Il documentario su Wanna Marchi è una finestra sul trash italiano degli anni 80 e 90

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Quando non gesticola con le mani, Wanna Marchi usa la mimica facciale per enfatizzare ciò che dice con la bocca. Seduta su una poltroncina davanti alle telecamere di Wanna – docuserie in quattro puntate di Netflix, uscita il 21 settembre – al centro di un salotto ben arredato, con le luci soffuse e un mobilio in stile industrial, la sua intervista è una masterclass di comunicazione non verbale all’italiana: Marchi fa su e giù con la testa per scandire il ritmo del discorso, nelle frasi più eccitate si stacca dallo schienale e agita tutto il corpo sulla sedia. E poi ancora fa spallucce, inarca le sopracciglia, fa delle pause tattiche mentre parla. Questo quando tutto sommato sta tranquilla. Quando si agita per davvero, quei modi già piuttosto teatrali e affettati diventano direttamente trash talking. Come quando le chiedono se non è stata troppo cinica a truffare delle massaie credulone: «I coglioni vanno inculati, cazzo!», sentenzia la Marchi con gli occhi fuori dalle orbite, il pollice e l’indice della mano racchiusi come quando si ordina a un bambino di smetterla coi capricci.

Più o meno su questa linea sottile che separa trash e super trash si muove Wanna, un documentario che cavalca il kitsch delle sue due protagoniste (insieme a Wanna Marchi c’è anche la figlia, Stefania Nobile) al punto da rifletterlo anche nell’estetica: a partire dal font in stile televideo e di color verde fluo usato nelle didascalie, fino al montaggio che nei momenti di maggiore suspance inserisce ricostruzioni kitsch da docu-drama alla Alta Infedeltà: porte che si chiudono, rumori di passi, tv accese in tinelli deserti e in penombra. (Avete mai pensato a quanto è evocativa dell’italianità media la parola “tinello”?) Se ci aggiungiamo anche il brano perfettamente mellifluo Cinque minuti di te che accompagna i titoli di testa, ecco che la cornice di Wanna è perfetta per ambientarci la storia delle regine delle televendite. Un’epopea che come molte altre storie italiane degli anni ’80 comincia con un grande sogno imprenditoriale e finisce nelle aule di tribunale.

Per lunghi tratti del documentario, per dirla tutta, si ha la sensazione che la vicenda delle Marchi sia solo un pretesto; che il vero obiettivo della serie sia raccontare proprio l’Italia rampante e truffaldina di quegli anni. Così, attraverso le immagini d’archivio di primissima qualità di Wanna sembra quasi di poterla respirare, l’atmosfera degli anni ’80: il consumismo in ascesa, le tv private che spuntano come funghi, la pubblicistica che supera l’informazione come quarto potere, l’inflazione e i debiti galoppanti. Un’Italia che sembra uscita dall’età del terrorismo solo per entrare in quella delle tangenti. La popolano industriali camaleontici, nobili spiantati, vallette televisive, giovanotti con le giacche di pelle copiate dai telefilm americani. L’Italia che ha appena vinto i Mondiali e che si vuole bene. Persino in politica, dove i governi iper-inclusivi del Pentapartito fanno scordare le fratture degli anni Settanta. È un’Italia edonista e insieme bigotta, che ama guardare di nascosto dal buco della serratura. L’Italia del Drive In, del clima godereccio dei film di Vanzina, delle corti di nani e ballerine.

In questo clima brulicante da Satyricon, la televisione si scopre un mezzo formidabile nel diffondere frivolezza. Merito delle reti private che crescono a ritmi vertiginosi, e che alla sobrietà bacchettona di mamma Rai rispondono con lo stile libertino dello zio scapolo che si ubriaca alle feste di famiglia. C’è solo un piccolo problema: in mancanza di entrate pubbliche le tv private devono finanziarsi in qualche modo. Così nascono le televendite, contenitori in cui si vende di tutto come in un centro commerciale virtuale e che diventano a loro volta delle impareggiabili fabbriche di trash. Cominciano a riempire i palinsesti dei canali successivi al 7 e offrono uno spettacolo a tratti esotico, onirico: svendite di orologi, tappeti, mobili, macchinette del caffè. Tutto è pacchiano, dall’esposizione erotica delle merci fino alle scenografie sature di colore e ai modi da mercato dei venditori. «Non sapendo cos’è la tv, mi son messo a gridare come fossi al centro commerciale» dice all’inizio di Wanna Roberto da Crema detto Il Baffo, che nelle televendite è solito urlare con voce ansimante e sbattere cronografi sul tavolo per dimostrarne l’indistruttibilità. A proposito di esotismo: girando su quei canali può capitare di vedere Giorgio Mendella, uno degli imprenditori-produttori-televenditori più audaci, seduto su un sofà con due leopardi al guinzaglio.

