Libere, secondo chi? Donne e velo in Iran

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In queste settimane tutto il mondo sta seguendo con ansia gli avvenimenti dell’Iran, dove si svolgono violente proteste per i diritti delle donne a seguito dell’uccisione della ventiduenne Masha Amini, deceduta dopo l’arresto della polizia morale perché indossava male il velo.

Dalla morte della ragazza, il 16 settembre, in tutto il paese si è scatenata un’odata di proteste senza precedenti, accompagnata da un’importante risonanza mondiale. Tra i diritti chiesti dalle donne iraniane, figura il diritto di non indossare il velo o di indossarlo in modo meno rigido, come avviene già in altri paesi a maggioranza musulmana.

Il tema del velo è particolarmente sensibile in occidente, e da anni si cerca di limitare la possibilità delle donne musulmane di indossarlo. Che vivano a Roma o a Baghdad, in occidente le donne musulmane con il velo vengono sempre dipinte come sottomesse ad una società patriarcale che impedisce loro di essere libere.

Libere, secondo quali criteri? 

Parlando proprio di Iran, è sufficiente digitare su google “Iran anni ‘70” per essere travolti da una miriade di articoli con donne seminude in copertina. I titoli sono del tipo «Quando le donne iraniane erano libere” oppure “La vita trasgressiva delle donne in Iran prima della rivoluzione», spesso accompagnati da foto di donne velate (senza considerare le distinzioni tra i vari tipi di velo) come se il velo, e solamente il velo fosse simbolo dei cambiamenti culturali avvenuti dagli anni ‘80 ad oggi. 

Donne su riviste anni 70, Iran
Rivista iraniana anni ’70

Secondo alcune femministe occidentali, questo è l’unico modo per essere “donne libere”. Non viene lasciato spazio alla pluralità, alla religione e alle tradizioni di ogni singolo paese. Le donne musulmane però non hanno mai pensato che abbandonare la loro cultura in favore di un’altra fosse la soluzione alla misoginia religiosa, infatti all’inizio degli anni ‘90 la storica di origine egiziana Leila Ahmed scrive:

(…) l’idea che l’emancipazione delle donne sia realizzabile solo attraverso l’abbandono dei costumi di una cultura androcentrica locale in favore di un’altra cultura non ha alcuna validità.

Da molto tempo i postcolonial studies hanno evidenziato come non esista un’universalità dei diritti delle donne, perché l’esperienza femminile varia in base al contesto. Non si può quindi parlare di donna o di musulmana come categorie astratte e sempre uguali a loro stesse, bisogna invece calarsi nel preciso contesto storico e sociale.

Per questo molte femministe islamiche che studiano autonomamente il Corano in un’ottica di genere sostengono che il problema non sia il testo sacro dell’Islam, ma l’interpretazione atemporale degli uomini. Alcuni precetti, che potevano avere senso in un determinato periodo storico, non sono applicabili nell’epoca che stiamo vivendo. Queste studiose ritengono infatti che nel Corano siano presenti tutti gli elementi per raggiungere la parità di genere

Protesta femminista

Il femminismo islamico, che nasce da un impianto postcoloniale, rigetta quindi l’idea che l’uguaglianza di genere si possa ottenere solo ricalcando modelli occidentali. Al contrario, ogni cultura deve trovare il modo di raggiungere la parità in base alle sue tradizioni.
Le femministe islamiche devono quindi affrontare una duplice difficoltà: sradicare la misoginia presente nei paesi islamici da un lato, ma anche contestare l’immagine stereotipata della donna musulmana in occidente. In Italia abbiamo un esempio nell’attivista femminista e queer Sveva Basirah, che dalla sua conversione all’Islam ha dovuto affrontare discriminazioni sia in quanto donna velata in italia, sia in quanto donna queer musulmana. 

Esperienze come quella di Sveva Basirah ci insegano come attiviste e studiose islamiche abbiano dato vita un femminismo che non rifiuta, ma anzi include l’Islam e il corano. È assurdo pensare di imporre loro un femminismo occidentale che vede il velo, e l’abbigliamento modesto che comporta, come simbolo di sottomissione.

