Oligarchia del (buon) gusto: innovare il linguaggio televisivo è una questione politica

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Chissà se è stato il pezzo sul politicamente corretto che Pio e Amedeo hanno interpretato a Felicissima Sera, a valere ai due comici il premio per l’innovazione del linguaggio televisivo, ricevuto ai Seat Music Awards 2021. I due comici lo avevano promesso in quell’occasione, con un entusiasta: «Uè dai che cambiamo la comunicazione», che le cose non sarebbero mai più state le stesse. Ora, a prescindere dal fatto che Pio e Amedeo facciano ridere o meno, tralasciando, ancor più, il dibattito su quale sia il giusto tocco comico da riservare a tematiche che possono toccare la sensibilità delle minoranze. Credo che non ci siano dubbi sul fatto che il verbo “innovare” significhi qualcosa di ben diverso. Qualcosa che non ha nulla a che vedere con ciò che fanno Pio e Amedeo. L’aspetto più contestabile al duo di comici pugliesi, purtroppo, riguarda proprio il motivo per cui sono stati premiati dalla Rai. 

Pio e Amedeo dedicano il loro trofeo alla libertà di opinione, presentandosi, con una mossa che ha un che di demagogico, come i primi oppositori di quella che chiamano «oligarchia del gusto». Una forma di governo inventata ad hoc, che si impone sul regno dei gusti del pubblico, e che serve al duo comico per esprimere profondo sdegno nei confronti del potere di chi, secondo loro, decide cosa può o non può piacere allo spettatore. Secondo la narrazione di Pio e Amedeo l’oligarchia del gusto sarebbe un regime pressocché dittatoriale, retto da un’entità indefinita che «se ne frega del sentimento popolare» e che loro osteggiano attivamente, in veste di partigiani della libertà. Nella realtà dei fatti, ci sono degli elementi della comicità di Pio e Amedeo che, se rapportati a sperimentazioni comunicative davvero innovative, ironiche, sottili, si mostrano in tutto il loro conservatorismo. Nella stucchevole volontà di proporsi come atti di ribellione creativa, pur rimanendo nell’inerzia.

Pillola rossa o pillola blu?

L’innovazione del linguaggio dell’intrattenimento, e non soltanto quello televisivo, può essere una questione di formato, oltre che di contenuto. Se si pensa alle pillole video della web serie ideata dal trio comico romano The Pills, ci si renderà conto di quanto sia interessante portare su un terreno già battuto da schemi comunicativi reiterati come quello di Youtube, un modello di contenuto alternativo a cui gli utenti della piattaforma sono tutt’altro che abituati.

La lezione del ready made di Duchamp può essere estesa ad ogni dominio delle creatività. Inserire un formato mai visto, in un contesto che non ne conosce le potenzialità, è sempre una mossa che ha un che di rivoluzionario. I The Pills hanno girato di centottanta gradi il video classico di Youtube e lo hanno chiamato “pillola”, invece che “fontana”, rendendolo qualcosa di radicalmente diverso. In questo senso, l’innovazione del linguaggio passa per la forma. 

I video dei The Pills sono retti da una struttura che è cinematografica, molto prima di essere adatta al web, e sono ordinati secondo una dinamica orizzontale, seriale, che prima di loro difficilmente veniva associata ai contenuti di Youtube. Il bello è che l’eleganza della forma è soltanto un modo per disfarsi di ogni responsabilità riguardo il contenuto. La serialità, per esempio, è solo di facciata, non è seguita da un assetto di trama che viene interrotto e poi ripreso nella puntata successiva. La coerenza della serie è mantenuta soltanto grazie a poche coordinate, limitate ai personaggi e ai luoghi. Allo stesso modo, il bianco e nero, carattere distintivo dei The Pills, più che un omaggio evocativo al cinema d’altri tempi, sembra essere capitato per caso. 

Le scelte stilistiche dei video, infatti, non sono lì per nobilitarne il contenuto, ma per ribadire il diritto di quel contenuto di essere ciò che vuole, dal momento che lo si è fatto calzare perfettamente nella sua forma.

Di dieci cose fatte te n’è riuscita mezza

Comunicare in maniera innovativa può voler dire anche delineare un personaggio forte, convincente, credibile nonostante le sue contraddizioni. Tutto questo è Pippo Sowlo, la nemesi del trapper narciso, la cui forza aggressiva e dirompente sta nel frustrarsi per i dieci tentativi falliti, più che incensarsi per la mezza cosa in cui ha avuto successo. Pippo Sowlo ribalta la prospettiva solenne che avvolge la trap e il mondo rap in generale, creandoci attorno un immaginario diverso: non è un ribelle in perenne contrasto con la legge, perché si vende serenamente alle guardie per due spicci, non osanna il culto della bellezza attraverso le sue “bitches”, perché le donne non gli stanno proprio simpaticissime, non rima sulle sue tasche straripanti di soldi, perché studia filosofia e quando è così, per le proprie finanze, c’è poco da fare. L’aspetto che rende unico il trapper romano è la distanza dall’autocelebrazione delle personalità invincibili, ma anche dalle posizioni zen di chi accetta il fallimento, perché si sente sopra le parti.

