alla Cultura di Roma Miguel Gotor e il presidente della Fondazione Siciliano. Dopo la nomina si sono mosse e organizzate diverse realtà della città: è stata pubblicata una lunga lettera aperta, firmata anche da attori e registi, per dimostrare la propria contrarietà al processo antidemocratico che ha orchestrato la destra presente nel consiglio di amministrazione: «Riteniamo che questo modo di procedere rappresenti un grave colpo al rapporto di lealtà e al rispetto istituzionale che legano il teatro della capitale alla città, alle sue artiste e ai suoi artisti, al pubblico tutto e a chi ogni giorno si impegna per mandare avanti il Teatro stesso. Dopo due anni di commissariamento la nomina del Direttore Generale era fortemente attesa ed è decisiva per il rilancio del Teatro della nostra città. Come artiste e artisti auspicheremmo una nomina ampiamente condivisa di figura competenti che possa guardare al bene del Teatro e allo sviluppo culturale della città di Roma in tutte le sue componenti» hanno scritto».
A fine gennaio si è tenuto un altro consiglio di amministrazione per confermare la nomina, che ha rappresentato l’ufficiale approvazione di Francesco Siciliano, che ha detto: «è la scelta della forma migliore per la gestione e la vita di un organismo complesso come è il Teatro di Roma». Intanto, fuori dal Teatro Argentina si riunivano di nuovo attivisti, lavoratori dello spettacolo, singoli cittadini, Spin Time, Arci e Angelo Mai in un sit-in monitorato dalla polizia, schierata davanti al Teatro per tenere lontani i manifestanti. Al termine dell’incontro De Fusco ha commentato la situazione: «La riunione di oggi e l’approvazione del bilancio mettono fine a una fase aspra: abbiamo superato un momento difficile, in cui le lacerazioni sembravano aver avuto il sopravvento. Il mio compito è ora garantire il completamento di questo percorso e insieme di assicurare il migliore svolgimento del lavoro del Teatro al servizio di Roma e dei cittadini. Sono convinto che, a regime, il Teatro di Roma riuscirà ad assicurare una gestione equilibrata e positiva».
L’approvazione – da parte degli attori di centro sinistra coinvolti nella scelta dei vertici – della figura di De Fusco, è arrivata con il secondo consiglio di amministrazione. Ancora non se ne comprendono bene i termini, ma passa per una modifica dello statuto della Fondazione e delle figure che ne dovranno dirigere le attività. Nello specifico, sembra essere confermato che di fianco ad un direttore generale con un ruolo manageriale, verrà nominato un dierttore artistico. Siciliano ha commentato questa scelta definendola «non una soluzione di mediazione, ma la scelta della forma migliore per la gestione e la vita di un organismo complesso come è il Teatro di Roma», sebbene significhi il rientro completo delle polemiche di questi ultimi mesi, cedendo alla forzatura politica e di metodo fatta dai membri del centrodestra durante la scelta di De Fusco.
Nonostante le polemiche attorno alla Fondazione Teatro di Roma si siano fermate, più o meno serenamente, l’esperienza ha illuminato un paradigma applicabile a diverse esperienze culturali di questa città, che ormai non è in grado di garantire una proposta competitiva o soddisfacente, neppure con i più complessi cambi di direzione. Le esperienze culturali contemporanee si scontrano continuamente con delle impasse burocratiche, che vanno dal mancato stanziamento di fondi alla scarsità di luoghi adatti. In questo quadro, ovviamente, si inserisce la demotivazione che ne consegue e che spinge chiunque desidera fare arte ben fuori i confini nazionali.
