La pornografia della povertà fa guadagnare soldi e perdere umana decenza

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Stiamo normalizzando forme di sensibilizzazione aberranti, lesive della dignità della persona e ipocrite fino al midollo. Ma forse nemmeno ce ne rendiamo conto.

La pornografia della povertà consiste nella condivisione di immagini sensazionalistiche ritraenti soggetti particolarmente fragili e disagiati, in modo da suscitare la compassione del pubblico e, la maggior parte delle volte, più o meno esplicitamente, trarre guadagno per cause etiche in misura variabile.

Questo meccanismo si declina in molte forme, e sembra adattarsi bene anche a una pluralità di mezzi di comunicazione: riviste, pubblicità televisive e, da poco, anche TikTok.

I connotati più classici della pornografia della povertà sono quelli assunti da spot pubblicitari finalizzati a campagne di aiuto umanitario, generalmente indirizzate a Paesi africani. I filmati mostrano bambini denutriti o malnutriti, allettati o in chiaro bisogno di aiuto. Spesso ciò che colpisce lo spettatore è proprio la ripresa prolungata degli occhi di un neonato che guardano in camera e che, evocativi di aiuto, trapassano lo schermo, arrivando al cuore di chi guarda e -presumibilmente- anche al suo portafoglio.

Ora, lungi da quest’articolo esporre anche la benché minima critica agli aiuti umanitari che ONLUS e Ong si impegnano a compiere dove richiesto. Occorre però interrogarsi sulle modalità con cui i proventi vengono raccolti. Siamo davvero sicuri che il sensazionalismo sia il mezzo giusto? Fino a che punto le finalità giustificano i mezzi?

Le Linee Guida per la Raccolta Fondi degli Enti del Terzo Settore imporrebbero di “evitare il ricorso a informazioni suggestive o lesive della dignità e del decoro delle persone fisiche beneficiarie dei proventi della raccolta fondi”. Riprese che indugiano su stomaci gonfi, costole ben visibili, polmoni che faticano a riempirsi: non possiamo dire che le parole delle linee guida vengano rispettate.

Nel 2015 due giornalisti, Pier Maria Mazzola e Marco Trovato, in un editoriale sulla rivista Africa sollevavano la questione in merito ad uno spot pubblicitario di Save The Children, a loro avviso lesivo della dignità di John, bimbo di due anni protagonista del filmato. L’ONLUS replicò ai giornalisti affermando che grazie a quello spot l’ente acquisì circa 14.000 donatori regolari. Che in così tanti abbiano deciso di dare una mano concreta a chi ne ha bisogno è senza dubbio un bene. Ma le tutele per il bambino? Assenti. Nessuna privacy, ai limiti dello sfruttamento d’immagine.

Per non parlare della generalizzazione che questi spot creano: uno spettatore medio sarà portato a pensare che l’intero continente africano vive nelle stesse condizioni di John, e qualora non possedesse la destrezza mentale di astrarsi dal contesto dello spot visto in TV, rischia anche di essere succube del messaggio che solo attraverso le donazioni caritatevoli dell’Occidente l’Africa può risollevarsi. I veri responsabili della messa in ginocchio di alcune parti di mondo -estrema inequità nella distribuzione della ricchezza, sfruttamento delle risorse e alta instabilità politica- non vengono mai nemmeno menzionati. Fino a che punto allora possiamo tollerare una mercificazione della disgrazia silenzzia le vere cause e che, in nome di un beneficio maggiore, calpesta John e molti altri come lui?

E il peggio è che il fenomeno non sembra volersi arrestare. Anzi, si trasforma. Qualsiasi utente su TikTok ha potuto verificare che ben si adatta agli esperimenti sociali che i creator portano sulla piattaforma. L’ipocrisia di questi video dovrebbe ripugnare. Eppure, l’hashtag che contraddistingue questo tipo di contenuti, #honestytest, conta quasi 62 milioni di visualizzazioni. Riprese di senza fissa dimora a cui viene chiesto un aiuto (soldi, un favore, un prestito) e che, se si mostrano generosi, vengono ricompensati dal creator con denaro, indumenti o cibo. 62 milioni di visualizzazioni per dei video che solo rafforzano il concetto di “povero meritevole” e che sono solo un’esemplificazione di una delle più becere forme di ipocrisia. Perché tutti i proventi del video, siano essi sotto forma di puro guadagno monetario, visibilità sulla piattaforma oppure opinione positiva dello spettatore, rimangono interamente al creator -che, travestito da buon samaritano, mercifica sulla disgrazia altrui. Chi segue questi trend non fa altro che approfittarsi delle condizioni misere di chi non ha nemmeno la possibilità di opporsi a ciò che sta accadendo, forse perché nemmeno ne è consapevole o forse perché, nella situazione disperata in cui versa, il piccolo compenso offerto dal creator è il caval donato a cui non si può, o non si vuole, o non si sa di dover guardare in bocca.

Il trend è sbarcato anche in Italia. Qui, l’influencer che propone questo tipo di contenuto più conosciuto è Peter Ace, che conta 2.9 milioni di follower su TikTok. Sul suo profilo i video che vanno per la maggiore sono proprio quelli in cui il ragazzo si mostra caritatevole nei confronti di clochard.

Un’intera playlist dedicata a “Peppino” (per circa 40 milioni di views complessive), e video ricorrenti con protagonista “Elisabetta”. A quest’ultima Peter Ace in un video affida una valigetta chiedendole di custodirla per dieci minuti. Poi manda un ladro (un attore) a tentare di estorcergliela. La donna la difende e, poiché si è mostrata degna della pietà e della compassione altrui, Peter le comunica che può tenersi i soldi contenuti al suo interno. Musica strappalacrime e discorso motivazionale finale. Tanti applausi, utenti in visibilio e migliaia di like. Sulla scia della pietà del momento, il creator apre raccolte fondi su GoFundMe (di cui non si conoscono con trasparenza i destinatari). Situazione analoga per il format “regalo pizze a dei senzatetto”, con accurato tag della pizzeria più nota di Napoli. Nessun #adv, ma a questo punto che importa? A contare sono solo il sensazionalismo, l’engagement, lo sfruttamento di condizioni e immagini altrui. Un filantropismo macchiato di tornaconto, che ormai è diventato prassi. Un rafforzamento di stereotipi e ignoranza. Un comportamento che dovremmo combattere, e che invece continuiamo a fomentare.

Non perché chi viene esposto non ha idea di essere esposto o delle modalità con cui lo è allora è giusto approfittarsi della sua ingenuità o delle sue condizioni in nome di un beneficio maggiore. È proprio così impensabile battersi per una buona causa senza venire meno a privacy, dignità e rispetto? O forse ci siamo solo abituati a ledere i diritti di chi, quei diritti, per mille ragioni,  nemmeno può sognarsi di difenderli?  

Autore

Letizia Sala

Letizia Sala

Autrice

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