Per un racconto in musica della Generazione Z: “Correre” di Anastasio e “Fallirò” di gIANMARIA

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«Il futuro ci spaventa più di ogni altra cosa» cantano gli Psicologi in una loro famosa canzone, in cui raccontano sogni e incertezze dei ragazzi della propria generazione, costantemente scissi tra il desiderio di lottare per il raggiungimento dei propri obiettivi e la paura di non farcela. 

Del resto, avere paura del futuro, quando si è giovani, è inevitabile. Se poi a questa paura aggiungiamo anche l’incertezza data dal periodo storico in cui stiamo vivendo, il tutto diviene ancor meno confortante. 

Molto spesso, però, questa paura rischia di non essere capita e, addirittura, minimizzata, complice anche la tendenza a raccontare la nostra generazione attraverso la voce di chi non ne fa parte; adulti che assurgono a censori e che, nella maggior parte dei casi, ci rappresentano attraverso una marea di stereotipi che non ci rispecchiano veramente.

Quello che voglio proporre è, per questa ragione, un racconto in musica della Generazione Z dal punto di vista di chi a questa generazione appartiene. La musica, infatti, può essere spensieratezza e intrattenimento ma, anche e soprattutto, un modo per dar voce a se stessi e farsi ascoltare; strumento di catarsi e cassa di risonanza per le proprie emozioni. 

Anastasio e gIANMARIA, due artisti indubbiamente differenti nel loro approccio alla musica, ma ugualmente coraggiosi nel loro modo di raccontare la vita, offrono, infatti, nelle loro canzoni, Correre e Fallirò, un ritratto sincero e diretto della propria generazione, mettendo a fuoco non solo ansie e paure, ma anche una grandissima voglia di riscatto. 

 

La penna tagliente di Anastasio: per una rappresentazione sincera dell’essere umano

Tutti – o quasi – ci ricordiamo di Anastasio, rapper classe 1997, vincitore della dodicesima edizione di X Factor, soprattutto, perché, sin dai casting, si era fatto notare dal pubblico per un’invidiabile capacità di scrittura, sia per le barre scritte su Generale di Francesco de Gregori, sia grazie al suo inedito, La fine del mondo, in cui, facendo cadere i cliché di quella che lui stesso ha definito «l’estetica dell’ansia», ci ha offerto un racconto crudo e sincero della depressione: dall’impossibilità di affrontare anche gli eventi più minuti della vita di tutti i giorni alla costante lotta tra chi soffre di depressione e il mondo che lo circonda. 

L’impatto emotivo del brano è innegabile, soprattutto perché all’ammissione sincera e disperata del proprio dolore si lega, inevitabilmente, una richiesta d’aiuto che si fa espressione della voglia di non soccombere, frutto della consapevolezza che non tutto è perduto: «io voglio un mondo che finisca degnamente, che esploda, non che si spenga lentamente».

«Io sono sicuro soltanto del fatto che sono insicuro»:  Correre

C’è però un’altra canzone, altrettanto bella e, soprattutto, sincera, in cui il rapper affronta non solo il difficile rapporto tra i giovani e la società ma anche quello tra la generazione dei padri e quella dei figli; Correre, scritta in occasione di un’ospitata al Festival di Sanremo del 2019.

Il brano inizia con l’imperativo «Tu devi Correre!» che da subito vuole farsi espressione di quella spinta costante alla competizione che subiamo sin da bambini. L’invito che ci viene fatto, partendo dal contesto scolastico, per poi arrivare al più ampio contesto sociale è, infatti, di fare in modo di essere sempre migliori degli altri, come se ciò potesse rappresentare la via maestra per il raggiungimento della felicità:

In quarta elementare m’hanno detto di sognare perché il mondo stava pronto per risorgere / E sarebbe stato mio, dovevo solo correre e gli altri si mangiassero la polvere.

Questo invito a correre per arrivare primi, nella maggior parte dei casi, viene accolto con entusiasmo, nella speranza di ottenere il meglio, ma, giunti a vent’anni, ci rendiamo conto che quel quadro roseo del nostro futuro che gli adulti ci avevano dipinto nei loro racconti altro non era che una vana illusione e che correre, cercando sempre di essere un passo avanti agli altri, non è servito poi a molto, se non a inseguire una meta che non esiste. Ed è proprio a questo punto che nasce la necessità di lamentarsi, di chiedere spiegazioni:

Vorrei parlare con il titolare, voglio spiegazioni, voglio lamentarmi. Voglio i miei vent’anni. Voglio delle scuse ed il rimborso danni.

L’ideale dei vent’anni che c’eravamo fatti da bambini, ascoltando i racconti dei nostri genitori e degli insegnanti, in realtà, non esiste. Se, infatti, per loro, nella realtà sociale ed economica in cui sono cresciuti, realizzarsi – almeno nella maggior parte dei casi, perché qui nessuno vuole generalizzare – non è stato poi così difficile, per noi, al giorno d’oggi, risulta estremamente complesso. E qui, allora, la domanda di Anastasio e le successive considerazioni aprono la strada a riflessioni infinite su quello che, ancora oggi, si pone come un conflitto intergenerazionale tra padri, che non capiscono i figli e li accusano di avere poco spirito di adattamento alle richieste della società, e figli che gli rispondono che, prima di attaccare, dovrebbero fare un mea culpa, o quantomeno, una riflessione sul mondo che ci hanno lasciato:

Vecchi come state? Vi state godendo la festa? / Io non lo so mica, mi manca il respiro, a tratti mi gira la testa / Mi hanno educato per vivere in bilico.