Pippo Sowlo parla della sua frustrazione con un’ironia amara, ma azzeccatissima, perché appare autentica anche nelle rime più borderline. Nei suoi pezzi ci sono affermazioni misogine, violente, razziste, da buttare giù senza edulcoranti, fino ad arrivare a offendersi. La verità è che far pronunciare tali aberrazioni a un personaggio che parla con la voce di una frustrazione costruita ad arte, ribalta la situazione al punto da far ragionare, chi ascolta, su quanto determinate idee assurde possano essere state un pensiero anche suo. Al personaggio di Pippo Sowlo è concesso di esagerare senza paura, perché ha creato il contesto per farlo. Per questo non chiede mai di non prendersela, chiede piuttosto di pensare a quanto certe affermazioni siano offensive, a prescindere dal doppio standard che utilizziamo per valutare ciò che ferisce noi e ciò che ferisce gli altri. Ma soprattutto, a quanto questa ipocrisia sia riassorbibile nell’immagine di brava persona che ognuno di noi ha di sé stesso.

E dove c’è uno strappo non metti mai una pezza

Una pezza invece va messa al più presto, assicurandosi che sia di Lundini! 

Per arrivare al dunque, e parlare di innovazione del linguaggio strettamente televisivo, non si può non citare Una pezza di Lundini. Il programma va in onda sulla tv nazionale, ed è trasmesso dalla stessa emittente che ha ospitato Pio e Amedeo in occasione dell’intervento sul politicamente corretto. Il confronto si fa serrato, non solo per la collocazione degli interventi comici in spazi televisivi commensurabili, ma anche per l’immenso lavoro sui linguaggi che Valerio Lundini fa nel suo programma. Una pezza di Lundini è fondato sulla parodizzazione ingessata e piena d’imbarazzo del linguaggio televisivo, a partire dall’introduzione pseudo-giornalistica di Emanuela Fanelli. Gli esempi che calzano maggiormente in un confronto sul tema del politicamente corretto però, sono quelli in cui Lundini ripropone fedelmente un atteggiamento stereotipato nei confronti di una minoranza, uno di quei comportamenti per bene che fanno sentire tanto a loro aglio gli ospiti dei salotti da talk show.

Lo sketch sul Teatro di Prassede restituisce con disarmante onestà intellettuale il modo zuccheroso con cui siamo soliti rivolgerci a persone con disabilità, la canzone Bango Bongo, sottolinea le perplessità di un padre nei confronti del fidanzato congolese della figlia, i monologhi della serie Voci di donne, scritti ed interpretati da Emanuela Fanelli, ironizzano con raffinatezza su quel teatro al femminile che si prende un po’ troppo sul serio.

I canoni comunicativi entro i quali si è soliti parlare di minoranze, sono costretti a passare sotto la lente onesta e impietosa dell’imbarazzo, in un gioco che è intelligente, perché non pretende di parlare per qualcun altro. Valerio Lundini ed Emanuela Fanelli ironizzano, ma mettendosi dalla parte di sé stessi, senza volersi immedesimare in qualcuno che non conoscono, perché sanno bene che un individuo non è la minoranza che rappresenta, né la categoria che gli viene cucita addosso, ma una personalità singola.

L’ironia salverà il mondo

L’umorismo di Pio e Amedeo, al contrario, ha tutte le caratteristiche della paternale perbenista, che spiega per filo e per segno come comportarsi a chi si trova in una situazione imparagonabile alla loro, senza alcuno sforzo di empatia. Non c’è quindi innovazione dei canoni comunicativi, nel senso del lavoro sui linguaggi portato avanti da Lundini. Non c’è un formato innovativo in senso duchampiano, perché gli interventi di Pio e Amedeo, a livello di forma, sono quanto di più visto in televisione, soprattutto se si guarda alle performances dei comici italiani. Non c’è sovversione della gerarchia personaggio-pubblico, non c’è quel riassestamento che costringe lo spettatore a guardare alla realtà senza coperture buoniste. Anche quando i due comici tentano di darsi dei “terroni” con una mossa simile all’auto-attribuzione di una definizione dispregiativa, che è stata dei Macchiaioli e dei Decadentisti, non mettono mai in discussione la loro condizione di privilegio. 

Pio e Amedeo continuano a parlare da privilegiati, guardando il pubblico dall’alto del palcoscenico, convinti che tale posizione sia di per sé una garanzia d’assenso. Per questo di ribelle o sovversivo rispetto all’oligarchia del gusto, nei monologhi dei due comici, non c’è proprio nulla. Anzi, il sapore preponderante è quello del pressapochismo. 

Se lo scopo è quello di innovare il linguaggio televisivo, più che evitare l’oligarchia del gusto, gli sforzi dovrebbero concentrarsi verso un’oligarchia del buon gusto, per costruire una televisione dove idee intelligenti nutrono un intrattenimento realmente ironico. 

Infatti, come dicono saggiamente Pio e Amedeo: «l’ironia salverà il mondo». E questo è certo. A patto che alle battute ironiche non si rida solo in due o tre. L’innovazione della comunicazione televisiva può diventare un discorso politico a tutti gli effetti, e se questa metamorfosi riuscisse a passare per la risata, sarebbe davvero il massimo. A ridere però, dobbiamo essere tutti. 

Autore

Studio favole e da grande voglio fare l’imperatrice. Perché confessare che dopo un’adolescenza tutta friulana, mi sono innamorata di Torino e mi sono iscritta a filosofia, è sicuramente meno d’impatto. Ho due desideri: far promuovere a disciplina olimpica la mantecatura del risotto e imparare a risolvere i problemi con la stessa risolutezza di Mara Maionchi.

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