Il mondo delle televendite come metafora perfetta dell’Italia anni ’80 e ’90, quindi. Per lo meno, è questa la sensazione che si ha guardando Wanna, dove microcosmo e macrocosmo, televendite e paese reale appaiono accomunati dalle stesse peculiarità: stessa cialtroneria, stessa disponibilità enorme di denaro, stessa prospettiva di fare soldi facili a condizione che si sappia vendere (e vendersi). E infatti i televenditori diventano star nazionàl-popolari alla stessa velocità con cui diventano ricchi. «Nell’’84 potevo guadagnare cinque milioni di lire in venti minuti» dice Il Baffo a un certo punto del documentario.

Tutto questo è Wanna, non una semplice docu-serie ma una finestra su un’Italia sommersa ed evidentemente tossica in cui le Marchi ci sguazzano alla perfezione. Tutto nella loro presenza scenica è trash, dagli outfit sgargianti alle acconciature cotonate, dagli urlacci sguaiati ai dissing contro il mondo intero: contro i poteri forti, contro i nemici che gli mettono i bastoni tra le ruote, persino contro le loro stesse clienti. Il loro stile di marketing è aggressivo, il loro metodo per vendere cosmetici è dire in faccia ai clienti quanto fanno schifo: «Non appena vedo uno che ha la forfora, lo fermo anche per strada e dico: “Senti, vieni un po’ nel mio negozio che eventualmente ti regalo uno shampoo, ma togli quella forfora”». Il loro cavallo di battaglia però sono le “guerre al lardo”, le arringhe con cui riescono a vendere alle casalinghe italiane ogni sorta di diavoleria cosmetica (la crema “scioglipancia” è entrata nella storia) dopo averle insultate chiamandole «lardose», «grassone», «non c’è un uomo al mondo a cui piace avere un elefante nel letto».

Tutto nelle Marchi è trash: l’aggressività, certo, ma anche i loro modi patetici e melodrammatici. Come quando Wanna Marchi scoppia in lacrime in una delle prime dirette televisive: una rete privata l’ha invitata a vendere i suoi cosmetici ma, dopo le prime due ospitate in cui ha venduto quasi nulla, alla terza si presenta senza prodotti (dettaglio da tenere a mente) per annunciare al pubblico che non sarebbe più tornata. Lì, davanti alle lacrime di una donna che non sa come portare i soldi a casa, i centralini impazziscono. Wanna Marchi in un colpo inaugura la sua carriera di televenditrice e prende consapevolezza che il suo talento non è tanto vendere prodotti, quanto vendere se stessa, il suo personaggio.

Tutto nelle Marchi è trash. È trash la svolta di metà anni ’90, quando abbandonano le creme rassodanti e gli intrugli cutanei (prodotti dubbi ma ancora consentiti dal codice penale) per darsi ai numeri del lotto e alla fortuna; ed è trash la truffa che escogitano: vendere un sale della fortuna che dovrebbe far vincere alla lotteria, e se non funziona significa che la sfortunata pensionata all’altro capo del telefono ha il malocchio e l’unico modo per liberarsene è comprare una lettura dei tarocchi da parte del “maestro di vita” Do Nascimento oppure un amuleto confezionato dallo stesso, il tutto per diverse decine di migliaia di euro. È trash che la gente ci caschi, pure. È trash che a smascherare tutto arriva prima Striscia la Notizia della Guardia di Finanza, ed è trash il nome che la GdF attribuisce all’operazione, “Tapiro salato”.

Wanna e figlia hanno sempre rifiutato le accuse di truffa, appellandosi al loro diritto di venditrici di vendere la qualunque e facendo ricadere la colpa sui clienti e la loro ingenuità. «Se uno ti vende un attrezzo dicendoti che se ti attacchi per i piedi a testa in giù crescerai di cinque centimetri, è un truffatore lui o sei un coglione tu?», si difende Nobile. Secondo le Marchi, in verità, dietro la loro rovina ci sarebbe lo zampino di una persona molto potente che ha voluto fregarle. Si chiama marchese Attilio Capra de Carrè, un altro personaggio che sembra uscito da una puntata di Blu Notte o da Gli occhi del cuore di Renè Ferretti: nobile decaduto, affiliato alla P2, trasparente come un fantasma (provate a cercare informazioni su internet, se ci riuscite). Pare che maneggiasse un sacco di soldi e che stesse per mettersi in società con le Marchi, prima che quelle gli voltassero le spalle per andare con Do Nascimento (che di Capra era il cameriere). Secondo Wanna e Stefania fu il marchese, per vendicarsi, a fare la soffiata a Striscia e distruggere il loro impero. Non sappiamo se le cose siano andate così oppure no, ma è anche per storie come questa che mentre guardiamo Wanna ci chiediamo: chi sono le Marchi, davvero? Due menti diaboliche che hanno plagiato delle persone troppo per bene, o la naturale proiezione di un paese ignorante e corrotto?

Autore

Classe 1992, ho una laurea in architettura e scrivo di calcio e cultura pop sul web. Sono nato il 23 dicembre come Morgan, Carla Bruni e Dino Risi.

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