Sulla morte, senza esagerare

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Lo scorso mese, in un’intervista rilasciata al Corriere, la scrittrice Michela Murgia ha rivelato di avere un tumore ai reni al quarto stadio, per il quale starebbe portando avanti un’immunoterapia a base di biofarmaci diretti a stimolare la risposta del sistema immunitario. Nella stessa intervista ha paventato lo scenario più realistico: la cura che segue ha il fine di allungarle la vita quanti più mesi possibile. E poi? E poi, si muore. 

Nei commenti che hanno fatto seguito alla notizia di Murgia, molti si sono detti già addolorati della perdita e molti altri si sono appellati a un miracolo. Al di là  di certi commenti e di quanto poco emotivamente educati siamo al rapporto con l’altro o ad affrontare dibattiti sulla malattia e il dolore, è interessante analizzare brevemente l’operazione che il nostro cervello compie quando qualcuno si mostra dolorante e chiede aiuto: si empatizza

L’empatia è il risultato di un processo cognitivo evoluto e può essere grossolanamente suddivisa in due componenti: una emotiva, più antica, che fa riferimento alle aree cerebrali attivate dalle emozioni nel self, e una cognitiva, che è la consapevolezza di sé, ovvero quella che ci permette di capire che la sensazione che proviamo fa parte dell’individuo con cui abbiamo una relazione, distinta dal sé. 

La parte emotiva viene descritta bene da una scena tipica delle nursery: succede spesso che un bambino che abbia iniziato a piangere, venga seguito dal resto del gruppo, senza motivo apparente. Questo meccanismo automatico, tipico dell’infanzia, può essere considerato una sorta di precursore della relazione empatica e nasce dalla tendenza naturale e involontaria a immedesimarsi nei gesti, movimenti ed espressioni altrui. È una forma di imitazione spontanea e inconsapevole presente negli esseri umani così come in altre specie animali, che ha probabilmente contribuito a originare la tendenza all’aggregazione sociale e alla solidarietà interindividuale anche prima della formazione del linguaggio.

Questo fenomeno viene poi integrato da processi top-down sempre più sofisticati: gli adulti riescono a distinguere abilmente l’esperienza altrui dalla propria; quindi, «sento ciò che senti» diventa «capisco come ti senti». 

Per spostarci dal piano neurale, la chiusa della poesia Ogni Caso di Wislawa Szymborska ci viene in aiuto:

Ascolta / come mi batte forte il tuo cuore.

La stessa Szymborska scrive con la schiettezza e l’ironia che caratterizzano la sua scrittura in Sulla morte, senza esagerare:

Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.

È un’abitudine che non fa abitudine. Alla morte non ci si abitua. Rimane, nonostante la frequenza con la quale si presenta, un fatto nuovo, assurdo, inenarrabile. Nel ripercorrere i grandi temi del lutto e del trauma non si può non citare il sublime romanzo di Joan Didion, L’anno del pensiero magico, che si apre con una nota sui cambiamenti della protagonista a cui è morto il marito: «una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita». 

Il nuovo libro della Murgia, Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi, fa eco a Didion come ad altri grandi autori che prima di lei hanno provato a testimoniare la morte, di sé o di qualcuno che ti è vicino.  Così in Vite che non sono la mia di Emmanuel Carrère, l’autore racconta di essere stato testimone dello tsunami che ha devastato le coste del Pacifico. Durante quell’evento catastrofico si è trovato a sostenere una coppia di connazionali nelle strazianti incombenze burocratiche per rimpatriare il corpo della figlia di quattro anni:

Stamattina era viva, si è svegliata, è andata a giocare nel loro letto, li chiamava mamma e papà, rideva, era calda, era quanto di più bello e più caldo e più dolce ci fosse al mondo, e ora è morta. Sarà per sempre morta.

E, pochi mesi dopo, ha seguito un’altra vicenda parimenti dolorosa, quella che avrebbe portato alla morte per cancro la sorella della sua compagna, Juliette. Carrère riflettendo sulla malattia di Juliette e di Étienne, collega e amico intimo di Juliette, scrive:

Sfoglio il taccuino e mi soffermo, qualche pagina dopo, su un’altra frase copiata da Il cavaliere, la morte e il diavolo che stavo rileggendo in quel periodo: Com’è noto, i tumori di solito per sé non fanno male, a fare male sono gli organi sani compressi dal tumore. Credo che ciò valga anche per la malattia psichica: ovunque sento dolore, là sono io. Ritorno sulle frasi di Étienne, su questa per esempio: La mia malattia fa parte di me. Sono io. Quindi non posso odiarla. […] Susan Sontang, in proposito, ha scritto un saggio bello e degno di rispetto, Malattia come metafora: La spiegazione psichica del cancro è al tempo stesso un mito senza fondamento scientifico e un obbrobrio morale, perché colpevolizza i malati. […] In sordina, dice le stesse cose che dicono Zorn o Cazenave: che il cancro non era un aggressore esterno, ma una parte di lui, un nemico intimo e forse nemmeno un nemico. 

E ancora, in uno scambio intimo tra Étienne e Juliette dopo la prima notte dalla diagnosi: 

Non riesco a vedere la malattia come te, e in realtà non ho neanche capito bene come la vedi tu. Io, lo so che è ridicolo, la vedo lì, come qualcosa che mi sta spiando da quella poltrona.

Ovvero, secondo Carrère: la mia malattia mi è estranea. Mi uccide, ma non sono io.

Il modo con cui battezziamo il dolore, le malattie, la morte, dice quanto sia forte la repulsione a nominare degnamente quello che ci tocca prima, e ci spezza poi. Infatti, il tumore quasi mai è tumore: come riferisce la Murgia nel suo primo racconto è “il brutto male”, “male incurabile”, “il maledetto”, “il bastardo”. O come ho sentito spesso dire da mia madre e la generazione subito dopo: “il male moderno”, “uno dei mali di oggi”, come se prima di oggi, di ieri, di quest’anno, le neoplasie non fossero mai esistite. Fa coppia con il disturbo di depressione maggiore che fino a pochi anni fa veniva derubricato come “esaurimento”.  Della morte lo stesso: non si muore propriamente, si viene a mancare. Si è spento. È scomparso. È passato a miglior vita.

Anche queste diciture hanno una funzione protettiva ugualmente degna: se dico quello che non è, magari non è davvero. Queste fragilità di linguaggio non devono temere vergogna, si possono abitare tutti i piani contemporaneamente, non c’è mortalità nelle cose immortali. Nella vita, per esempio:

I cuori battono nelle uova.
Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all’orizzonte.
[…]
Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia stata immortale.

Wislawa Szymborska, Sulla morte, senza esagerare

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