Anastasio si fa rappresentante della propria generazione per muovere un’accusa, a tratti sarcastica, alla generazione dei padri che, dopo aver pensato solo a se stessa, ci ha lasciato un caro prezzo da pagare, rendendoci, tra l’altro, vittime di una sorta di circolo vizioso: spinti a una continua ricerca di consenso, legittimiamo sempre di più gli altri a sentenziare sulle nostre esistenze e a decidere per noi.

Ci vogliamo affermare, ma sbattiamo nel muro / Siamo chiunque, non siamo nessuno / Io sono sicuro soltanto del fatto che sono insicuro / Passo le ore ad aggiornare una pagina solo a vedere chi mi ama e chi no. / Bruciano gli occhi, lo schermo mi lacera, guardo la vita attraverso un oblò.

Nel frattempo, ci viene detto, continuamente, che per andare avanti dobbiamo adattarci. Che il mondo va così e che dobbiamo imparare a starci dentro:

Per essere quello che vuoi, devi scordarti di quello che sei.

È questo l’imperativo sociale. Anastasio lo ripete più volte, in chiave ironica e dissacrante. In perenne lotta con il nostro senso di inadeguatezza, infatti, spesso rischiamo di adattarci a questi principi: dimenticarci chi siamo, per essere ciò che vogliono gli altri. Ma questa non è altro che la chiave dell’infelicità. La reiterazione di questa frase, quasi come un mantra, serve proprio a farla implodere: quella che sembra un’ammissione rassegnata, infatti, è un vero e proprio invito a non rassegnarsi; ad essere ciò che sogniamo, non ciò che gli altri vorrebbero che fossimo. 

La musica di gIANMARIA: per conferire dignità a ogni emozione

gIANMARIA, proprio come Anastasio, si è fatto conoscere sul palco di X Factor con un’esibizione piena di coraggio. Se, infatti, il rapper napoletano si era presentato al pubblico affrontando il tema, per niente facile, della depressione, il giovane cantante vicentino – classe 2002 – ha portato alle audizioni una canzone dal titolo I suicidi, sviscerando, a soli diciannove anni, uno dei più grandi tabù della nostra società, in un modo così diretto da lasciare senza parole. 

gIANMARIA, infatti, nel raccontare il suicidio, ha fatto la cosa più difficile di tutte, ma anche l’unica che andrebbe fatta nel trattare tematiche del genere: empatizzare con le vittime. 

Pronunciando, uno dopo l’altro, nomi di persone comuni – Laura, Marco, Anna, Pietro –  ed elencando le ragioni dei loro gesti, gIANMARIA ha dato un nome agli invisibili e ha disegnato i loro volti, mostrandoceli uno ad uno, con straordinaria sensibilità.

Subito dopo l’esibizione, sui vari social, tra migliaia di commenti, per lo più positivi, c’è però chi si chiede il perché di tutta quella tristezza e perché un ragazzo così giovane parli di un argomento del genere. Ma, perché non dovrebbe farlo? Nell’arte come nella vita bisognerebbe conferire dignità ad ogni storia, ad ogni emozione, proprio come ha fatto gIANMARIA nel suo brano.

Abbracciare ed esorcizzare il fallimento: Fallirò

gIANMARIA ha mostrato grande coraggio e sensibilità anche nella scelta della title track del suo album, Fallirò, nata come il racconto di una storia d’amore e trasformatasi, durante la fase di scrittura, in un abbraccio caldo e appassionato alla possibilità del fallimento.

La paura di fallire è una sorta di spada di Damocle che grava, in maniera più o meno stabile, sulle nostre teste: la proviamo a scuola, all’università e, soprattutto, quando, una volta finiti gli studi, ci approcciamo al mondo del lavoro. Proprio perché, alla luce del discorso fatto in relazione alla canzone di Anastasio, l’ambiente in cui siamo cresciuti ci ha educato molto alla vittoria e, purtroppo, molto poco alla sconfitta. 

Poi c’è gIANMARIA, un artista di diciannove anni che pubblica il suo album d’esordio e lo intitola proprio Fallirò, un po’ per esorcizzare la paura del fallimento, un po’ per riconoscerne la possibilità o, addirittura, la necessità. In un mondo finalizzato alla performance, in cui il fallimento assume sempre una connotazione negativa e tende ad essere rimosso o stigmatizzato, gIANMARIA  riconosce che questo fa parte della vita e accettarlo, in un mondo che ci vorrebbe invincibili, rappresenta un primo e grande atto di coraggio.

L’accettazione dei propri dubbi e delle proprie angosce, espressa all’inizio del brano –  «non placo nessun problema, arrivan tutti la sera, mi sporco questa notte, mi ripulirò» – è il primo passo per fare i conti con se stessi e prepararsi ad accettare qualcosa di più doloroso, come, appunto, il fallimento

Quel «Fallirò, credi troppo in me», quasi urlato, ripetuto più volte nel corso del brano non è, infatti, un tentativo di autosabotaggio, ma un grido di ribellione nei confronti delle aspettative altrui da cui, spesso, rischiamo di essere schiacciati. Quello di gIANMARIA non è un partire sconfitti, ma, anzi, una spinta a fare sempre del nostro meglio e ad accettare la sconfitta nel caso in cui questa dovesse arrivare.

A prescindere da tutto, infatti, nelle parole di gIANMARIA, proprio come in quelle di Anastasio, non c’è rassegnazione alcuna. Al massimo un po’ di amarezza, a cui, però, fa da controparte un invito velato, ma più che mai appassionato, a reagire ai dettami della società, preservando il peso indiscutibile della propria unicità.

Autore

Classe 1997. Ho una laurea in Italianistica ma provo a scrivere di musica mentre sogno la sala stampa di Sanremo.

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