Se nell’ultima settimana siete rimasti chiusi in un bunker o eravate di turno come inservienti sulla Stazione Spaziale Internazionale, forse vi siete persi questa notizia, ma tranquilli sono qui per voi: i Måneskin hanno lanciato Rush, il loro nuovo disco, a quasi due anni dal più che apprezzato Teatro d’Ira vol. 1.
Il sottoscritto si trova in quell’inaccettabile posizione, al tempo dei social, in cui non ama qualcosa ma non sente nemmeno la necessità di sminuirla a suon di pompose ed iperboliche pillole di intellettualismo. Però si sa che in ogni grande comitiva c’è sempre il tipo vagamente saccente che non si limita a dire «non mi piace» (spiegandone magari il perché) ma pretende di convincerci che quella cosa «non merita di esistere», quasi fosse un’anomalia vergognosa, un errore puerile che solo menti illuminate come la sua possono comprendere. Nella grande comitiva che chiamiamo specie umana quel tipo per niente stressante è il “critico”, inteso sia come professione che semplice vocazione.
A proposito di critici, il nome del momento è Spencer Kornhaber, per l’appunto critico musicale e firma del The Atlantic, che proprio in un editoriale pubblicato sulla rivista sembra aver calato la mannaia su Rush e più in generale sul progetto Måneskin. I motivi? Ufficialmente per le canzoni «chiaramente riciclate» e «sfacciatamente mediocri», almeno a suo dire. È una critica faziosa che non sta né in cielo né in terra? Sicuramente no, tutt’altro, ma prima di parlare dell’album bisogna mettere in chiaro l’assurdità di certe idee. Perché ciò che è interessante nell’articolo del buon Kornhaber è l’introduzione, in cui ci dà l’onesto ritratto di cosa gli americani si aspettano dall’attuale musica europea: «spettacolo stile Abba, sciocco e brillante», una fabbrica di pop pittoresco da poter guardare dall’alto in basso, in sostanza.
Il signor Kornhaber ci racconta poi di come nessuno dei presenti al suo party riuscisse a capacitarsi della vittoria dei Måneskin nella passata edizione dell’Eurovision, definendoli «una band da bar in pelle bordeaux» (dicevamo a proposito di intellettualismo pretestuoso). La boria americana è più famosa del loro cheeseburger e si gonfia come la coda di un pavone quando qualcuno prova a fare le “loro cose”. Se quella cosa è il rock poi, aspettiamoci una dose massiccia di insormontabili aspettative.
Tra queste, quella che in primis sta affossando più del dovuto il giudizio sulla band, è l’idea che questi ragazz* debbano essere “la rinascita del rock”, i prescelti per detronizzare il genere pop, segnando il ritorno delle rockstar trasgressive. Una narrativa, tutta americana, che seppur assurda ha avuto innegabilmente successo. Talmente tanto da diventare parte primaria dell’identità della band. E ora una demenziale ironia vuole che siano proprio gli americani ad indignarsi per la storiella che loro stessi hanno costruito (maestri in questo).
Quindi se volevamo avere una scusa per ripetere una cosa ovvia, ora possiamo: il rock generazionale, feroce, antisistema, trasgressivo non rinascerà solo perché i Måneskin stanno scalando le classifiche. Ed il motivo è che nessuna band può essere scioccante se il pubblico e la sua generazione non chiedono più di essere scioccati.
Walk on The Safe Side
Immerso in una gioventù romanticamente utopista, in guerra contro un sistema culturale e sociale avvertito come le fredde sbarre di una cella, il rock ha assorbito l’isteria di quei tempi e la rabbia incosciente della sua gioventù. Ne era venuto fuori un suono e un concetto ideologicamente violento e provocatorio, votato a creare quel trauma culturale che aprisse dei varchi nelle maglie della società civile. Questa era la scena rock dalla fine degli anni 60’ fino ai primi dell’80’, perché quello era ciò di cui si sentiva il bisogno: provocare senza il dovere di contestualizzare, qualcosa di diretto ma elaborato, avanguardismo prima che progressismo. Quella generazione di giovani (non per forza migliore, ma sicuramente diversa) è tramontata, diventando sia storia che mito, così come i suoi idoli.
Oggi quella violenza culturale non attrae il pubblico medio giovanile. E questo perché la generazione z non ha più interesse a brandire la libertà come una spada per offendere, ma anzi lavora per addolcirne e razionalizzarne i tratti. L’obiettivo è legittimare il diverso a tal punto da farlo entrare nelle case e nella narrazione sociale. Che si parli di libertà sessuale, geopolitica, ambiente, questioni sociali, i giovani non urlano più, tutt’al più polemizzano, teorizzano, dibattono. In sostanza i leader ribelli si sono estinti in favore di quelli progressisti, e la ribellione ha lasciato spazio all’affermazione.
