Nel collettivo immaginario di tanti spettatori, Singin’ in the rain si è accreditato lo status non di musical, ma di Musical. E non potrebbe essere diversamente, considerando che il film è proprio un omaggio alla nascita stessa di questo genere così popolare, a cui è stata purtroppo attribuita l’infelice etichetta di “film dove ci si diverte troppo”.
Ma l’indebita poca considerazione per i musical ha recentemente subito un upgrade, dato l’enorme successo di un film come La la land (2016), che strizza l’occhio al suo predecessore con il ricorso a dettagli sottili ma rilevanti: avete fatto caso al vestito giallo indossato da Emma Stone durante il ballo al chiaro di luna sui colli losangelini? Non vi ricorda i famosi impermeabili di Kelly e Reynolds, protagonisti del film tanto quanto i personaggi in carne ed ossa?
L’uso del Technicolor in Singing in the rain
Singin’ in the rain è una pellicola del 1952 diretta da Stanley Donen e Gene Kelly, i cui protagonisti sono lo stesso Gene Kelly e Debbie Reynolds. Parla degli effetti del sonoro sul cinema muto degli anni Venti, aspetto che dona al film un’importante qualità metacinematografica. Il film esce durante il periodo d’oro del musical hollywoodiano, presentando un recupero dei più celebri brani dei musical degli anni Trenta: primo fra tutti quello che dà il titolo al film. Vengono rievocate le origini stesse di questo genere e la formidabile struttura narrativa permette di ricreare una sorta di “backstage musical”che racconta gli esordi di una casa di produzione che si accinge a girare il primo lungometraggio di questo tipo.
L’idea di raccontare un film nel film dà modo di osservare nel dettaglio i meccanismi di produzione cinematografica, mettendo in luce la natura autoriflessiva del film e anche le difficoltà legate alla messa in scena del musical stesso. Una delle sequenze più emblematiche, infatti, è la dichiarazione d’amore di Don Lockwood (G. Kelly) a Kathy Selden (D. Reynolds), che avviene sul set ancora in costruzione, dove tutto è palesemente finto, ricostruito, ancora approssimato. Ci sono scale e pezzi di sceneggiatura a vista, che nascondono, però, un elogio ai meccanismi che animano il lavoro cinematografico. Sullo sfondo, in ogni caso, non può mancare un impeccabile tramonto, tipico dei film hollywoodiani. Si tratta della scena di un corteggiamento speciale, perché è una dichiarazione d’amore alla finzione cinematografica stessa, che con la potenza dell’illusione regala la magia di un sogno realizzabile. Anche la coreografia di questo duetto viene ripresa in La la land.
Il racconto del trauma tecnologico che ha costituito l’introduzione del sonoro fa leva sull’uso del technicolor: l’esaltazione dei colori (primo fra tutti quel giallo brillante che non esiste in natura) è un modo per mettere ancora più in rilievo la spettacolarità delle coreografie presenti nei musical degli anni Trenta.
La Nuit américaine: l’effetto notte di Truffaut
Poco più di una ventina d’anni dopo l’uscita in sala di Singin’ in the rain, un grande amante di questa pellicola, François Truffaut, si cimenta con la realizzazione di un altro film metacinematografico: Effetto notte (La Nuit américaine) del 1973 e vincitore dell’Oscar nel 1974 come miglior film straniero, nonché inserito dalla rivista Times nella lista dei 100 film più belli di sempre. Ciò che accomuna i due film è la loro profonda natura autoriflessiva e il fatto che anche in questo caso l’autore della pellicola ne è uno degli interpreti. Effetto notte, inoltre, è autoprodotto: esce per la casa di produzione Les films du Carrosse, omaggio al grande regista Renoir, finanziata dal suocero dello stesso Truffaut. Anche in questo caso non mancano omaggi e citazioni, ad esempio quelli destinati alla grande attrice Lilian Gish e alla sorella Dorothy, a cui il film è dedicato.
Il titolo è già di per sé un elemento autoriflessivo: si tratta, infatti, della denominazione di una tecnica cinematografica che consiste nel rendere notturna una scena girata in pieno giorno, tramite l’apposizione di un filtro blu (in francese definita appunto “notte americana”).
La pellicola racconta la storia della produzione di un film fittizio, intitolato Vi presento Pamela (Je vous présente Pamela) ed è in parte autobiografica: durante tutto l’arco temporale della produzione le vicende dei personaggi si intrecciano con le dinamiche di set, in cui i rapporti tra attori, troupe e regista diventano un groviglio inestricabile. Riversando nel cinema tutto il suo amore, sceglie di raccontare il “dietro le quinte” della genesi di un film, rispondendo non solo alla domanda “come si gira un film?”, ma “come gira i suoi film Truffaut?”. Dunque, anche in questo caso l’effetto di “film nel film” è una chiave di lettura esplicita ma sofisticata: la troupe dello pseudo film indossa sempre gli stessi vestiti, come se ci si trovasse in una dimensione onirica, con la macchina da presa che danza nel riprendere i personaggi. Molto emblematico è il piano sequenza iniziale, dove anche la gru usata per girare lo pseudo film diventa parte integrante dell’inquadratura, rivelando i meccanismi di messa in scena dell’opera cinematografica.
Anche in questo caso non mancano aneddoti a colorire i retroscena: Effetto notte diventa il pretesto di rottura tra il regista e Godard, che lo accusa di non essere stato sincero nel descrivere il mondo cinematografico. In sostanza, il messaggio godardiano è: il cinema non è questo!
I film di Godard, infatti, sono più “umani”, in un modo, però, che a Truffaut sembra ugualmente menzognero, tanto da spingerlo a criticare il collega per la sua tendenza ad ergersi su un piedistallo, “come un dandy che disprezza chi sta più in basso”. Una delle battute più celebri, forse, con cui Truffaut ribatte è quella in cui dice che Godard ha tre lavori: il suo, quello di critico cinematografico e quello di “magistrato del gusto”.
Rispetto a quello statunitense vi è sicuramente una diversa concezione nell’uso dei colori, ma in fondo gli effetti di luce e filtri utilizzati in Effetto Notte e l’uso del Technicolor in Singin’ in the rain mostrano modi alternativi di sfruttare le diverse tecnologie cinematografiche, intraprendendo strade che non si escludono a vicenda, ma consentono di dare alle pellicole una cifra stilistica peculiare e riconoscibile.
Autore
Nata e cresciuta a Roma, ma di origini partenopee, misuro gli anni in primavere. Sebbene sia nata sotto un segno di fuoco, l'acqua è il mio elemento: che sia mare, fiume, lago o una piscinetta gonfiabile per bambini. Come per ogni brava studentessa di Lettere e aspirante scrittrice/giornalista/comunicatrice, sul mio comodino la pila dei libri da iniziare o appena comprati è sempre più alta di quella dei libri da finire. Segni particolari: una costellazione di nei.