Vogliamo essere libere, non coraggiose: ripensare le città in un’ottica di genere

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Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.

È notte ed io mi muovo per la città guardinga, attenta ad ogni rumore o figura che si avvicina. Vorrei avere gli specchietti retrovisori come le macchine, penso, così da sapere sempre chi mi cammina alle spalle.

Mentre cambio marciapiede perché dietro di me c’è un gruppo di ragazzi, mi chiedo se quei ragazzi sappiano di star provocando un cambiamento nella rotta che mi porta a casa e, ancora più intimamente, nella mia emotività. Questa paura nasconde in realtà una moltitudine di sentimenti molto più complessa: c’è la rabbia, perché la femminista che è in me non può tollerare che mi stia facendo spaventare da un gruppo di ragazzi, ma c’è anche il senso di colpa perché quei ragazzi magari neanche mi hanno vista, neanche fanno caso a me e io già li sto additando come un possibile pericolo. Pazza, paranoica, irrazionale.

Mi chiedo: perché ancora oggi non siamo sicure a spostarci negli spazi pubblici? E quali conseguenza ha questa paura sulle nostre vite di tutti i giorni? Come potremmo cambiare le città per rendere più sicure?

Una storia che comincia da molto lontano

Per comprendere questo meccanismo bisogna partire da un presupposto storico: il sistema capitalista e patriarcale non prevede la presenza di donne negli spazi pubblici. La stretta divisione del lavoro domestico e di cura svolto dalle donne nelle case, dal lavoro salariato svolto dagli uomini in pubblico, è da secoli presente nella storia dell’umanità, tanto da diventare matrice della maggior parte delle discriminazioni di genere. L’idea che il corpo della donna – e con essa, tutti i corpi “non conformi”, dai corpi disabili ai corpi che non rispettano il binarismo di genere – sia un intruso all’interno dello spazio pubblico, è rimasta costante in tutte le società contemporanee, con le dovute eccezioni e i passi avanti compiuti negli anni grazie al femminismo.

Birgit Jürgenssen, Scrubbing the floor, 1975.

Concentrandoci sulla storia recente e sull’Occidente nello specifico, è chiaro che i cambiamenti arrivati con la rivoluzione industriale durante il XIX secolo abbiano lentamente portato ad una società basata su una stretta divisione dei ruoli e delle mansioni di uomini e donne. Gli studiosi (tutti uomini) hanno cercato di giustificare questa divisione in ogni ambito dello scibile umano, dalla psicologia all’antropologia. La realtà è che questa divisione in “privato” e “pubblico” non è dovuta alla biologia, ma al sostentamento del capitalismo stesso. Nelle parole dell’architetta e ricercatrice Florencia Andreola:

La domesticizzazione della donna mediante l’attribuzione di una presunta maggiore propensione nella gestione dei lavori domestici ma anche nella decorazione della casa è, sin dalla sua nascita, un processo essenziale per la sopravvivenza del capitalismo

Mentre gli uomini vanno a lavoro, fanno politica, iniziano guerre, camminano in strada e tanto altro, le donne rimangono nelle case, cucinano, lavano, crescono i figli, curano gli anziani. In questo modo gli uomini sono liberi da incombenze e possono dedicarsi a tutto il resto. Tutte attività che la nostra società giudica come “private” e “personali” (infatti non vengono retribuite), mentre sono proprio queste le attività base che permettono ad una società di progredire. 

E così le nostre nonne, le nostre madri e perfino noi stesse siamo spesso prigioniere di una città che non vuole di fatto rendere più agevoli i nostri spostamenti, né piacevole la nostra esperienza dello spazio urbano.

Ascoltare le donne: portare il privato nel pubblico

Il punto cardine del femminismo non è capovolgere le dinamiche di potere mettendo le donne al posto degli uomini: si tratta invece di stravolgere questo potere, immaginarne uno nuovo – fare tabula rasa, come scriveva Carla Lonzi. 

Immaginare nuove dinamiche, dinamiche femministe, vuol dire ripensare gli spazi che abitiamo. Gli spazi cittadini sono costruiti in un’ottica individualista: il sistema capitalista elogia la proprietà privata, quindi c’è sempre meno spazio per la collettività. Ma le donne storicamente hanno sempre vissuto proprio di collettività, prima dell’avvento della famiglia mononucleare, e soprattutto di cura, un concetto che negli ultimi decenni è protagonista di molte teorie su quello che dovrà essere il nostro modo di vivere nel futuro. 

Dopo secoli di individualismo capitalista e patriarcale, ripartire dalla cura sembra l’unico modo per salvare il futuro dell’umanità. Innanzitutto, è necessario ascoltare le donne e le altre personalità marginalizzate. Un libro che ha cambiato la mia visione del mondo è “Invisible Women: Exposing Data Bias in a World Designed for Men” di Caroline Criado Perez, un lungo testo che descrive gli effetti negativi sulle donne causati dal pregiudizio di genere nella raccolta di big data. Insomma, chi è incaricato di raccogliere i dati che poi modellano la vita come la conosciamo essenzialmente ignora le esigenze delle donne. Per quanto riguarda gli spazi urbani Perez parla dei mezzi pubblici, della percezione di sicurezza in strada, della fruizione dei parchi e dei bagni pubblici. 

