Ripartire dalla politica come educazione sentimentale

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Luca Mozzachiodi chiude il suo intervento in occasione dell’evento “La biblioteca di Rossanda. Un approfondimento di Rossana Rossanda, la critica, la letteratura“, con un interrogativo sempre attuale: «Esiste un modo di accedere alla politica che non implichi che questa sia un’educazione sentimentale?».

La questione che, in altre parole, ci pone è: se l’educazione sentimentale della politica rende viva e attiva una comunità civile nel presente e non la fa precipitare nella depressione e nella disillusione, possiamo oggi non considerare la politica educazione sentimentale?

Per tentare di rispondere bisogna innanzitutto sciogliere un nodo, ossia comprendere cosa possa significare rappresentare la politica come un’educazione sentimentale, in quale modalità ci si è pensati individui e società e perché queste modalità hanno costituito i binari della rivoluzione.

Per farlo possiamo aiutarci con l’esempio di Rossana Rossanda, militante, giornalista, scrittrice, traduttrice italiana e cofondatrice de Il Manifesto. L’interrogativo è, infatti, sollevato da uno scritto di Rossanda, “Un viaggio inutile“, del 1981. Il libro in forma diaristica-romanzata narra del suo viaggio nella Spagna franchista nel 1962, come inviata rappresentante della commissione di cultura, per solidarietà con il popolo nell’appello al volere della democrazia. Un viaggio che dodici anni dopo reputerà doppiamente inutile: inutile per l’ospite, un animale politico in un paese spoliticizzato e inutile per quel paese in stallo, dove tutto appariva permesso ma in cui in realtà nulla era concesso perché non esisteva la politica.

Rossanda fu un personaggio emblematico e di partecipazione attiva di quegli anni, un’intellettuale che ha abbracciato tutte le lotte, parte fondante del PCI e dirigente della Casa della cultura che persino il suo partito disapprovava per la matrice avanguardista ed europea, e, più in la, femminista. Dalle compagne del movimento ha ammesso di aver appreso tanto, ha imparato a restituire il riconoscimento della sua identità di donna. Ha pensato e scritto la rivoluzione, ma anche la sua caduta, nella forma di una delusione personale:

La colpa era di aver pensato la società come terreno di rivoluzione, mentre le rivoluzioni erano moltissime o nessuna; inafferrabili o desinate a trasformarsi nella sanguinosa caricatura di se stesse.

Una donna che ha identificato sé stessa nella militanza e la militanza in un collettivo di uomini che si muovevano e chiarivano la loro esistenza perché credevano di poter cambiare.

Noi eravamo il corpo, la vita del partito, la gente che si mette insieme pensando di poter cambiare. Lavorare a quel livello significava scremare, conoscere il prossimo.

Nel connubio semplice e limpido di politica e letteratura è riuscita a lasciarci in eredità l’immagine di una tra le esperienze politiche più ricche e radicali, in cui la donna e l’uomo politici vedevano il mondo dalla loro stanza e la stanza come parte del mondo. Questo in un orizzonte internazionale e comunitario che potremmo definire ontologia sociale, che struttura la politica come un progetto di essere nel mondo. Già solo nel pensiero di questo progetto, quegli uomini e quelle donne hanno un riconoscimento, una libertà, in un certo qual modo una salvezza.

Tale progetto si nutre di laicità e, come scrive Rossanda, del critico tentativo di organizzare l’infinità del reale in uno schema di interpretazione e cambiamento, perché una società come una persona è anche quel che pensa di sé, che non sempre corrisponde alle verità del suo essere ma alle verità delle sue intenzioni di conservazione e mutamento. Quando esse cambiano la società stessa cambia. Se una società smette di pensare di poter cambiare, cesserà anche di pensarsi, laddove il pensarsi è da intendersi nella misura di una propriocezione. Cesserà di attribuirsi una forma o, più strutturalmente, di formarsi – di considerarsi un sistema. Il cambiamento è allora un’istanza vitale, una forma di vena pulsante costante al di là della morte stagnante.

Questa la sentimentalità dell’educazione come politica e il suo lato oscuro, sconfitto, da cui ci mette in guardia la versione della figura di Martin Santos. Soprattutto quando il profilo militante della società civile si smaterializza o si frantuma senza possibilità di veloce risoluzione, si corre il rischio di innamorarsi di una battaglia sulla quale proiettiamo aspettative di rivoluzione che possono venire anche presto tradite. La storia non ha incarnato il corso che le si voleva dare e la delusione conduce gli individui alla dissoluzione della propria forma.

All’idea, nucleo archetipico del pensarsi, si è sostituito il fantasma ancestrale. L’individuo si ritira, si passa dalla passione per le mobilitazioni collettive al desiderio della felicità individuale, il sistema è bloccato e nel calderone sorgivo inizia il riflusso. Il riflusso è forse lo scarto magnetico del sovvertimento simbolico e di quello fattuale. Sono gli anni ’70-‘80 e Rossana Rossanda cavalca l’onda di quello che in Spagna corrispondeva invece al “desencanto”. Si tratta sul piano storico di un rapporto tra società politica e società civile di lontananza e vicinanza alternati. La com-partecipazione lascia il posto ad agglomerati di solitudini perché le ripetute sconfitte avevano incrinato le sicurezze ideologiche. Se la militanza veniva meno era perché il senso di identità per cui il progetto era valso entrava in crisi dissacrando le ambizioni rivoluzionarie.

È la grande depressione; non quella economica. Quella degli anni settanta, dei quali forse gli storici diranno che l’economia fiorì, crebbero le cose e perirono soltanto gli uomini.

Cosa è venuto a mancare se non l’educazione sentimentale alla politica?

Un quesito aperto all’avvenire

La relazionalità attivistica era la linfa vitale di un pensiero critico che ha smesso di nutrire una prospettiva partitica all’alba del suo declino. Luca Mozzachiodi a ragione riconosce nel cittadino contemporaneo il figlio di quella stanchezza e tuttavia quale erede chiama in causa? Cosa è rimasto a noi oggi dello spirito partigiano della formazione rossandiana? Quale il filo dialettico tra pensarsi società e viversi essere sociale?

Rispondiamo al quesito iniziale che pure rimarrà aperto all’avvenire: si sono sviluppati nuovi modelli mentali e comportamenti concreti, la pragmatica della frantumazione civile e politica è un retaggio che ha modificato la grammatica dell’ontologia sociale, ma non è la fine del pensiero critico e con esso saranno sempre possibili rivendicazioni nuove e continue. Forse ormai solitudini e ancestrali fantasmi, alter-ego delle idee, abitano il legame etico delle nostre voci, ma una speranza, un sentimento potrà ancora essere politico. Continuiamo ad esplorare gli interrogativi emergenti per non dimenticarci della sua idea di politica, per capire come recuperarne il valore. Non abbandoniamo il principio (de)ontologico del diritto al cambiamento, anche in una contemporaneità iperindividualizzata.

Autore

Laureata in Lettere, studio Filologia Moderna a Padova. Con la passione del viaggio e dei pellegrinaggi, mi addentro tra lingua, storia, cultura e paesaggio. Saggistica, cinema e arti visive. "Il femminismo è stato la mia festa".

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