Un anno dopo la strage di Cutro: uno sguardo critico sulle politiche migratorie e di inclusione con Sergio Nazzaro

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Riconoscimento dell’altro, questo concetto era alla base del pensiero dello psicoanalista Jacques Lacan, ed è questo il fondamento umano che manca nelle politiche migratorie e di inclusione italiane. Ciò non avviene solamente nella legislatura parlamentare corrente, ma sono anni che la politica ha ragionato sull’immigrazione extracomunitaria come se affrontasse un problema e non un’opportunità e una possibilità di sviluppo. 

La strage di Cutro, che nella nottata tra il 24 e il 25 febbraio 2023 ha causato uno dei picchi più bassi della nostra gestione migratoria, non è stato un caso isolato: la strage di Lampedusa del 2013, la mattanza di San Gennaro del 2008 sono solo la punta dell’iceberg di una concezione dell’immigrazione malata alla radice.

Sergio Nazzaro, giornalista, scrittore e saggista, ha scritto e documentato le condizioni degli extracomunitari per tutta la sua carriera e attraverso la sua conoscenza del fenomeno abbiamo provato a ragionare sull’immigrazione e sulle persone migranti.

Le immagini della tragedia di Cutro, accaduta un anno fa, le ricordiamo tutti. La tratta che avrebbe toccato la Calabria era la tratta che nasceva in Medio Oriente e non in Africa: con rapporti tra Italia e Turchia più forti, questa tragedia si sarebbe potuta evitare?

«No e non è così semplice perché non riguarda solamente il rapporto tra due Stati, ma va analizzata la dialettica tra Unione Europea e Turchia. I fondi stanziati verso la Turchia da parte dell’Unione Europea, con la Commissione Von der Leyen, avevano come obiettivo la creazione di campi profughi per non far arrivare persone in Europa. Parliamo di miliardi di euro per contenere e bloccare le persone, non per aiutarle.

Vogliamo sempre che qualcuno fermi l’ondata migratoria verso l’Europa e la strage di Cutro, la strage di Lampedusa del 2013, la strage in Grecia con i suoi oltre 500 morti, tra le innumerevoli che sono avvenute, sono stati avvenimenti che hanno aumentato il cimitero di corpi che sta diventando e che è diventato il Mare Mediterraneo. Ma nulla cambia mai per davvero.  

Nei giorni in cui accade tutto questo, il Primo Ministro Meloni dichiara come non sia stata lei o le forze di governo ad aver causato ciò, dichiarazione dovuta dalle polemiche create dalle opposizioni e dal sentire politico. 

Io credo che la Meloni non abbia voluto creare questa ecatombe. Nessuno può essere così folle a pensare ciò e allo stesso così folle da credere a questa cosa. Ma certamente si crea un clima di astio verso il diverso, verso il migrante. E abbiamo i più realisti del re. Come si traduce tutto questo? Che diventa sorprendente che un barcone parte dalla Turchia per raggiungere l’Italia? È assurdo che persone nate in paesi dove ci sono guerre, fame e carestia, vogliano venire in Europa, una delle zone più ricche al mondo? E la traduzione del discorso dei più realisti del re è nei giorni seguenti. Fa riflettere amaramente che poi si dica: “non li abbiamo visti”, “il barcone reggeva”, “non avevamo spazi di manovra” etc. 

Ma a chi abbiamo delegato il controllo dei nostri confini? Spendiamo decine di miliardi in strumenti di difesa e poi permettiamo che le persone muoiano affogate. Dobbiamo essere chiari ma non semplicistici nel ragionare, perché è anche dalle basi del ragionamento che possiamo trarre conclusioni anche su e soprattutto su questi avvenimenti e fenomeni».

Queste persone tra l’altro erano quasi a riva, non si sta parlando di un’operazione ipotetica in mare aperto e nel mezzo della tempesta.

«La tragedia di Lampedusa, nel 2013, è avvenuta ad un miglio circa dalla riva, per fare un esempio. A Cutro sono morte persone su una secca.

Una cosa dobbiamo dirla: quelle che sono morte sono persone. Esseri umani, fratelli sorelle, padri e madri, parenti di qualcuno. Si è consumato un dolore immane e mi toglie il fiato pensare sempre ai dispersi. Disperso, neanche un corpo, solo un dolore infinito. La perdita di chi vuoi bene senza mai avere la possibilità di poter abbracciare neanche il ricordo con una tomba su cui piangere. È straziante. Si è creato un meccanismo tale per cui la nostra quotidianità, privilegiata perché Nord del mondo con i suoi alti e bassi, viene vista come in pericolo perché c’è qualcuno che scalzo arriva con un barcone sulle nostre spiagge. Ma anche qui non raccontiamoci favole, perché l’emigrante non è sinonimo di simpatia e non sempre l’autoctono andrà d’accordo con l’emigrante, come non si va sempre d’accordo con il vicino di casa, ma tramutarli tutti in criminali è insostenibile.