In questa fase razionale sembra non esserci più bisogno del mito e delle leggende. Il messaggio dei giovani deve essere chiaro, trasparente e non contraddittorio. Tutto ciò che è esagerato, che è complesso e nuovo, allontana l’interesse delle masse, che cercano invece qualcosa di familiare, che sia rassicurante, innovativo ma mai scandaloso.
I Måneskin si inseriscono perfettamente in questo quadro evolutivo. I quattro ragazz* incarnano al meglio la loro generazione, dalle tematiche di cui si fanno portavoce, al loro modo di parlarne, più spesso di fronte ai microfoni dei giornalisti che sul palco, sempre con un tono fin troppo sotto controllo. La band non vuole scioccare la società e non vuole anticipare la sua generazione, vuole semplicemente farne parte e portarne avanti il messaggio, il che di per sé ha già una sua nobiltà, ma è del tutto insufficiente alla nascita di un mito. Questo è ciò a cui abbiamo rinunciato: la capacità di apprezzare l’arte che sia fuori dal coro, che sia realmente scomoda. Il prezzo da pagare per il nostro attuale pragmatismo è stata la perdita di quel sano amore per l’eroismo, e di conseguenza la capacità di creare leggende.
Ora, come promesso, parliamo dell’album
Rush non è propriamente il primo album dei Måneskin, ma è sicuramente il primo album della loro nuova veste internazionale. La lingua dominante è per la prima volta l’inglese, scelta più che logica visto la struttura del disco, che si presenta in gran parte come un tributo ai generi rock che hanno segnato la band.
Chi è fan delle parentesi post-punk e britpop che vanno dalla fine degli anni 90’ alla prima metà del 2000, o ha seguito l’ascesa dell’indie rock all’inizio del nuovo millennio, proverà uno strano senso di déjà-vu durante l’ascolto.
Mentre la playlist va avanti l’unica cosa che mi conferma siano i Måneskin è la voce inconfondibile di Damiano, che conferisce al sound una sensualità piacevole e carismatica. Ma oltre a questo, ho trovato poco se non nulla che mi trasmettesse una chiara identità di questa band. Si perdono nei loro tributi senza riuscire ad essere credibili in ciò che vogliono emulare. Nei pezzi che richiamano al punk sembra non vogliano alzare troppo la voce, quasi a stare attenti di non risultare troppo sgradevoli.
Più che i ragazzi arrabbiati che dichiarano di essere in Bla Bla Bla e Kool Kids, appaiono come bambini dispettosi in cerca di attenzioni. Promettono per tutto il tempo di essere i tipi che prima o poi fuggiranno di casa, ma non ti danno mai la sensazione di volerlo fare davvero. Le testate italiane hanno esordito con pagine dedicate alla spregiudicatezza di questo album, “il sesso, la fama e la droga dei Maneskin”, ma di scandalo, confessioni e scomodità nemmeno l’ombra.
Le chitarre distrutte durante il concerto a Las Vegas, e il matrimonio poligamo organizzato da Spotify per lanciare l’album, sono l’ulteriore conferma della scelta fatta dalla band, o chi per loro, di confrontarsi direttamente con la memoria rock anglosassone. Ma per ora, dovendo dare purtroppo ragione alla critica, il risultato è un guscio rock dall’estetica sgargiante e giovane, ma che manca di contenuto originale e di un’anima definita. Sappiamo già che c’è del glamour in questi Måneskin, che c’è fame e carisma naturale. Adesso però aspettiamo di vedere il rischio, la capacità creativa, che non si basi più su una scialba tendenza post-moderna alla replica del passato. I Måneskin devono dimostrare di poterci dire qualcosa di nuovo, che i figli del 2000 e quelli dell’epoca d’oro del rock ribelle non potranno suggerirgli. Solo a quel punto avrà senso di parlare di nuova stagione del rock.
Autore
Luigi Briante
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Sono un inguaribile logorroico, nemico giurato del dono della sintesi, ma stiamo scendendo a patti per il bene dei lettori e di chi mi incontra nei pub. Drink preferiti: gin tonic e latte e menta, entrambi rigorosamente con ghiaccio. Professionista da cui traggo ispirazione? Geronimo Stilton. Animale guida: Martin Scorsese.