Zeno Cosini è il precursore del quiet quitting esistenziale: una guida realistica per inetti

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Il quiet quitting è un atteggiamento sul lavoro che identifica chi si limita a fare il minimo indispensabile, evitando il coinvolgimento eccessivo. Si inscrive in un discorso che riguarda la crescente pressione sul lavoro e il burn out diffuso. Tuttavia, se letto in chiave esistenziale, questo fenomeno sembra essere la risposta delle nuove generazioni (in particolare la Gen Z) alle richieste assurde della società nell’epoca del Tardo Capitalismo.

Zeno Cosini, protagonista del romanzo La coscienza di Zeno di Italo Svevo, potrebbe essere il precursore letterario e filosofico del quiet quitting esistenziale. Infatti, il fondatore dell’inettismo nella storia della letteratura italiana, è incapace di adattarsi alle norme sociali e lavorative, profondamente ironico e distante dalle aspettative della società borghese. Zeno vive in modo passivo, con un disimpegno che si avvicina all’apatia strategica delle nuove generazioni. Se il personaggio di Svevo potesse scrivere una guida realistica per inetti, comincerebbe così:

1. Inettitudine e distacco dalla vita pratica

Zeno Cosini è una persona incapace di vivere in modo attivo e di partecipare pienamente alla vita lavorativa e sociale. Questo atteggiamento di passività e distacco riflette un elemento chiave del quiet quitting, ovvero lo svolgere il proprio lavoro senza una reale passione o coinvolgimento. 

Anzi, spesso il quiet quitting appare il sogno impossibile di molti lavoratori e molte lavoratrici che vorrebbero solamente dare le dimissioni. Lo spiega bene il creator Pasha Grozdov, che con i suoi video, ha ironicamente rappresentato con la teoria che si cela dietro il quiet quitting, diventando un meme incarnato. «Caro manager» dice Grozdov, «ho delle notizie fantastiche da condividere con te. Sarà stato un privilegio per te lavorare con me, ma dal profondo del mio cuore, ti faccio sapere in anticipo che mi licenzio per inseguire il mio sogno di non mai più lavorare qui».

Il quiet quitting si configura come una forma di resistenza passiva alle richieste della nostra società del merito e dell’ambizione. Herbert Marcuse, nel suo libro L’uomo a una dimensione, esplora come le società capitalistiche spingano gli individui a un conformismo che li porta a vivere solo per consumare e produrre, perdendo ogni profondità e libertà autentica. Questo modello sociale stimola il desiderio di beni materiali e il costante adattamento alle richieste di produttività:

«La libertà di scegliere fra beni e servizi non prescrive la libertà dai costi e dalle sanzioni di questa società; essa serve a tenerci occupati a fare ciò che si desidera che noi facciamo». (Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione)       

Il personaggio di Svevo, affronta il lavoro e gli obblighi con un atteggiamento di distacco e apatia, proprio di chi pratica il quiet quitting: evita di investire emozioni o energia oltre il necessario. Zeno è ben consapevole della propria inettitudine e descrive se stesso come una persona che non riesce a partecipare attivamente alla vita: «Io non compio mai nulla per intero, ma sono assiduo a rivedere i miei fallimenti» (Italo Svevo, La coscienza di Zeno)

Questo senso di fallimento e di incapacità a portare avanti le proprie attività con determinazione rispecchia il disimpegno di chi si limita a fare il minimo indispensabile. Chi sceglie la “presenza minima”, talvolta lo fa anche per non alimentare l’ingranaggio della società consumistica, preferendo un equilibrio che si sottrae all’obbligo di massimizzare il profitto.

2. Non volontà di adeguarsi alle aspettative sociali

Zeno mostra un atteggiamento quasi di resistenza verso le aspettative sociali, inclusi i valori borghesi del suo tempo legati al successo, alla produttività e alla crescita economica. Sebbene non lo faccia apertamente, manifesta una forma di resistenza passiva sotto forma di auto-sabotaggio e procrastinazione. D’altro canto, il personaggio sveviano osserva il conformismo e il successo sociale degli altri con ironia e un certo distacco, come se non fosse capace o disposto a competere con essi: «Mi trovai benissimo in quell’infelicità, osservandola come qualcosa che non mi apparteneva». (Italo Svevo, La coscienza di Zeno)

Nel sogno degradante proposto dai video di Grozdov, per esempio, il lavoratore che vorrebbe licenziarsi rimane solo per pagare Netflix. Un’ambizione veramente molto povera per i meccanismi della società del “se vuoi puoi conquistare il mondo”.

3. Autosabotaggio e procrastinazione

Cosini è un procrastinatore seriale. La sua famosa incapacità di smettere di fumare o di portare avanti con convinzione le sue imprese riflette un desiderio inconscio di non impegnarsi appieno e un costante rimandare le proprie responsabilità. Il quiet quitting non è necessariamente una mancanza di capacità, ma un rifiuto velato di impegnarsi profondamente, che si ritrova anche nel carattere di Zeno. Eppure la nostra società non fa altro che ripetere che se non ti impegni a fare qualcosa è perché non sei capace e di conseguenza se non realizzi i tuoi sogni la colpa è tua, non del sistema competitivo e truccato in cui viviamo, in cui ognuno di noi parte da punti diversi che più o meno influenzano l’arrivo.