Una frase bellissima del documentario Black Mafia, di Romano Montesarchio a cui ho lavorato, spiega benissimo cosa si deve evitare: “l’uomo affamato è il laboratorio del diavolo”. O ci nutriamo come comunità, o prevale una sopravvivenza che ci disumanizza. Torniamo a Cutro. Qua siamo sulle nostre coste: un barcone che si muove nel Mediterraneo, una tragedia che sembra piovuta dal nulla, rimaniamo tutti sconvolti. Poi, solo grazie alle investigazioni indipendenti che si sono svolte, ha gettato luce sul caso, indicando possibili responsabilità. Ne abbiamo più saputo qualcosa? Di chi sono le responsabilità del mancato soccorso in mare? La disattenzione è il vero problema. Si piange, ci si dispera, si dimentica. Ma non tutti. 

Lì a Cutro non è avvenuta una situazione romantica ma il paese reale e la collettività reale, che ha radici forti nell’umanità e in quel senso di solidarietà, dinanzi all’ecatombe non ha provato a farsi indietro. Le persone di Cutro si sono buttate in mare per salvare i migranti, hanno provato a dare fratellanza e accoglienza. Li avete visti spaventati dall’invasione dei migranti? Li avete visti chiudere le porte in faccia? Di quei giorni rimangono impressi i volti dei calabresi che guardavano il mare con pietà e altruismo. 

La politica, invece, ha dettato una moralità avversa a chi entra nel nostro paese attraverso il mare. Rimane la domanda: chi il dovere delle chiamate di soccorso di quella giornata? Chi non ha agito e forse anche disobbedito a degli ordini per salvare delle persone? Perché ci sono sempre carriere da salvaguardare, posti da mantenere e l’ignavia regna. I più realisti del re. 

L’ignavia alla base della nostra società che ha diramazioni su tutti i piani, dall’economia, alla politica, alle mafie, porta a fare calcoli sulla carriera e non sull’umanità. Un vile servilismo che dinanzi alla vita umana preferisce servire e rimanere indifferente».

Credi quindi che alla base di questo disinteresse e servilismo, che crea mostri e tragedie, vi sia anche una visione del mondo puramente economica che la nostra società propone?

«Solo le persone libere vivono e creano empatia, realizzano visioni di comunità altre. Chi è libero da una servitù basata sul denaro e sul reddito compie scelte che hanno una visione di umanità superiore alle altre. Perché l’altro non è una minaccia al mio status sociale, ma parte della mia umanità.

Questa società non si basa sulla promozione dei tuoi valori ma sulla promozione di stipendio perché hai fatto il tuo lavoro, e non perché hai fatto del bene agli altri.

Noi, come Stato, abbiamo perso nei confronti delle mafie perché nelle discussioni di tutti i giorni, nelle chiacchierate da bar, nei confronti a tavola tra i genitori e i figli si parla solo di una cosa: i soldi. Il mutuo, la scuola, i debiti, e si parla solo di questo. E la differenza tra noi e le mafie sta nella triste realtà che la criminalità organizzata è più meritocratica: se spari vai avanti. Se calpesti vai avanti. Non ricorda la nostra società? Oppure ci raccontiamo una diversità che nei fatti non esiste? Vieni promosso solo se produci denaro, guadagni di più, o qualcuno ha sentito che hai ottenuto una promozione perché ti sei dedicato al volontariato nella tua comunità? Mi pongo dubbi e domande. 

Noi siamo i mafiosi veri nel nostro agire comune, perché abbandoniamo la meritocrazia e pur di andare avanti in finte carriere abbandoniamo quei valori di cui tanto ci decantiamo. Luciano de Crescenzo aveva ragione in “Così parlò Bellavista” quando si rivolge al camorrista, ma questa frase ce la dobbiamo dire tra di noi: Ma tutto sommato nun è ca facite na vita e merda?»

La strage di San Gennaro, con i suoi 7 morti di persone nigeriane nel 2008, è una figlia di questo pensiero. Lì lo Stato non ha perso perché le mafie hanno gestito e gestiscono le povertà?

«Noi con le nostri armi della democrazia e dei valori fondanti come la solidarietà tra le persone dovremmo cercare di costruire una collettività che pensi e agisca nei confronti degli ultimi. Invece no. Ti isolo le povertà. Ti isolo i migranti. I diritti sociali sono sempre più per pochi. Ti tolgo diritti ma hai più gratta e vinci. Meno diritti, ma probabilità di vincere un terno. Forse. Diciamo la realtà, su come viviamo. Questa realtà neoliberista, che oltremodo noi spacciamo per nuova, pone come base fondamentale il profitto, noi dove vogliamo arrivare?