«Be a lady, they said»

Far coincidere la libertà femminile con la possibilità di svestirsi è un’opinione per certi versi già superata. Diverse pensatrici femministe occidentali hanno da tempo riconosciuto la limitatezza di questo pensiero. La scrittrice francese Virginie Despentes, anarco-femminista con un passato nel mondo del sex working, esprime con efficacia questo pensiero nel libro The King Kong Theory. Parlando della presunta libertà delle donne di svestirsi, critica invece una società che pare voler ridimensionare il ruolo femminile proprio attraverso i diktat estetici che impone. 

(…) nessuna società è mai stata tanto permissiva quanto alla libera circolazione fisica ed intellettuale delle donne. La sovramarcatura della femminilità sembrerebbe una scusa conseguente alla perdita delle prerogative maschili, un modo di rassicurarsi rassicurandoli. (…) Le donne si sminuiscono da sole, dissimulando quanto hanno appena conquistato, adottano una postura di seduttrici, ripristinano il loro ruolo in modo tanto più ostentato quanto sanno che, sostanzialmente, ormai non è che un simulacro. L’accesso ai poteri maschili implica la paura della punizione. Uscire dalla gabbia ha sempre comportato sanzioni brutali.

Cosa vuol dire quindi, essere libere? Nel video di Cynthia Nixon Be a lady vengono mostrati tutti gli imperativi a cui le donne sono sottoposte per essere validate dalla società. Tra questi troviamo «non essere troppo provocante» e poi un contraddittorio «sei troppo vestita», e ancora un violento «te lo sei cercata». Anche volendo ignorare questi diktat schizofrenici, le donne finiscono lo stesso per assimilarli e non riuscire ad esprimere la propria soggettività liberamente.

In ogni caso, sia in oriente che in occidente, la libertà delle donne è sottoposta ad un giudicante sguardo maschile che le impedisce di esprimersi in autonomia.

Vignetta con due donne

Lottare per i propri diritti

È vero che l’Occidente garantisce – più o meno – alle donne diritti basilari quali l’istruzione, l’aborto, il divorzio, la cittadinanza attiva e passiva. Questi diritti, spesso in pericolo, sono comunque frutto di lotte e conquiste di generazioni e generazioni di donne che hanno creato la loro libertà. In un momento come questo, sostenere che esista un modello di donna libera da seguire è pericoloso sia per le donne musulmane, quotidianamente attaccate a causa della loro fede, sia per le donne occidentali, che spesso vivono nell’illusione dell’inalienabilità dei loro diritti. Ci ammoniva Simone de Beauvoir: ​​

Non dimenticate mai che sarà sufficiente una crisi politica, economica o religiosa perché i diritti delle donne siano rimessi in discussione. Questi diritti non sono mai acquisiti. Dovrete restare vigili durante tutto il corso della vostra vita.

Le donne iraniane non stanno protestando perché vogliono abbandonare in massa la religione islamica o perché nessuna di loro vuole più indossare il velo: si tratta dei loro diritti basilari, gli stessi che in occidente sono stati conquistati appena nell’ultimo secolo. Non è solo indossare o meno il velo, il velo può certo essere un simbolo delle imposizioni governative, ma non è la matrice del problema. Il femminismo vuole la parità economica, politica e sociale della donna, ed è proprio questo che stanno chiedendo le donne iraniane.

Strumentalizzare ciò che sta accadendo in Iran per sfogare una mal celata islamofobia è un atteggiamento colonialista e occidentalocentrico. Infatti, mentre in Iraq e Afghanistan si lotta per il diritto a poter non indossare il velo, o indossarlo il modo meno rigido, in paesi come India e Francia accade l’esatto opposto: le donne musulmane lottano per il loro diritto a professare la propria religione anche attraverso il velo.

Protesta anti islamofobia in Francia, 2019

Per questo l’antropologa Lila Abu Lughod sostiene la necessità di sfatare la retorica coloniale e missionaria secondo cui le donne musulmane necessitano di essere salvate e afferma che, piuttosto che cercare di salvarle (con l’atteggiamento di superiorità che ciò implica e le violenze che esso comporta), sarebbe dunque meglio lavorare al loro fianco riconoscendo le proprie responsabilità nella costruzione delle ingiustizie globali.

Autore

Romana naturalizzata milanese. Studio arti ma parlo troppo di politica, mi piace quando riesco a unire le due cose.

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