La famosa incapacità di Zeno di smettere di fumare è un esempio emblematico di autosabotaggio: «Ogni sigaretta era l’ultima. Mi piaceva tanto il convincimento che la prossima sarebbe stata l’ultima». (Italo Svevo, La coscienza di Zeno)

D’altro canto, proprio con Pasha Grozdov si è visto come il sogno proibito di lasciare il proprio lavoro venga costantemente rimandato per la necessità di concedersi piccole inutili gioie, come l’abbonamento da una manciata di euro ad una piattaforma. Questo tentativo di smettere continuamente senza mai riuscirci è analogo al continuo rimandare e alla mancanza di un impegno reale, caratteristica del quiet quitting.

4. Il concetto di “malattia” e “cura” come disimpegno

Zeno Cosini è ossessionato dalla sua “malattia immaginaria”, che usa spesso come scusa per giustificare la propria mancanza di impegno e il proprio disinteresse. Se il quiet quitting non è una vera “malattia” o incapacità, di sicuro è un personale tentativo di “cura” che chi lavora usa per evitare di sovraccaricarsi o di farsi consumare dal lavoro. 

Zeno cerca una cura impossibile, ma questa ricerca rappresenta un alibi per giustificare la sua passività, proprio come il quiet quitter usa la strategia del “minimo indispensabile” per proteggersi dal burn out.

«Io sono un malato e, come tale, ho il diritto d’esser considerato e giudicato diversamente dagli altri uomini». (Italo Svevo, La coscienza di Zeno)

Si sa poi, che negli ambienti di lavoro, non è per nulla scontato trovare del rispetto per la propria salute mentale (ammesso anche che se ne parli). Ciò che conta è il profitto. Erich Fromm, in  Avere o essere?, analizza come la cultura moderna incentivi l’avere (il possesso di beni, l’accumulazione materiale e simbolica) a scapito dell’essere (il valore intrinseco dell’esistenza e della qualità della vita). «La società contemporanea ci ha trasformati in macchine di consumo… ma questo ci allontana sempre più da ciò che significa davvero essere umani». (Erich Fromm, Avere o essere?)

5. Vivere senza convinzione e ironia esistenziale

L’approccio ironico è il modo in cui si affronta quello che qualcuno chiama “trauma generazionale”. Questo va ben oltre l’inettisimo. Zeno vive in una sorta di osservazione distaccata di sé stesso, come se non prendesse mai veramente sul serio né il lavoro né le relazioni. Il quiet quitter è già alienato, per dirla in termini marxisti, e dunque disincantato. Non investe troppa energia emotiva, vedendo il proprio ruolo come qualcosa di esterno alla propria identità. Se questo si riflette in ambito lavorativo, ça va sans dire, figuriamoci nei rapporti interpersonali.

«Io non sono mai riuscito ad attaccarmi a nulla, e quel poco che ho raggiunto nella vita non è stato frutto del mio impegno, ma quasi sempre di qualche strana combinazione». (Italo Svevo, La coscienza di Zeno)

Dovremmo domandarci se oggi sia ancora possibile un autentico coinvolgimento quando si entra nelle logiche del profitto. Zygmunt Bauman, in Lavoro, consumismo e nuove povertà, esplora il concetto di “società liquida”, in cui le relazioni umane e il lavoro sono flessibili, precari e consumabili. In questa società, il lavoro diventa un’attività costantemente orientata alla produttività, senza stabilità e senza un legame profondo con l’identità. Questo si riflette nel rapporto che il singolo ha con il mondo, con il lavoro, e naturalmente con se stesso. «Il lavoro, nella società consumistica, non è più una condanna, ma è stato trasformato in uno dei riti del consumo». (Zygmunt Bauman, in Lavoro, consumismo e nuove povertà)

Forse il quiet quitting può avere un risvolto esistenziale che legge i problemi della nostra generazione; forse si tratta di una risposta più o meno volontaria alle richieste inaccettabili della società liquida di cui facciamo parte. Non dimentichiamoci che nel 2012 Elsa Fornero, allora Ministra del Lavoro e delle Politiche Sociali, durante una conferenza stampa aveva definito i giovani italiani «troppo schizzinosi» (usando il termine inglese choosy) nella scelta del lavoro, scatenando polemiche e dibattiti. Sembrerebbe che il trauma generazionale e una nuova concezione del lavoro stia trovando spazio. Questo orientamento rende l’inettismo una sorta di liberazione dalle richieste della società. Forse chi si comporta così verrà giudicato facilmente un pigro senza ambizioni, troppo choosy perfino per il lavoro che ha, tuttavia, quel che è certo è che il fenomeno si allaccia a una silenziosa anomalia, una ribellione, che ci aiuta a fare un identikit dei tempi in cui viviamo, di come li viviamo.

«Caro manager, mi licenzio perché tu ti aspetti che io lavori, ma la tua deadline mi ha dato solo traumi. Dichiaro te e il tuo 1:1s cancellato. Ma rimango per potermi pagare Netflix. Non mi contattare, a meno che non usi l’emoji giusta» (Pasha Grozdov).

Autore

Sono pugliese ma ho studiato fuori. Sto imparando a prendere le cose fragili con le mani bagnate. Ho scritto due libri di poesie. Amo la letteratura e una volta ho litigato con un prete.

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