A complicare la situazione ci sono esperienze positive cui vengono messi degli inspiegabili freni, andando a recidere le ormai rare e scarse possibilità disponibili di fruizione culturale, ma anche di formazione artistica. È il caso di Officina Pasolini e il Teatro Eduardo De Filippo, parte del complesso ex-Civis che il MAECI, la Regione Lazio, Sport e Salute S.p.A e l’AICS, si sono accordati per riorganizzare, realizzando aule conferenze ed uffici. L’operazione prevede anche la rinuncia a circa 400 posti letto disponibili, che potrebbero essere utilizzati come residenza universitaria nel pieno della crisi abitativa che colpisce, anche ma non solo, gli studenti.
Andrea Pocosgnich, critico teatrale e giornalista, ha fondato nel 2009 Teatro e Critica, testata di riferimento sul mondo del teatro e della cultura. Per comprendere meglio i meccanismi inceppati della macchina culturale romana e le vicende legate alla nomina di Luca De Fusco, gli abbiamo fatto qualche domanda:
La scelta di Luca De Fusco come nuovo direttore della Fondazione Teatro di Roma sembra aver risvegliato un movimento dal basso di cittadini e cittadine, ma soprattutto di artisti e artiste. Che cosa, di questa scelta, crea malcontento? Quali questioni sono in ballo con la posizione assegnata a De Fusco?
«In ballo c’è il futuro del teatro nazionale che auspicabilmente dovrebbe essere il centro nevralgico della citta teatrale e invece rischia di rimanere fermo, bloccato in una posizione di retroguardia culturale. Le direzioni di De Fusco in passato si sono manifestate attraverso produzioni teatrali dispendiose, firmate dallo stesso regista, e con un rapporto non appassionato con il nuovo e giovane teatro. In questa intervista che abbiamo rivolto ad Alessandro Toppi (critico e giornalista napoletano, attento conoscitore delle stagioni in cui De Fusco era direttore allo Stabile di Napoli) viene evidenziato il sostegno “irrisorio” alla nuova drammaturgia, la bassa percentuale di spettacoli con regie al femminile o affidate ai giovani. Inoltre se intendiamo il teatro nazionale come il fulcro di una serie di rapporti inseriti in una rete di spazi, idee e persone, ecco che sentiamo il bisogno di qualcuno che conosca la situazione romana e abbia uno sguardo anche al panorama internazionale più avanzato».
Come è la situazione dei teatri a Roma? Ci sono delle problematiche sistemiche che non riescono ad essere gestite? Quali questioni gestionali critiche saranno affidate a De Fusco?
«Roma è in perenne mutamento, anche quando sembra sprofondare arrivano delle energie a salvare il minimo sindacabile. Ma già ora la povertà delle stagioni teatrali è evidente: oltre alle questioni relative al Teatro di Roma non dobbiamo dimenticare alcune importanti sale che sono chiuse. Il Teatro Eliseo è chiuso dal 2020, la gestione affidata a Luca Barbareschi è fallita e non ha mai riaperto. Sul futuro del Globe Theatre, chiuso dopo il crollo di una scalinata, ancora non si sa molto. Il Teatro Valle sta finalmente affrontando i lavori di ristrutturazione che dovrebbero portarlo alla riapertura tra la fine del 2024 e l’inizio del 2025 (questi i tempi promessi dall’assessorato) e a quel punto entrerà nella gestione del Teatro di Roma, dunque a disposizione del nuovo direttore De Fusco, il quale ha affermato di volerlo utilizzare per la drammaturgia contemporanea.
Chi guida la città ha difficoltà a comprendere l’importanza della cultura contemporanea: Roma rischia di essere percepita come una città-museo in cui l’espressione artistica relativa al contemporaneo è continuamente schiacciata dalla Storia; i festival dedicati alla cultura contemporanea dal vivo come Romaeuropa Festival, Short Theatre, Attraversamenti Multipli, Teatri di Vetro (per citarne solo alcuni tra i più longevi) tentano di riequilibrare i pesi e di fornire attraverso l’arte strumenti di comprensione del presente, oltre che lavorare su un orizzonte di intrattenimento di alto livello e all’avanguardia. Ma, con l’eccezione di Romaeuropa (ormai finanziato stabilmente), queste esperienze devono ogni anno avere a che fare con la burocrazia comunale, regionale e nazionale per il sostentamento e la messa in opera dei progetti. Si pensi poi alla situazione dei piccoli teatri, degli spazi indipendenti, sempre sotto attacco dalla burocrazia: molti sono chiusi in questi ultimi anni, altri sono nati, ma le stagioni dei luoghi informali, della rete culturale indipendente e underground tipica degli ultimi decenni del Novecento e dei primi dieci anni del Duemila non sono più tornate. Questi spazi avrebbero bisogno di essere aiutati dalle istituzioni e non osteggiate».