La strage di San Gennaro non è avvenuta come un avvenimento spauracchio della storia: siamo al tempo della maggior età di un’altra strage meno nota, la Strage di Pescopagano del 1990, condotta dal clan la Torre che infastiditi dal traffico di droga gestito da altri va lì e ammazza gente: 5 morti e 7 feriti. Nel 2008, nel settembre del 2008, Setola e il suo gruppo di assassini fanno questa carneficina. Il luogo è lo stesso tra le due stragi, ovvero il litorale Domizio. La camorra ha creato il ghetto come disse qualcuno? No. Il ghetto è la dimenticanza dello Stato verso gli ultimi e i dimenticati della società in determinate zone ben delimitate.

Noi, che sul territorio ci vivevamo, eravamo a conoscenza di essere ghetto e Giuseppe Setola, mandante della strage e un criminale sotto sostanze stupefacenti quella sera, non ha compiuto quella mattanza per motivazioni razziali. Era puramente un’azione di terrore per avere la tangente da parte dei gruppi nigeriani insediati lì. Tutto questo perché lo Stato ha dimenticato un luogo e le persone in quel luogo. 

La cattiva urbanizzazione per essere gentili, e per essere cattivi era un incubo urbanistico basato su questi grattacieli della “Miami Beach” italiani di Villaggio Coppola e il Parco Verde di Caivano,  rendono impossibile la nascita della bellezza. Utilizzando le parole di Don Maurizio Patriciello “se vuoi lavorare e sei di Caivano non puoi perché non c’è l’autobus”. Questo spiega come lo stato concepisca certi luoghi e quartieri.

C’è un film su un killer belga che nel descrivere le città del Belgio fa dire al protagonista una vera e propria sentenza: ci sono città costruite per stare male e qui lavoro bene quando ammazzo».

In un tuo reel su Instagram hai dichiarato come ci debba essere la necessità di raccontare l’immigrazione per quello che è: un fenomeno storico. Nei Tg nazionali non si parla più di immigrazione ma abbiamo un film sull’immigrazione, Io Capitano, che racconta di questo ed è candidato all’Oscar. Cosa ne pensi di questo dualismo?

«Nel libro “Il testimone” di Saer c’è scritto: “l’innocenza perfetta e proficua dell’affabulatore che, più per ignoranza che per carità, mostra spaventapasseri che si credono sensibili e amanti della verità come l’aspetto tollerabile delle cose”.

Io amo Garrone, ma le scene del deserto non sembrano troppo romantiche? Non sembra troppo bello il Mediterraneo? Il finale mi ha lasciato perplesso, l’elicottero salvifico che chiude in bellezza la traversata. Ma non è successo a Cutro. In questi giorni soltanto un ragazzo è morto su una barca perché ha battuto la testa poco prima di essere soccorso. Ecco questo avrebbe scosso di più lo spettatore.

E poi l’inferno arriva se finisci vivo il viaggio, nel momento in cui tu immigrato arrivi nel paese ospitante. Se il film fosse finito con una nave affondata sarebbe stato un vero colpo al cuore, perché per statistica vi sono più tragedie che successi del viaggio. E personalmente non trovo la risposta a chi sono i responsabili nel film, sembra che non ce ne siano. La stessa mafia libica, che ha minacciato diversi giornalisti italiani ed anche un sacerdote come don Mattia Ferrari, viene tratteggiata velocemente senza mai indicare i suoi legami istituzionali da una sponda all’altra del Mediterraneo. Ma rimane un lavoro che spero possa aprire gli occhi. E Garrone ha grande senso civico e onestà intellettuale, era tra i pochi a girare a Castel Volturno, luogo della strage del 2008, prima che diventasse una location per tutti, perché alla moda con il suo degrado. 

Le persone emigrano per tentare un futuro migliore, ma se sono italiani che si spostano è un conto mentre se sono stranieri poveri è un altro. Questa che sembra essere una banalità va ribadita, perché è ormai una narrazione consolidata. Italiano migrante, va bene. Nero emigrante? Allora no, non va bene. Alla base c’è una disuguaglianza profonda che va affrontata e che dobbiamo affrontare studiando i fenomeni. Oltre lo studio, c’è bisogno di connettersi con chi è diverso da noi, ascoltare il nostro essere umani anche se ci priva di un pezzetto di benessere». 