Nonostante la mancanza di dati e di corsi universitari che si occupano del tema (almeno in Italia), ci sono progetti che mirano ad una più equa organizzazione dello spazio pubblico.
Un esempio è l’associazione Sex and the City fondata nel 2022 da Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro, che osserva le città italiane da un punto di vista di genere. Grazie a libri e corsi di formazione le due architette e ricercatrici stanno lavorando per rendere le città più inclusive e sicure per le donne e non solo.

Quindi, cosa possiamo fare? Alcuni esempi concreti

Applicare una concezione degli spazi che sia femminista non vuole dire avallare l’idea che solo le donne debbano sobbarcarsi degli incarichi di cura, ma che questa cura debba essere condivisa da tutta la società a prescindere dal genere: prendersi cura della natura, dei bambini, degli anziani e delle persone fragili in generale, deve diventare un’esperienza condivisa.

Nel corso della storia molte architetture hanno già cercato soluzioni alternative che rendessero più semplice la vita delle donne nelle città. 

Fotografia dell’allestimento della mostra Who Owns Public Space — Women’s Everyday Life in the City.
Fonte: Robert Hutterer, Municipal Archive of Vienna.

L’esempio più virtuso di città di genere, citato sia da Andreola e Muzzunigro sia da Criado Perez, è la città di Vienna. Nel 1991 Eva Kail organizzò un’esibizione dal titolo “Who Owns Public Space — Women’s Everyday Life in the City”, che consisteva in una serie di fotografie che mostravano le abitudini quotidiane delle donne nella città, mettendo in evidenza come i differenti tracciati delle donne nello spazio urbano fossero estremamente complessi e mai ripetibili.

L’esibizione ottenne un’eco enorme, tanto da portare nel 1993 alla realizzazione del complesso di edilizia popolare Frauen-Werk-Stadt I (ovvero Città delle donne che lavorano I). Il complesso venne interamente costruito con l’idea di agevolare il lavoro di cura delle donne e, i suoi obiettivi, sono sviluppare un senso di comunità e la condivisione degli spazi. Al suo interno ci sono un asilo, delle scuole, un ambulatorio medico, una farmacia, un grande supermercato e uno spazio commerciale che ospita alcuni negozi: la prossimità di tutti questi servizi annulla i tempi di spostamento necessari alle donne per compiere i vari compiti di cura. Ma questo non vuol dire relegare ancora una volta questi compiti alle donne, come sottolinea Azzurra Muzzonigro:

Ripensare al sistema della mobilità non vuol dire mantenere questo stato di cose e quindi agevolare il lavoro di cura svolto solamente dalle donne, ma significa invertire la prospettiva: iniziare a mettere la cura al centro della progettazione urbana, a prescindere dal genere che se ne faccia carico.  

Gli edifici si sviluppano attorno a cortili comuni che vogliono aiutare lo sviluppo di un senso di comunità e il cuore di ogni unità abitativa è la cucina, collocando così il lavoro domestico al centro delle attività della casa. Per accrescere il senso di sicurezza, i vani scale sono trasparenti e ben visibili dall’esterno, mentre gli spazi pubblici sono bene illuminati e i parcheggi accessibili solo dall’interno degli appartamenti. 

Non vogliamo essere coraggiose, ma libere: la paura in strada

La sicurezza è, appunto, l’altra tematica centrale. L’associazione Sex and the City ha svolto una ricerca sulla città di Milano volta a mappare il livello di sicurezza che le donne percepiscono nelle diverse zone e strade della città, dal nome STEP UP. Walkability for Women. Nel report finale leggiamo come gli elementi che accrescerebbero la sicurezza delle donne in strada sono: l’illuminazione pubblica, la frequenza dei trasporti pubblici di superficie e la presenza di attività commerciali aperte di notte.

Tuttavia, il livello di sicurezza percepito è influenzato da tanti fattori, alcuni dei quali sfuggono al controllo della pianificazione urbanistica. Si tratta di una questione culturale che mette in pericolo specialmente donne, persone razzializzate e comunità LGBTQ+. 

Le aggressioni e le violenze che subiamo quotidianamente hanno radice più profonda e nasce, come specificato all’inizio di questo articolo, da una mentalità che accetta nello spazio pubblico solo alcuni corpi, mentre altri vengono condannati alla reclusione o, in alternativa, a vivere nella paura. È necessario continuare a lottare per avere gli strumenti per sconfiggere questa paura.

Bibliografia e link utili

Invisible Women: Exposing Data Bias in a World Designed for Men, Caroline Criado Perez Caroline Criado Perez

La cura al centro, per un abitare collettivo di Florencia Andreola

Vienna, realizzare una città di genere di Florencia Andreola

Autore

Romana naturalizzata milanese. Studio arti ma parlo troppo di politica, mi piace quando riesco a unire le due cose.

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