Perché le dimostrazioni fuori dal Teatro Argentina sono state gestite con un dispiegamento di forze di polizia così eccessivo? Che cosa delle manifestazioni di artiste ed artisti intimorisce?
«Difficile rispondere in questo caso. Quando l’assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori ha incontrato il Sindaco questi ha cercato di dimostrare la sua estraneità dietro le scelte di pubblica sicurezza. E in effetti probabilmente queste mosse fanno parte di un quadro nazionale che evidentemente ha una relazione repressiva con le proteste di piazza. Dopo i blindati e le decine di uomini schierati a Largo Argentina e dopo i controlli a India (dove impedivano di entrare nei grandi spazi adiacenti al teatro a chi non avesse il biglietto) sono arrivate le cariche a Torino, e Napoli, le manganellate sugli studenti di Firenze e Pisa. Insomma, mi pare che il progetto repressivo sia parte di un disegno più ampio che ha a che fare, culturalmente e storicamente, con le destre di governo. E poi è un modo molto semplice e immediato per spostare l’attenzione dai problemi che la cittadinanza porta in piazza trasformandoli in una questione di ordine pubblico. A Roma esiste una tradizione di repressione nei confronti chi fa cultura indipendente e per questioni teatrali le camionette le abbiamo viste in diverse occasioni: per l’occupazione del Teatro Valle, all’Angelo Mai, sia per lo sgombero di Monti sia per i sigilli del 2014 e poi ci sono i tanti spazi sociali sgomberati con la forza».
Se doveste immaginare la Fondazione Teatro di Roma del futuro, come la vorreste? Quali dovrebbero essere le sue priorità?
«Qualche mese fa, prima che scoppiasse il caso De Fusco, su Teatro e Critica pubblicammo un articolo che per noi è una sorta di manifesto applicabile al Teatro di Roma e ad altre esperienze teatrali pubbliche; era un tentativo di guardare avanti, per questo lo intitolammo “Teatro di Roma. Esercizi di futuro”. Ci chiedevamo a cosa servisse un teatro pubblico in una grande città, se si potesse stilare una mappa dei desideri rispetto alle relazioni con il territorio e con gli artisti della città e quindi del paese. Ci chiedevamo insomma se fosse possibile immaginare un teatro attivo sulle contraddizioni del presente e con una piena coscienza della propria tradizione. In quel manifesto abbiamo parlato dei rapporti tra il teatro e la città, della necessaria porosità rispetto ai talenti artistici che si muovono a Roma, della necessità di fare rete con gli spazi indipendenti, della possibilità di pensare al Teatro di Roma come un’istituzione collegata con la città e i suoi problemi, non come un’isola autonoma. Ci vogliono idee ed energie fresche per gli spazi bellissimi ma periferici del Teatro India, connessioni con l’estero che portino grandi artisti internazionali (come accade durante Romaeuropa Festival o Short Theatre), una progettazione organica e quotidiana con le scuole, un lavoro sul pubblico che operi anche nel senso di avvicinare l’esperienza teatrale alle fasce a basso reddito. Inoltre l’idea è quella di avere un’istituzione che sia aperta anche oltre gli degli spettacoli, che abbia aree dedicate alla socialità, biblioteche e luoghi visitabili, per studiare e incontrarsi».