Chi emigra per la maggior parte è povero, ed è nella speranza di qualcosa di migliore che cambia vita e luogo. La povertà è una madre dell’illegalità e della delinquenza, che porta poi al carcere. Ciò crea indirettamente l’equivalenza emigrante – criminale. Come la smontiamo questa narrazione?

«Se noi alimentiamo la povertà invece dei diritti, dei doveri, dell’integrazione, questo avviene. C’è un problema di persone abbandonate nelle grandi città, di una sicurezza percepita che manca tra i cittadini, ma la criminalità non fa differenza tra colore della pelle, perché la criminalità ha fame di territori e se ne frega dell’etnia.

Il mancato sviluppo di zone retrograde del nostro Paese non solo dovute dall’illegalità ma dalla mancanza della legalità… ma il problema è straniero. Il problema non è del comune, è della provincia, poi della regione, andando avanti fino ai poteri più elevati. E le forze politiche danno la colpa a chi governava prima e ciò crea sfiducia e disillusione nella popolazione. La colpa è quindi straniera. Allora riprendiamoci la responsabilità di schierarci e di porci noi come agenti di cambiamento. Nessuno può aiutare tutti, ma tutti possono aiutare qualcuno. Ecco, rimaniamo semplici e agiamo. Si crea un assioma semplice: migranti, società non sicura, mettiamoli tutti in galera per stare al sicuro. 

E così nelle carceri ci vanno gli ultimi e non i potenti. Banale ma vero. I veri criminali creano economia, costruiscono città e non vanno più a sparare o a chiedere il pizzo. La mafia, quella che fa davvero male, fa sciogliere il comune per infiltrazione e acquista la tua democrazia tanto cara a tutti noi, però l’immigrato è sporco e puzza. Infatti facciamo immani discussioni sul 41bis, sui veri potenti criminali, che sono un migliaio. Titoli di giornali e discussioni giuridiche a profusione, sulle migliaia di disperati nelle carceri poche confuse parole». 

Abbiamo una visione dell’Occidente come centro anche del controllo dei flussi immigratori; con i Brics che vogliono proporre un approccio nuovo, l’Unione Europea con l’Italia ed il Piano Mattei, credi che qualcosa di diverso possa avvenire?

«Del Piano Mattei bisogna parlarne avendo le carte sennò continuo il brutto andazzo di dare opinioni su tutto. Il piano Mattei riguardava tutta l’Africa? Vi erano tutti gli stati rappresentati nel confronto con l’Italia del continente africano? Si basa su uno scambio di materiali o di un piano per incrementare la miglior parte della società africana?

E poi l’Africa è enorme: gli Stati vivono per le loro zone culturali e geopolitiche situazioni così diverse l’uno dall’altro dovuta dalla povertà, dalla corruzione, dai colpi di stato e dai dittatori che diventa difficile concepire tutto come sola Africa. Io spero che il governo possa dare informazioni sempre più specifiche su questo piano così che possa essere analizzato da esperti al meglio ma dobbiamo aspettare a trarre conclusioni.

Noi tuttora siamo coloniali nei loro confronti, non ce ne siamo mai andati da lì. L’uso del prefisso neo davanti al termine colonialismo è vuoto di significato perché non è qualcosa di nuovo, noi siamo ancora lì per i nostri interessi e non dell’umanità. Ci siamo presi le cose che ci interessavano da quel territorio e poi quando loro volevano qualcosa gli abbiamo detto chiaro e tondo “vaffanculo”. Quando noi parliamo dei Brics è, da parte loro, una volontà per avere potere a discapito delle persone o una diversa visione del mondo basato sulla solidarietà e l’uguaglianza effettiva e non solo valoriale?

La verità dei fatti è la seconda, purtroppo, e se durante la pandemia per un attimo eravamo tutti uniti come umanità, ora siamo punto e a capo. C’è una visione profondamente egoista del breve tragitto di vita che viviamo. In questo preciso momento tutti si stanno armando ma si stanno armando sulla nostra ignoranza e a discapito della democrazia. 

Il mondo è complesso, affermazione semplice, lo so. Ma diciamoci una cosa non banale: studiamo, soprattutto oggi che abbiamo molta informazione, dobbiamo capire quale usare per comprendere al meglio e per quanto possibile la diversità delle culture che popolano il nostro pianeta. Proviamo a mettere in discussione le nostre idee, e facciamo qualcosa di rivoluzionario: ascoltiamo le ragioni degli altri. Ascoltiamo e apprendiamo di mondi non nostri.

Autore

17 gennaio 2004 come data fatidica, e da quel momento sono immerso nei libri, nei paesaggi di Sezze e nelle canzoni di Kendrick Lamar. Napoletano di fede e di sangue, ricomincio pure io da tre cose: ascoltare, guardare e parlare, o su questa pagina, scrivere.

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